Ritratto di G. Murat in una tela di Gérard
GIOACCHINO MURAT Gli ultimi tredici giorni del 'Prode dei Prodi'
di Mario Mazzucchelli (1931)
La flottiglia che lascia la rada di Ajaccio si compone di 6 grosse barche a vela latina denominate << gondole >>. Sulla << Sant'Erasmo >>, comandata dal capitano Barbara, corsaro maltese un giorno al servizio di Napoli, s'imbarca il Re con 29 compagni. Sulla << Misericordia >>, comandata dal capo-battaglione Caurraud, 50 soldati; sulla << Concezione N. 1 >>, comandata dal capitano Ettore, pure 50 soldati e così sulla << Concezione N. 2 >>, comandata dai capitani Mattei e Giacometti. La << Vergine del Carmine >> porta un contingente di 48 uomini ed è comandata dai capitani Semidei e Medori. La flotta annovera pure una feluca, << La Volteggiante >>, condotta da padron Cecconi. In tutto, il Corpo di spedizione conta 298 uomini. Parecchi compagni di Murat come il generale Ottavi, il comandante Poli, Blanchard, Anglade, Donadieu, dopo essersi abboccati con il Carabelli rifiutano di prender parte all'avventura tentando di dissuadere anche il Re, ma inutilmente. Quali i piani e le intenzioni al momento della partenza da Ajaccio? Sembra che Murat, a detta del Carabelli, voglia dapprima sbarcare a Salerno, ma poi decide di scegliere Bagnuoli. Secondo il Galvani, invece, avrebbe intenzione di sbarcare a Puozzuoli, di qui recarsi al Vomero, presso il Duca del Gallo o il Principe di Belvedere, radunare partigiani e tentare un colpo di mano sulla capitale. Altre testimonianze sostengono che egli avrebbe voluto, al contrario, sbarcare a Granatello, recarsi a Portici, mentre vi si trovava la Corte, invadere il Palazzo Reale - di cui ben conosceva le scale segrete conducenti agli appartamenti regi - e far prigioniero Ferdinando. Alle 11 di sera la cittadella di Ajaccio saluta con un colpo a salve la partenza della spedizione. All'alba la flottiglia è dinnanzi all'Asinara e, dato il vento contrario, tutto il corpo sbarca nell'isola. Il capiatno Barbara, per ordine del Re sale su una collina per osservare se vi siano bastimenti in vista. Ecco una nave spagnola; si tenta impadronirsene, ma l'equipaggio di quel naviglio, temendo aver a che fare con pirati, vira di bordo e si dirige verso la Maddalena. La flottiglia dopo qualche ora riprende la navigazione. A Tavolara nuova fermata: tutti sbarcano; il Re passa in rivista le sue truppe e distribuisce ai suoi uomini 40 uniformi acquistate ad Ajaccio. Il 1° Ottobre, alla una del mattino, le << gondole >> fanno vela per la Calabria. Murat manifesta l'intenzione di sbarcara a Cetraro, dove regna, si dice, il più fanatico filo-muratismo. All'alba del 5 Ottobre ecco nella foschia il golfo di Napoli ed il Vesuvio: si è sbagliata rotta e occorre ripiegare verso sud. Il 6 la flottiglia è in vista di Paola e si prepara ad ancorare nella piccola baia di San Lucido quando, improvvisamente, un colpo di vento allontana le barche dalla costa e le disperde. Nel pomeriggio la Sant'Erasmo e la Volteggiante son sole di fronte a San Lucido. Gioacchino dà ordine di bordeggiare ed invia la feluca di Cecconi alla ricerca delle altre navi. La dispersione delle sue poche forze lo avvilisce. Ci dice il Galvani, che ha fatto parte di questa spedizione: << Il Re è tanto assorto da non udire alcun discorso >>. Dopo qualche ora sembra risolversi a sbarcare ad Amantea. Secondo il Barbara qui vi son molti partigiani del Re. Ma ecco improvvisamente la Misericordia del capitano Caurraud. Due ufficiali, che fan parte di quel naviglio, Pernice e Multedo, raggiungono la Sant'Erasmo e prevengono il Re che il loro capo sembra sospetto: scoraggia gli uomini! Murat ha un colloquio con Caurraud ed ordina che la Misericordia sia presa a rimorchio, ma nella notte si è obbligati a tagliare il cavo ed il mattino, allorchè si giunge ad Amantea, Caurraud è sparito. Incontra in mare la Concezione N. 1 con il capitano Ettore e gli annuncia che il Re ha rinunciato alla spedizione e che si dirige su Trieste. Ettore si lascia persuadere e le due << gondole >> ripartono per la Corsica. Murat è ormai solo, con i trenta uomini della Sant'Erasmo ed i pochissimi della Volteggiante. Che fare? Una sola soluzione è ragionevole: raggiungere Trieste, grazie al passaporto austriaco. Infatti il Re ordina di far vela per la Calabria ulteriore ed annunzia ai suoi uomini d'essere deciso a recarsi a Trieste, Un istante dopo ordina a Galvani di gettare in mare il sacco con i proclami ai Napoletani stampati ad Ajaccio. I Corsi accolgono la decisione con gioia, poichè, scrive uno di loro, << oltre prometterci la prossima fine delle nostre sofferenze, ci rassicurava che la vita del Re era salva e che non si sarebbe più esposto al caso >>.
La piccola flotta di Murat si avvicina alla terra di Pizzo, in una incisione dell'epoca.
Le provvigioni sono però finite: la feluca e la gondola reale non possono affrontare, al di là del faro di Messina, i soliti colpi di vento ed il mare assai mosso; sembra perciò prudente sbarcare qualcuno per acquistare provvigioni e noleggiare un bastimento. Barbara è designato a questo effetto: sbarcherà al Pizzo, il porto più vicino, dove dice d'avere molti amici. Chiede però al Re d'affidargli il passaporto austriaco. La domanda sembra ragionevole: come sarebbe sbarcato Barbara, come si sarebbe presentato alle autorità ed avrebbe noleggiata una nave, privo di documenti? Ma Murat non si fida troppo del maltese e la richiesta gli ispira gravi sospetti. Se la gondola fosse avvistata da qualche nave da guerra napoletana quale sarebbe la sorte di Murat e dei suoi compagni? In ogni caso la domanda di Barbara non è accolta e siccome questo insiste, dicendo di non poter sbarcare se non fornito di documenti in regola, si ha dal Re questa risposta: << - Ebbene, sbarcherò io stesso >>. E' ben questa una delle solite avventate decisioni di Murat. I suoi uomini credono fargli quakche timida osservazione: << - Sire, siamo troppo pochi... Non ci resta più alcun bastimento... I giorni di V. M. son troppo preziosi... La prudenza esige di non esporsi così... >>, Risponde Murat, secondo il Galvani: << - No, non è il numero che può ridarmi il mio trono... E' l'amore, è la fedelta dei miei sudditi che me lo garantiscono. Che? Incrollabile tra tante battaglie mi dovrei lasciar sorprendere da paura in questo affare? Andiamo, amici miei, questa terra m'ispira fiducia >>. Racconterà, qualche mese dopo, il suo primo cameriere, Carlo, alla Regina Carolina: << Il Re, il 7 Ottobre, si alzò allo spuntar del giorno. Fu circondato immediatamente dai suoi ufficiali. Disse loro, guardando tristemente la Calabria: << Signori, sono assai sensibile alla devozione da voi testimoniatami, ma non credo sia prudente scendere a terra così in pochi. Vorrebbe dire sacrificar la vita di coraggiosi come voi. Ritornate, signori, in patria sulla piccola feluca che mi resta. Quanto a me, voglio abbandonarmi al mare senza sapere ove la sorte mi getterà... Ad ogni modo troverete sempre in me il padre e l'amico. Vi prego d'accettare questa borsa con 1000 franchi: è tutto ciò che posso offrirvi per aiutarvi a raggiungere il vostro paese. >> Il Re, durante questo discorso, era assai commosso. Gli risponde il generale Franceschetti: << Dopo avere superato tanti ostacoli e tanti pericoli per giungere sulle coste della Calabria non concepisco chi possa imedire a V. M. d'entrare nel suo regno, in cui tutti i cuori battono per lei. Con i sentimenti che V. M. ispira che bisogno vi è d'armi e d'esercito? La vostra sola presenza, Sire, è terrore pei vostri nemici e speranza pei vostri sudditi fedeli. Chi oserà resistervi? Il vostro sbarco rappresenterà la più brillante epopea della vostra storia! Quanto è bello, Sire, eseguire grandi cose con piccoli mezzi! Ciò non è riservato che agli eroi! A terra! A terra! - grida il generale - Evviva Gioacchino! >>. Carlo, il suo primo cameriere, non vuol rinunciare ad un'ultima esortazione di prudenza: << - Non sbarcate, Sire; se sbarcate siete perduto. Voi non avete mai voluto ascoltare i vostri fedeli servitori >>. Gioacchino alza le spalle e non lo ode. Per impedire ch'egli cerchi d'imitare Napoleone al Golfo Juan, occorrerebbero ben altri argomenti che non quelli di un povero domestico! Riveste un abito azzurro, con spalline d'oro da colonnello, candidi pantaloni di nankino e mette un cappello a tre corni, decorato da un'enorme coccorda di 22 grossi brillanti. E' armato di sciabola e due pistole. Dà ordine a Carlo di fare i preparativi necessari per seguirlo con i bagagli a Monteleone ed ingiunge infine al capitano Barbara di trattenersi per un'ora a tiro di fucile dalla riva e dirigersi, in seguito, verso il pontile di sbarco per attendervi gli avvenimenti. Il vento soffia verso la spiaggia e l'approdo è facilissimo: il Re, per primo, vuol metter piede sulla terra napoletana. E' seguito dalla sua truppa. Due generali: Franceschetti e Natale. Quattro capitani: Galvani, Lanfranchi, Biciani, Pernice; tre tenenti: Pascalini, Moltedo, Pellegrini; otto sergenti: Franceschi, Perelli, Tortazoli, Spadano, Santoni, Casabianca, Giovannimi, Giulio; nove soldati: Battistini, Cattaneo, Angeli, Prelli, Bastiano, Varesi, Santoni, Lavazari, Tedeschi; tre camerieri: Armand, Poggi, Ferrari. E' domenica: son le dieci del mattino. Il Re marcia alla testa del gruppo, verso l'abitato, visibilmente commosso. Subito incontra un daziere: - Mi riconosci? - Sì, Sire. - Ebbene, seguimi! I pochi uomini hanno ordine di gridare, dalla spiaggia fino alla piazza del paese, affollatissima: << Viva Re Gioacchino! >>. Appena giunta dinnanzi alla Chiesa di Pienza, la truppa, bizzarramente composta, grida e fa gesti: ma la folla è presa da panico e si disperde. Vanamente il Re tenta parlare a qualche borghese: nessuno vuole ascoltarlo. Ad una delle estremità della piazza ecco varie Guardie di Finanza. Murat accorre: - Riconoscete il vostro Re? - dice loro, parodiando l'Imperatore a Digione. Due sole rispondono: << Viva Gioacchino! >>; le altre fuggono. Il paese è ormai deserto: borghesi, soldati, contadini si son ritirati nelle loro case, lasciando, in una minacciosa solitudine, la piccola truppa. Due giovanotti s'avvicinano ed esortano il Re a raggiungere Monteleone dove, dicono, la popolazione è ben disposta in suo favore. Murat non se lo fa dire due volte ed a passo di corsa si lancia sulla strada di Monteleone. Percorse però poche centinaia di metri l'abbandona e sale su un'altura.
Il Capitano Trentacapilli in un ritratto d'epoca
La sittuazione si fa grave: una folla di contadini, armati di badili e forche, corre sulle traccie. Alla testa il capitano dei gendarmi Trentacapilli, che ha avuto tre fratelli impiccati per ordine del generale Manhès. Eccolo avvicinarsi, solo, a Murat: - Favorisca in paese! - Sei tu, al contrario, che devi seguirmi a Monteleone. Te lo ordino: sono il tuo re. - Non riconosco altro re che Ferdinando. - Per Dio! Ti ammazzo! - urla Murat e fa per colpire lo sfrontato con un colpo di sciabola; ma quegli si scansa e gli sfugge. I primi spari! Murat ordina ai suoi uomini di ripiegare sulla spiaggia, ma allorchè vi giunge, trafelato, s'accorge che Barbara è ormai lontano. I più agili, aiutati da Gioacchino, tentano varare una pesante barca, che si trova sulla riva, ma essa è talmente insabbiata che, per quanti sforzi si facciano, è impossibile spingerla in mare. Ormai, da ogni lato, gli abitanti accorrono in armi, minacciosissimi. Tre Corsi cadono morti, altri sono feriti. Vista l'impossibilità di sfuggire alla folla, il Re chiede ai primi accorsi perchè dimostrino tanta ferocia contro di lui.
La rissa tra le fazioni murattiana e borbonica dopo lo sbarco a Pizzo
Gli si risponde con parole d'odio. Non rimane che arrendersi. Tutti son ingiuriati, minacciati, battuti. Solo il Re è risparmiato. << Sa ispirare ancora abbastanza timore per impedire ai forsennati d'abbandonarsi ad eccessi contro di lui >>. Tuttavia un bifolco osa strappargli le spalline1. Tra grida, vociferazioni ed ingiurie, Giacchino ed i suoi uomini sono condotti al Castello di Pizzo ove son chiusi nel Corpo di Guardia. Il maniero appartiene al Duca spagnolo De l'Infantado, ed è amministrato da certo Francesco Alcalà, suo intendente. Narbonne Pelè, ambasciatore di Francia a Napoli, parla, in un dispaccio a Talleyrand, di ferri e di segrete, ma se dobbiamo credere ad una lettera scritta dall'Alcalà al Duca de L'Infantado, Murat ed i suoi sono assai ben trattati dai carcerieri. Un solo episodio rivela, tuttavia, l'animo della popolazione. Una donna, entrata nel castello, vorrebbe schiaffeggiare il Re. E' fermata in tempo ma gli urla: << Tu parli di libertà e mi hai fatto fucilare tre figli! >>. Verso le due del pomeriggio ecco presentarsi al Corpo di Guardia il capitano della gendarmeria Trentacapilli e chiedere al Re documenti e valori. Gioacchino glieli rimette, con la gran coccarda di 22 diamanti. Scrive il giorno dopo Trentacapilli al Duca d'Ascoli:
<< Eccellenza, a quest'ora avrà saputo che col rischio della mia vita mi è riuscito d'arrestare Gioacchino Murat che con due legni francamente era venuto qui ad approdare. Egli partitosi da Ajaccio al 28 Settembre, giunse qui ier mattina, ed in sbarcare si volea far conoscere per il re, invitando la gente a dire: << Viva Giacchino Murat >>. Salì in questa piazza con otto uffiziali del seguito e un quindici soldati, dove cercava di attirar qualcheduno a gridare << Viva Murat, Viva il Re Gioacchino >>; ma la poca gente che v'era più tosto sbalordita e sorpresa, non si seppe risolvere; per cui s'incamminò per la strada di Monteleone. Al momento fui prevenuto ed accorsi, soltanto seguito da poche persone sul principio. Lo raggiunsi poco distante da qui, gli intimai la resa al nome del nostro Re, ma un suo generale, prendendomi con una mano e coll'altra la pistola, andava a ferirmi quando mio fratello, avveduto, diè urtone al detto generale, per cui mi sono allontanato e gridai a que'armati di far fuoco. A tal grido, Murat cogli altri cercò fuggire per alcune scoscese, e riprendere la via per imbarcarsi; allora fu che gli armati li seguirono facendo fuoco; molti altri accorsero armati dalla Piazza ancora: andando al lido li scopersero imbarcati in un battello che cercavano di spingere fuori ed arrivare quei legni che lo condussero. Dopo alquanti colpi di fucile, co'quali morì un capitano, e gl'altri tutti da me fatti prigionieri e condotti in questo Castello, dove al presente si ritrovano ben custoditi. Le carte che ho ritrovate presso di loro, con la presente staffetta, le ho dirette al signor Generale Cancelliere... >>.
Dipinto ottocentesco del Castello di Pizzo
Intanto una folla immensa di contadini gremisce i dintorni del maniero. Murat spera in un movimento popolare in suo favore, contando, soprattutto, sui Carbonari. - Vedrete, - dice ai compagni, - che nella notte i nostri amici verranno a liberarci. Verso le sei di sera Trentacapilli entra di nuovo e trascrive tutte le generalità dei prigionieri.
Due ore dopo ecco il generale Nunziante, comandante la Divisione della Calabria, che a Tropea ha appresa la notizia. Gioacchino gli si presenta immediatamente: - Di che paese siete, generale? - Della provincia di Salerno. - Mi sembra d'aver conosciuto qualcuno della vostra famiglia. - Impossibile, generale, poichè ho lasciato il mio paese giovanissimo ed a Salerno non ho alcun parente. L'ex Re di Napoli gli raccomanda, tra l'altro, di conservare i documenti di cui Trentacapilli si è impadronito e particolarmente una lettera di credito, di molte migliaia di ducati, osservandogli che quella rappresenta tutta la fortuna della sua famiglia. Aggiunge che quel denaro non è stato da lui accumulato a Napoli, ma è la ricompensa di alcuni suoi servizii in Francia. Nunziante lo rassicura facendogli osservare, tuttavia, ch'egli non farà nulla senza il consenso di Ferdinando. Il 9 Ottobre i soldati sono separati dagli ufficiali. Galvani, ferito in modo grave durante il combattimento, è trasportato in città per esservi curato. Solo il 10 il Re ha a sua disposizione una camera da letto, dove è chiuso con Franceschetti e Natale. Prende i pasti con gli ufficiali siciliani in una camera vicina e scrive lettere a Carolina, a Re Ferdinando, al generale comandante l'esercito austriaco ed al ministro d'Inghilterra.
* * *
A Napoli, intanto, la notizia dello sbarco di Gioacchino a Pizzo di Calabria è piombata come fulmine a ciel sereno il 9 Ottobre. Re Ferdinando convoca immediatamente il Consiglio, chiamandovi pure il ministro inglese Court. Tutti si dichiarono d'accordo << che la salute e la quiete di S. M. e della Dinastia non sono compatibili con l'esistenza di Murat >>. Il ministro Medici aggiunge che è atto patriottico consigliare a S. M. di far mettere a morte << un soldato di bassi natali, il quale, dopo aver profanata la real sede, ha osato turbar la pace del sovrano e dei suoi amati sudditi >>. Dal Consiglio stesso è redatto immediatamente il secondo Decreto:
<< Napoli, 9 Ottobre 1815. << Noi Ferdinando, per grazia di Dio Re di Sicilia, abbiamo decretato e decretiamo quanto segue: ART. 1° - Il generale Murat sarà tradotto dinnanzi ad una Commissione militare, i cui membri saranno nominati dal nostro Ministro della Guerra. ART. 2° - Non sarà accordata al condannato che una mezz'ora per ricevere i soccorsi della religione. FERDINANDO >>.
Quest'ordine è trasmesso al generale Nunziante per telegrafo Chappe e con successive staffette. Ma il cielo è coperto, ed il telegrafo non può funzionare a dovere. Il 12 un ufficiale inglese sussurra ad un prigioniero di dire al Re che un telegramma indecifrabile, giunto da Napoli, dà ordine << che sia tradotto... >>. Il telegramma è qui interrotto. Osserva Gioacchino: << Ebbene, che vuol dire?... Che io sarò consegnato ad una nave della flotta o alla città di Messina! >>. Crede aggiungere il Galvani: << E' tanto sicuro della sua salvezza che non può concepire neppure il sospetto dell'atroce delitto che si medita contro di lui >>. Nel pomeriggio di quello stesso giorno, finalmente, il Principe di Canosa giunge al Pizzo. Dice subito al generale Nunziante: << Constatazione d'identità ed esecuzione immediata >>. La Commissione Militare risulta composta da Giuseppe Fasulo, aiutante generale e capo di Stato Maggiore della 5^ Divisione, Presidente; dal colonnello Scarfaro, dai tenenti colonnelli Natoli e Lenzetta, dai capitani Cannili e De Vonge e dal tenente Martellari, Giudici; dal tenente Froio, Relatore; dal La Camera, Regio Procuratore Generale presso la Corte Criminale; e dal Papa Rossi, Cancelliere. Tutti accettano la trista missione, nonostante che la maggioranza di questi ufficiali abbia avuto rapidi avanzamenti durante il regno di Gioacchino. Il capitano Starace è nominato difensore d'ufficio. E' lui che, piangendo, fa conoscere a Murat il suo triste dovere. - Debbo difendere V. M. e dinnanzi a quali giudici! - Non sono affatto miei giudici - risponde calmo il Re - sono miei sudditi e non è loro permesso processare il loro sovrano, come non è permesso ad un re giudicare un altro re, perchè nessuno può aver competenza sul proprio uguale. I sovrani non possono avere per giudici che Dio e il popolo. Se mi si considera un Maresciallo di Francia, solo un Consiglio di Marescialli può giudicarmi; se mi si considera un semplice generale, un Consiglio di generali è necessario. Perchè io discenda al livello dei giudici che son stati nominati or ora, occorrerebbe stracciare troppe pagine della storia d'Europa. Simile Tribunale è incopetente: mi vergognerei se mi vi presentassi dinnanzi. Invano i capitani Starace e Stratti tentano calmarlo e indurlo a scrivere qualche linea in sua difesa; Murat ripete ostinatamente: << Non potreste salvarmi la vita egualmente, lasciate almeno che salvi la mia dignità regale! Non si tratta, qui, di giudicarmi, ma semplicemente di condannarmi. Quelli che compongono la Commissione non sono i miei giudici, sono i miei carnefici. Capitano Starace, non parlate in mia difesa: ve lo ordino. >>. Qualche istante dopo, il relatore, tenente Froio, si presenta dinnanzi al Re, per interrogarlo. Gioacchino lo previene: << Io sono Gioacchino-Napoleone, Re delle Due Sicilie: ed ora uscite, signore! >>. Mentre la Commissione sta radunandosi in una stanza del Castello, il Re dice ancora tristemente al capitano Stratti:
- Al Pizzo è gioia la mia sventura. Ebbene. che ho dunque fatto ai napoletani perchè siano miei nemici? Ho dato loro tutto ciò che possedevo a detrimento della mia famiglia; tutto ciò che vi è di utile e di liberale, nel loro Codice, è opera mia; ho dato loro un esercito ed ho elevato la Nazione al rango delle potenze europee. Ho preferito i napoletani ai francesi, miei compatriotti, che senza timori e senza rimorsi.. La tragedia del Duca d'Enghien, che Re Ferdinando sembra vendicare con altra simile, mi fu estranea: ne chiamo testimonio Dio che dovrà giudicarmi ben presto... Capitano Stratti, vi prego, ora, di lasciarmi solo. Vi ringrazio della vostra premura. Fate che la mia famiglia riceva la mia ultima lettera e voi siate felice.
La Regina Carolina con i figli Letizia, Achille, Luciano e Luisa in una tela di Gérard.
E scrive:
<< Ma chére Caroline, Ma derniére heure est arrivée; dans quelques instants j'aurai cessè de vivre, dans quelques instants tu n'auras plus d'époux. Ne m'oblie jamais; ne maudis jamais ma mémoire; je meurs innocent; ma vie ne fut tachée d'aucune injustice. Adieu mon Achille; adieu ma Létitia; adieu mon Lucien; adieu ma Louise. Montrez-vous au mond digne de moi. Je vous laisse, sans royaume et sans biens, au milieu de mes nombreux ennemi. Soyez constamment unis; montrez-vous superieurs à la fortune; pensez à ce que vous etes et à ce que vous avez été, et Dieu vous bénira. Ne maudissez point ma mémoire. Sachez que ma plus grande peine, dans les derniers moments de ma vie, est de mourir loins des mes enfants. Recevez la bénédiction paternelle; recevez mes enfants. Recevez mes embrassements et mes larmes. Ayez toujours présent à votre mémoire votre malheureux pére. Pizzo, 13 Octobre 1815 >>.
In quegli istanti supremi tutta l'epopea gloriosa deve apparire al << centauro napoleonico >> come un sogno. La Festa della Federazione, il Terrore, i cannoni di Vendemmiaio, il passaggio delle Alpi, le fantasie equestri e le cariche nelle belle pianure d'Italia. Montenotte, Mondovì, Rivoli, Arcole! Il ritorno glorioso a Parigi. Le prime ricchezze, le feste del Lussemburgo; l'apparizione di Giuseppina Bonaparte. Poi l'Egitto, le Piramidi, Giaffa! Il 18 Brumaio! Carolina! Ed ancora le grandiose battaglie dell'Impero, le veementi cariche nei tramonti di gloria. Poi i ricordi spagnoli, le stragi del 2 Maggio, il Regno di Napoli, Mosca in fiamme, la ritirata, infine un'ultima illusione, ma grandiosa, suprema: l'Indipendenza italiana.
Mentre il Cancelliere della Commissione Militare redige in fretta la sentenza, resa il mattino, Gioacchino, rimasto sotto la guardia di quattro ufficiali, s'esprime con la più grande indignazione sugli ordini giunti da Napoli:
<< Avevo creduto Re Ferdinando più grande e più umano. Avrei agito ben più generosamente s'egli fosse sbarcato nei miei Stati e la sorte delle armi l'avesse fatto cadere in mio potere!... Le mie disgrazie procurano a Ferdinando uno stato ben diverso da quello del 1806. Son entrato in Napoli con 12 milioni e ne esco, dopo dieci anni d'un regime che mi son forzato di render paterno, con 250.000 franchi, per tutta fortuna. Lascio a Re Ferdinando la sua capitale abbellita ed arricchita di magnifici palazzi e tutto ciò ch'egli può desiderare per lo splendore della sua Corte; ho introdotto nel regno leggi che hanno posto i napoletani al livello delle nazioni civili; ho assicurata l'amministrazione della giustizia, ch'era un tempo corrotta al massimo; ho soppresso quasi il brigantaggio; ho organizzata una Polizia necessaria ad una città che rinserra nelle sue mura tanti vagabondi e lazzaroni; ho fatto di tutto per ispirare ai napoletani l'amore al lavoro; ho incoraggiato l'industria, l'agricoltura, le arti accordando ricompense nazionali al merito a tutte le classi dei cittadini; ho creato molte scuole per l'istruzione della gioventù; ho ristabilito l'ordine nelle Finanze, nelle amministrazioni civili ed avrei certo fatto rifiorire il commercio interno ed estero senza le guerre che squassavano l'Europa intera. >>. Prosegue: << Sia a Corte come nell'esercito io non ho voluto che la prosperità della Nazione: ho fatto perciò sacrifici inimmaginabili; ho dimenticato i miei interessi per la felicità dei napoletani; non ho profuso i redditi pubblici che per loro vantaggio; non ho nulla fatto per me; morendo non lascio altre ricchezze che le mie azioni. E' tutta la mia gloria e la mia consolazione. >>.
Murat nella cella del Castello di Pizzo, in una stampa dell'epoca
Un memorialista, Antonino Condoleo, riporta un colloquio che Gioacchino avrebbe avuto con il sergente incaricato di notificargli la notizia della sua condanna a morte. << - Ebbene, sergente, perchè piangete? - Maestà, non sono stato mai condannato ad esercitare impiego così sciagurato e la mia commozione principalmente deriva, primo per non aver dimenticato di averla servita con lo stesso grado, secondo per la mia sventura di parteciparle che la Corte ha di già fulminata la sentenza per la di lei... morte. - Ebbene? Non siete mai stato alla guerra? - Maestà, sì! - Avrete visto, dunque, morire molti soldati. - Sicuramente, Maestà. - Immaginate essere io, al momento, uno di quelli. Orsù, via sergente, rasserenatevi. Ritornate da chi vi manda e dite loro che Murat non ha avuto mai timore della morte. E' perciò che son pronto a subirla, ed in qualunque modo. >> E' il tramonto: ecco l'ufficiale relatore della Commissione Militare. Chiede al Re di leggere la sentenza e Murat si sottopone di malavoglia all'inutile formalità.
<< La Commissione Militare... riunita alle ore 10 antimeridiane del giorno 13 di questo mese di Ottobre ed anno milleottocentoquindici nel Castello di Pizzo per giudicare l'arrestato generale Gioacchinoi Murat qual pubblico nemico, dopo essersi data lettura delle parti esistenti nel processo,
INTESI
PRIMA QUISTIONE
SECONDA QUISTIONE
ORDINA
Dopo qualche istante ecco il canonico Masdea del Pizzo di Calabria. Gioacchino si ricorda perfettamente d'averlo incontrato qualche anno prima, durante un suo viaggio e di avergli fatto dono di 2000 ducati per la chiesa e 100 per i poveri. - Sire, son qui a sollecitare da voi un'altra grazia, ben più importante. - Ma che posso fare, nella situazione in cui mi trovo? - Dovete confessarvi. - No, no, no! Io non voglio confessarmi poichè non ho peccato dinnanzi a Dio. - Sire, io non vi parlo di una confessione giudiziaria ma di una confessione sacra che vi possa riconciliare con Dio dinanzi al quale state per comparire nel termine fatale di un quarto d'ora. - Sì... son pronto, ma come faremo in così poco tempo? L'ufficiale incaricato di comandare il plotone d'esecuzione interrompe il dialogo facendo osservare ch'egli ha ordine di procedere immediatamente. Il canonico replica che il quarto d'ora non può cominciare che dopo l'assoluzione, poi, volgendosi verso Gioacchino, gli dice: . Sono qui per voi: non temete nulla. Murat lo fa sedere e si siede a sua volta. Dice, dopo aver ricevuta l'assoluzione: - Andiamo a compiere la volontà di Dio. Masdea lo arresta supplicandolo di voler constatare per iscritto ch'egli muore da cristiano. Murat risponde affermativamente ma al momento di scrivere si interrompe e chiede con inquietudine al canonico, forse riferendosi al suo passato massonico: - Volete disonorarmi dopo la mia morte? - No, Sire, voglio poter confondere gli insensati che si servono del vostro nome per mascherare i loro colpevoli ed irreligiosi principii. - Sia. E, avuto un foglio di carta, Murat scrive le seguenti parole: << Je declaire mourir en bon chretien. - J. M. >>. - Generale, è l'ora... - Son pronto - risponde Murat. - Vorrei però avere le mie spalline: mi sono state rubate!... Ma non fa nulla! Con passo franco e sicuro attraversa il Corpo di Guardia, e rivede, per un attimo, i compagni di prigionia. Getta loro tutto il denaro che ancor possiede, abbraccia Franceschetti e Natale, poi è guidato nello strettissimo cortile del castello e si trova dinnanzi al plotone d'esecuzione che, nel fondo, gli presenta le armi. E' di nuovo il Murat sorridente e tranquillo dei giorni di battaglia: mostra di saper morire non solo con gran coraggio ma con serenità stupefacente, senza precedenti. - Portate via questa sedia e questa benda, - ordina - resto in piedi! Dice rivolto ai soldati con voce squillante: - Avanti!... Alt!... In fila: su due ranghi. << Erano talli i suoi modi - ci narra il Condoleo - (siccome siamo stati informati dalle persone che si trovavano presenti) che non solo destavano ammirazione ma incutevano timore nel tempo stesso. Tanto vero che i 12 soldati ed 1 sergente, che stavano allineati per quattro, attesa la strettezza del luogo, erano visibilmente tremanti. >> Il plotone è ormai a pochi passi dal Re.
La fucilazione di Murat in una stampa d'epoca
- Amici miei, il cortile è abbastanza stretto perchè voi possiate mirar giusto, Puntate al petto e rispettate il viso! Apre a due mani la camicia e grida ancora: - Attenzione! Son io che comando! Caricate!... Puntate... Fuoco! I soldati son commossi: due soli colpi partono alle estremità del plotone senza sfiorare il generale. - Nessuna grazia! - Ricominciamo!... Fuoco!... Questa volta dieci colpi detonano insieme: si vede Murat rimaner ritto ancora un istante, poi precipitare a terra, fulminato. Sei palle l'han colpito al petto, una alla guancia destra2. Il corpo è subito posto in una bara di legno bianco, dalle tavole sconnesse, che i soldati portano alla chiesa parrocchiale e che verrà inumata due giorni dopo, nella chiesa stessa3. Il Condoleo crede dirci nel suo curioso italiano: << Ma intanto ch'il crederia. Nell'uscire noi dal sacro tempio avemmo giusto motivo non solamente di meravigliarci ma d'indignarci ancora osservando il popolo, quell'istesso che otto giorni prima da furibondo non aveva tralasciato mezzo per sacrificare quello Uomo, che oltre era stato loro sovrano, generoso benefattore ancora. Vedendoli piangere a singulti, moveano veramente la stizza. Ma tanto che si ha da fare! Tanto si esperimenta in questo balordo e ignorante popolo che per sua naturale insensatezza spesso gli accade farsi trascinare e commettere azioni tiranniche. >>. Tale è la fine tragica del guerriero illustre che la morte ha rispettato in più di duecento battaglie. Muore alla stessa età e nello stesso modo del suo celebre compagno d'arme, Maresciallo Ney, << il prode dei prodi >> che gli sopravviverà solo 55 giorni. Quel giorno stesso Napoleone giunge in vista di Sant'Elena.
Napoli sa dell'avvenuta fucilazione dal seguente articoletto, apparso nel << Giornale delle Due Sicilie >> il martedì 17 Ottobre 1815:
<< Gioacchino Murat, tradotto dinnanzi ad una Commissione Militare, è stato condannato a morte e fucilato il 13 del corrente al Pizzo. Dicesi che da documenti autografi di altissima importanza, rinvenuti al momento del suo arresto, sia irrefragabilmente provato il suo re disegno. Il delitto era tutto nel cuore dell'invasore e dei suoi seguaci, venuti di Corsica. Il cielo aveva riservata agli abitanti del Pizzo la gloria di salvare la Patria nostra e l'Italia da nuove sventure rivoluzionarie, ma questa gloria deve considerarsi come il patrimonio di tutta la nazione: in qualunque sito del Regno il perturbatore della pace pubblica avrebbe incontrata nei sudditi di S. M. la stessa fede e lo stesso zelo che rinvenne in quelli delle ultime coste della Calabria. >>.
Ferdinando IV non riceve intanto che felicitazioni per la soppressione del Principe. Tutti i sovrani d'Europa sembrano approvare pienamente il rigore usato nei riguardi dell'ex Re. Metternich stesso non esita a dare la sua approvazione alla precipitosa esecuzione di Gioacchino, dichiarando che questo principe ha ben meritata la sua sorte. La notizia della fucilazione del Pizzo giunge a Sant'Elena due mesi dopo. L'Imperatore non ne sembra molto addolorato. Dice a Las Cases: << I calabresi sono stati più umani e più generosi di quelli che m'hanno mandato qui. >>. Ed a Gourgaud, che s'indigna che Ferdinando abbia fatto fucilare Murat:
<< Ecco come siete voi, giovanotti!... Ma non si scherza con un trono! Poteva Ferdinando considerarlo come un generale francese? Non lo era più. Come Re? Non l'ha mai riconosciuto come tale. Ferdinando l'ha fatto fucilare come ha fatto impiccare tanta altra gente. >>.
Ed è tutto: il viso di Napoleone rimane impassibile. Parla ancora delle qualità militari di Gioacchino. Per lui è stato << incomparabile sul campo di battaglia, all'infuori di questo non ha commesso che bestialità... >> <<... Murat era più abile di Ney nel condurre una Campagna e pertanto è sempre stato un ben povero generale... Quanti errori Murat non ha commesso per poter fissare il suo quartier generale in un castello in cui vi fossero donne!... Gliene occorrevano tutti i giorni, particolarmente durante la ritirata di Russia... Ho commesso un grande errore lasciando il comando a Murat... Era l'uomo più vile nella disfatta; non era valente che al fuoco! >>
Napoleone non può perdonare al Re di Napoli non solo la defezione del 1814, ma meppure il colpo di testa del 1815:
<< Son sicuro che è lui la causa di tutti i nostri mali! Invece di restar tranquillo, come io l'avevo fatto pregare, attacca gli austriaci in un momento in cui l'Imperatore Francesco stava per pronunciarsi in mio favore. Allora non vi fu più rimedio. Si disse subito a Vienna: Napoleone vuol ricominciare con le sue guerre e rischiare il tutto per tutto. Ho avuto un bel dichiarare che Murat attaccava malgrado i miei ordini: si credette che tutto fosse stato concertato tra lui e me, e non vi fu più mezzo d'intesa. E' vero che aveva una tal opinione di me, che appena seppe del mio arrivo in Francia credette subito ch'io divenissi potente come un dì e che lo scacciassi! Volle immediatamente impadronirsi dell'Italia fino al Po... Murat mi ha perduto due volete. >>.
Qualche mese dopo dice ancora a Gourgaud, con tristezza, riferendosi allo sbarco al Pizzo:
<< Ha fatto la più grande follia che potesse commettere. Ha compromesso 200 Corsi, brava gente, ne sono sicuro, e quasi tutti i miei parenti. Ha voluto con 200 uomini riprendere un Regno da lui perduto alla testa di 80.000. A Napoli vi erano 8000 austriaci. Se vi fossero stati 20.000 inglesi a Parigi, al tempo del mio sbarco dall'Isola d'Elba, non avrei certo potuto raggiungere la mia capitale. Ma tutto ciò è colpa mia: avrei dovuto lasciarlo maresciallo e non farlo Duca di Berg e ancor meno Re di Napoli. Si è montato: era ambiziosissimo. Io ho raggiunto la mia posizione a poco a poco; egli avrebbe voluto impadronirsi di tutto, essere a capo di ogni cosa. Ha intrigato con Fouché prima del mio secondo matrimonio. Son sicuro che a Lipsia egli già mi tradiva... Era una povera testa che non si forgiava che chimere e si credeva un grand'uono. Spinge all'insurrezione gli italiani e non ha un fucile da dar loro. Rifiuta come un imbecille l'asilo che gli offre Metternich e va a farsi uccidere. State pur sicuro, caro Gourgaud, che appena sbarcato al Pizzo non ha osato continuare sino a Monteleone e che voleva fuggire allorchè è stato attaccato! >>.
NOTE
1 Una vecchia centenaria, salvata tra le diroccate rovine del terremoto di Messina nel 1908, rammentando tempi lontani, dirà invece ad alcuni giornalisti di ricordarsi d'aver visto passare dinnanzi a casa sua, al Pizzo di Calabria, << il Re biondo >> con la camicia aperta dul davanti e il petto sanguinante, forse per sevizie: << Ah! il Re biondo! il Re biondo! lo vidi traversare la strada: ero una bambina; aveva delle macchie di sangue sul petto... >>. 2 Giuseppe Garibaldi nel 1860 invierà alla Marchesa Trotti nata Pepoli, << una delle palle di fucile sparate addosso al Murat al Pizzo >>, accompagnata da queste parole: << Invio a lei la palla che tolse ai viventi il prode dei prodi, il valorosissimo vincitore della Moskowa, Murat, Re di Napoli. I secchi steli che accompagnano il piombo micidiale furono raccolti nel sito ove ebbe luogo la scellerata fucilazione. >>. 3 Curiosa la macabra leggenda riportata nelle << Memorie >> del Pepe. << Alcuni giorni dopo, la testa, recisa dal corpo è messa in un vaso di vetro pieno di spirito di vino, mandata a Napoli e riposta nella Reggia. Il corpo fu seppellito in quella stessa chiesa del Pizzo per la cui edificazione, trovandosi egli a passar per caso in quella comune durante il suo regno, aveva generosamente dati 2000 ducati. >>. Questa favola fu raccolta da Alessandro Dumas, che, infarcitala di palpitanti dettagli, la popolarizzò in Francia ed in Italia, tanto che nel 1860, occupato il Palazzo regio dai << Garibaldini >>, qualcuno dichiarò che << fatta crollare una parte di una parete fu vista la testa del Murat conservata nel modo preciso col quale era stata spedita dal Pizzo nell'Ottobre del 1815. >>.
La tomba che racchiude i resti di Gioacchino Murat è precisamente la terza della navata centrale della Chiesa di Pizzo, a contare le fosse dell'ingresso. E' posta tra la sepoltura della famiglia Melecrinis a destra, e quella della famiglia Pacenza a sinistra. Non esiste sopra di essa alcuna iscrizione o lapide. Una tradizione molto precisa e perciò degna d'esser creduta, vuole che in quella fossa si trovi solo un altro cadavere, seppellito poco prima della morte del Re: quello di un povero soprannominato Cimminà, che vi fu collocato in un semplice lenzuolo. L'arciprete teologo Carlo Antomio Zimatore, così registra il decesso del Re nel libro dei defunti della parrocchia:
<< ANNO DOMINI MILL. OCTING.MO DECIMO QUINTO, DIE VERO DECIMA TERTIA M. S. OCTOBRIS, PITII, JOACHIM MURAT, GALLUS, EX REX, ARMORUM G.LIS, DETENTUS IN CARCERIBUS HUIUS CIVITATIS, AETATIS SUAE ANNORUM QUADRAGINTA QUINQUE CIRCITER, SS.MO SACRAMENTO POENITENTIAE EXPIATUS, A COMMISSIONE MILITARI DAMNATUS, MORTEM OPPETIT, ET FUIT EIUS CORPUS IN HAC INS. COLL. ECCLESIA SEPULTUM; ET IN FIDEM ETC. S. TH. D. R. D. CAROLUS ANTONIUS ZIMATORE ARCHIP. R. >> .