C'era
(una volta)
il NATALE
 

di Franco Aquilino




-1 : l'Italia unita...; la paura fa 90; 7: la zappa: gli occhiali del Papa...
-Che cosa avete chiamato?
-Ma è l'88, no?
-Se lo dite voi, don Ciccillo...comunque i numeri bisogna spiccicarli per bene, chiaro e tondo!
-Allora 2 per don Pasquale, insomma la coppia, lui e lei, vi va bene così a don Pasqualino bello. Oh, guarda chi si vede: il 77...
-Ma non sono le gambe delle donne?
-Non dite così, che ci sono i bambini!...

Ecco, erano questi all'incirca i toni ruspanti di una tombolata in una famiglia del Sud (e forse non solo del Sud), intorno agli anni Cinquanta. Costituiva la tombola, il clou delle serate natalizie, trascorse fra l'allegra impazienza e la sorniona partecipazione dei giocatori. Vi presenziava innanzitutto la famiglia al gran completo, dai più piccoli (neonati compresi, con tanto di "ciuccio") ai più grandi (zii e nonni in testa, eventualmente anche bisnonni, se ancora in grado di reggersi). In più era invitata una rumorosa "fazzolettata" di amici e di vicini. Era una gara indiavolata, che stava tra la tombola vera e propria, il lotto (con i numeri rapportati immaginosamente alla smorfia napoletana e opportunamente commentati) e una forma genuina quanto sgangherata di teatro. Così, in sostanza, si assisteva ogni sera ad una estemporanea rappresentazione "per gruppi di famiglia in un interno", in cui ognuno diceva le sue battute, attore o spettatore di volta in volta. Lo scopo era quello, semplice e immediato, di divertire e divertirsi in allegra compagnia e bastava veramente poco.
Ma con la tombola (e con i vari giochi di carte, fra cui spiccava il Sette e mezzo) si era ormai nel cuore del Natale, il cui clima, a dire il vero, si respirava in giornate di luminosa solarità già a partire dall'Immacolata (8 dicembre), quando nella chiesa omonima venivano intonati i primo cori natalizi e nelle cucine si eleboravano le prime "zeppole", frittelle di farina e zucchero, ripieni di pezzetti di tonno o di uvetta, fra il tripudio di grandi e piccini.
La sera del 15, poi, una sparuta banda musicale, ridotta a quattro o cinque elementi più o meno scombiccherati e in piedi quasi per scommessa, annunciava l'inizio della novena di Natale per il giorno successivo. Dal 16 al 24 sfilando per le vie e vicoletti, il piccolo complesso eseguiva ogni sera puntualmente, con qualsiasi tempo, la "Pastorale". Nelle sere di maltempo, appena percettibili, si avvertivano ovattate, come in lontananza, quasi bucassero le tenebre, con un che di lamentoso che ti penetrava nelle ossa. Il 25 mattina i solerti suonatori passavano di porta in porta per la strenna. Nello stesso periodo, ma alle prime luci del giorno, zampognari e pifferai venuti dai monti eseguivano nenie natalizie, ma il suono era gioioso e ricco di modulazioni. Torme di ragazzini li seguivano, incantati. Per la novena di Natale, tenuta solitamente nel Duomo in ore impossibili, a quel tempo le donne si recavano in chiesa portandosi dietro uno scaldino di terracotta, chiamato affettuosamente "maritino".
Nelle diverse chiese quindi si preparavano a gara i presepi, in cui i più antichi pastori, opera estrosa di industri "pastorari", tramandavano il ricordo di personaggi, ambienti e costumi d'altri tempi.
Ma in casa il presepe era accuratamente preparato in un angolo dal Paterfamilias con tanto di carta, cartoni, muschio, sabbia, "occhi di canna", fiocchi di cotone per la neve, rametti di mandarino e di mirtillo, sugheri per la grotta della Natività...e naturalmente le statuine, ritirate fuori con cura ogni anno (con qualcuna da rattoppare).
Per la famiglia era veramente un affar serio la costruzione del presepe, altro che storie! La complessa liturgia che caratterizzava tutta l'operazione non può non rimanere impressa  nella mente di chi vi ha assistito. L'opera impegnava strenuamente il Genitore (nel caso specifico, un ferroviere socialista) tutte le sere, nonchè in ogni ritaglio di tempo possibile, a partire dal giorno di Santa Lucia, se non anche dall'Immacolata.
Per tutto il periodo era severamente proibito ai piccoli disturbare in casa. Del resto, con l'aria che tirava, quelli preferivano tagliare la corda per andare a giocare con le nocciole, possibilmente presso altri bambini del vicinato, senza un padre architetto tra i piedi, fra risse continue e precarie rappacificazioni. Il Costruttore intanto dimostrava un'ingegnosa abilità manuale, trasformando man mano in un firmamento, un pò incupito a dire il vero, la spessa carta azzurra usata dal pizzicagnolo per avvolgere lo zucchero.
Per le rocce veniva invece utilizzata la carta da pacchi increspata opportunamente, mentre pezzetti di vetro colorato diventavano ridenti laghetti, di sapore vagamente alpino.
Ogni tanto la pestata del martello a un dito faceva sfugire al Grande Progettista qualche colorita imprecazione, di solito all'indirizzo dell'ultimo corifeo della fanfara di cristo, di cui peraltro non è memoria nei testi sacri, nemmeno nei vangeli apocrifi. Anche il diavolo riceveva la sua buona razione di indignate rampogne, accusato, a torto o a ragione, di non farsi mai i fatti suoi e di far scomparire per dispetto gli introvabile chiodi.
Insomma, con Natale in casa Cupiello Eduardo ha dovuto inventare ben poco, visto che a quei tempi ogni anno si ripeteva una commedia tale e quale in gran parte delle famiglie del Sud.
Naturalmente, a capolavoro concluso, una processione di vicini e di curiosi, veniva in casa a vedere il presepe. Di solito si elogiavano soprattutto la grotta della natività in sughero e il castello di Ercole nello stesso materiale, con la torre maestra insuperbita fantasiosamente da un impropabile orologio, ricavato da un quadrante di un vecchio cipollone. L'accigliato Costruttore era nel frattempo ridiventato un essere affettuoso, un padre tenero, in grado perfino di sorridere divertito nel leggere le timide letterine nascoste sotto il piatto dai marmocchi reclamanti la strenna.
La notte di Natale, poi, il più piccolo della famiglia spiccava il bambino dalla grotta santa e lo portava in processione per tutta la casa, seguito dai familiari salmodianti a una voce gli inni natalizi. Intanto mentre fuori scoppiavano i petardi, nella cattedrale si celebrava la Messa di Mezzanotte, con grande concorso di popolo, senza distinzioni di classi. Infine tutti a tavola, a consumare secondo la tradizione numerose pietanze, di solito tredici (ma erano più che altro...assaggi) per compensare sì al digiuno tradizionale del mezzogiorno della vigilia, ma idealmente anche quello accumulatosi magari nell'arco dell'anno, imposto dalle ristrettezze di una società in gran parte alle soglie dell'indigenza.
Ogni manifestazione si concludeva con l'Epifania "che ogni festa porta via", poi ognuno avrebbe ripreso...il lavoro usato.
Era più o meno questo il clima natalizio di quegli anni in una piccola comunità calabrese, come del resto un pò dappertutto, sia pure con le numerose varianti locali.. Poi, come è risaputo, nel giro di pochi anni il Natale perse dovunque il suo spessore umano, uniformandosi agli schemi preconfezionati del consumismo generale all'insegna dello spreco, e diventando quella specie di melassa insapore, frutto di una smaccata operazione commerciale che è sotto gli occhi di tutti.
Del perchè i riti natalizi, a lungo tramandati da una secolare liturgia popolare, si siano di colpo svuotati, e l'atmosfera di gioia genuina si sia trasformata in una insopportabile rappresentazione di ostentata allegria, bisognerebbe pur chiederselo.
Occorrerebbe domandarsi anche in che cosa abbiamo sbagliato un pò tutti e se l'errore sia possibile ancora correggerlo. Ma si rischierebbe di esibire un'ennesima confessione in pubblico, imperniata sulla collettiva inettitudine e sui fallimenti individuali, disseminati di rimorsi, che hanno portato alla crisi più ampia dei valori esistenziali e principalmente della famiglia. Ma il tono apocalittico non ci piace affatto, meglio lasciarlo ai profeti di professione, con cospicuo conto in banca e triple ville con parchi "piantumati".
Rassegnamoci dunque a registrare la fine del Natale, come punto di convergenza tra la pagana Festa del Sole e quella cristiana della Rinascita intesa come speranza in una vita rinnovata, e cerchiamo un angolo residuo di silenzio, per appartarci lontano da ogni trasformante volgarità.
Servirebbe a tutti una pausa di riflessione, prima di riprendere l'impegno collettivo verso i più sfortunati, per una società più equa e più solidale di quella di ieri e soprattutto di oggi.
Ci vengono in mente, a mò di conclusione, gli accenti semplici e accorati espressi da Ungheretti in una breve lirica dedicata appunto al Natale. Sono versi troppo noti per citarli nella loro scansione metrica, spezzata come un sospiro a stento represso. Non profaniamo anche quelli!
Facciamoli meglio nostri, perchè anche noi avvertiamo oggi "tanta stanchezza sulle spalle" e siamo rimasti "come una cosa posata in un angolo e dimenticata...con le quattro capriole di fumo del focolare"...
Già, ma il focolare, dov'è?