Berotti: Veduta di una parte della Città di Tropea, 1795 Tropea: territorio e società, passato e prospettive LA POSSANZA DI TROPEA IL PRINCIPE E L’ARCHITETTO di Antonio De Luca Quanto segue fa parte degli appunti già compilati nel tentativo di delineare una visione organica della vita civile di Tropea nell’ultimo millennio fino ai giorni nostri. Tanto senza cedere alla retorica che inquina spesso la storiografia del Regno di Napoli ed in particolare la storia locale che, da celebrativa e mistificatrice, solo da poco tempo ha cominciato a guardare nella realtà vera della vita di tutto il popolo di una comunità e non soltanto della classe comunque dominante. Nelle stesse opere da questa prodotte non mancano cenni di vita, ma tutto viene ricordato in funzione della sua grandezza. Atti disperati di folle ridotte alla fame vengono definiti – dissenzioni - e tradimento da un sistema di potere incardinatosi in privilegi feudali, baronali ed ecclesiastici. Non si può rispondere - quelli erano i tempi -. E’ pericoloso giustificare tutto a posteriori come se non avesse trovato oppositori. Le istituzioni di quei tempi erano quelle attuali e si richiamano agli stessi principi per giustificare la loro presenza ed azione in ogni tempo. Quando si parla dell’uso del territorio in rapporto allo sviluppo di una città sempre bisogna tener presente il committente e la fonte delle sue risorse finanziarie: seguendo tale percorso si risale alla formazione delle stesse risorse investite ed al contenuto dei valori praticati e non soltanto di quelli declamati. Laddove, se non si vuole abbagliare con la semplice fenomenologia, è necessario sforzarsi di comprendere ogni accaduto con tutte le possibili relazioni che l’hanno reso possibile o conseguente. Questo a prescindere dal giudizio, inevitabile, che poi ognuno in relazione al proprio io dà di quei fatti e conseguenze che in ogni caso si prolungano fino ai tempi presenti, come vedremo nella formazione del tessuto urbano di Tropea. Un fiume arrivando alla foce è la sommatoria di tutto quello che si è riversato nel suo bacino, sotto forma di acqua, non solo dal cielo, ma anche sotto altra forma dalla terra sottoposta all’uso che l’uomo ha fatto e fa del territorio per ragioni determinate da molteplici fattori tra di loro solo artificialmente separabili. Non esiste la - storia - di una qualsiasi attività umana separata da tutte le altre, anche se poi per comodità i vari elementi assumono narrazione distinta. Tenendo ferma tale premessa, in questo momento interessa che, sotto l’urgenza degli avvenimenti e delle scelte operative da fare, si abbia una visione dell’uso che del territorio di Tropea e delle coste della Calabria è stato fatto fino ad oggi, determinandone l’attuale stato. Il riferimento a fatti che soltanto in apparenza sono estranei al territorio rientra nella logica di comprensione globale appena accennata. Tanto perché la città non è opera naturale, ma fattura dell’uomo. Questo ha sempre scelto i vari siti costretto o allettato da vari fattori in rapporto alle sue necessità ed ai mezzi per soddisfarli. Tutte funzioni variabili con l’evolversi della tecnica applicata ad ogni aspetto della vita. Città nate per la presenza dell’acqua sono scomparse con essa, nate in luogo impervio abbandonate o quasi quando tale requisito divenne inutile. Città in posizione amena furono fortificate e mantengono le antiche mura solo come testimonianza di un periodo della loro storia al pari di un un antico telaio per la seta. La nostra città rientra tra queste, non ebbe però più fortuna di un telaio antico. Il territorio di Tropea, dopo la circoscrizione dei primi dell’Ottocento, ha la forma di un rettangolo con i lati minori verso est e sud-ovest e quelli maggiori verso il nord-maestrale ed il sud-scirocco. Il torrente La Grazia segna da un lato il confine con Parghelia, ed il torrente Riaci o Vitranu quello con Ricadi. A sud-est è delimitato dal comune di Drapia a quote altimetriche diverse, il mare lo bagna a nord in senso lato. In tutto meno di 400.000 mq. Uno dei comuni, per superficie, più piccoli d’Italia. 100.000 mq. circa sono occupati dal - centro storico - che con l’aiuto della retorica sta diventando vecchio (edifici fatiscenti e pericolanti) o moderno (edifici con interventi in cemento armato anche a vista, tetti con copertura di eternit di quello cancerogeno (già all’entrata di Portanova in alto a sinistra), finestre in alluminio anodizzato, gronde e pluviali di plastica multicolore. Tanto operato non per necessità o da cittadini -sprovveduti-, ma da coloro che per diversi motivi si richiamano alla Tropea antica e dei loro avi. Negli incontri celebrativi, come le tante saghe paesane che si svolgono d’estate, esaltano quei tempi. Quei tempi non li esalto, ma la conservazione ed il restauro (non lo sfiguramento che da anni prosegue) del centro storico, il suo risanamento, ci deve trovare tutti d’accordo. Anche la ricostruzione di qualche opera significativa (il ponte levatoio di Porta Vaticana) che a suo tempo sarebbe potuta rimanere, può non essere idea strana: sarebbe il collegamento (ideale) tra quello che contengono le mura urbiche e l’uscita degli abitanti verso l’esterno per le mutate condizioni generali in tempi recenti. Dal dopoguerra ad oggi altri 200.000 mq. sono stati urbanizzati: non è un male, il male consiste nel modo selvaggio e distorto della espansione di Tropea verso sud-ovest soprattutto, senza pianificazione alcuna. Le conseguenze nella vivibilità sono davanti a tutti e con danno di tutti. Il valore, anche economico, di tali manufatti in rapporto ai vari parametri ritenuti da tutti essenziali, è la metà di quello che uno sviluppo urbanistico,non a caso e senza regole, ma pianificato, gli avrebbe dato anche con volumetria maggiore.Aver permesso tale disastro significa anche aver procurato danno agli interessati ed alla città per sempre. Rimangono al momento circa 100.000 mq. utili che aspettano la loro fine: dal loro uso o abuso dipende il destino di Tropea in senso sano e duraturo: rischiano il disastro e se così sarà il quadro della gloriosa Tropea potrà essere esposto al museo delle Inciviltà. Quale destino avrà il territorio? In forma più che sintetica si tenta qui di delineare l’uso del territorio di Tropea, nel passato recente ed in quello che si chiama storico. Indicare il ruolo che ciascuno ha svolto, come risulta dagli atti, dovrebbe essere prassi normale in ogni cosa. Tanto perché i privati e le pubbliche autorità riflettano sul fatto che l’uso del territorio, con tutte le implicazioni, misura il grado di civiltà con la quale ogni comunità è di fatto gestita o si lascia gestire nell’illusione di facili profitti a spese dell’ambiente e della natura, del suolo e del sottosuolo. Chiamo Principe l’Istituzione, comunque costituita, che nei secoli con il suo potere determina con atti d’imperio o di discrezione lo sviluppo, in questo caso, della organizzazione del territorio di una determinata area. L’Architetto è colui che in una visione unitaria dello sviluppo di un comprensorio grande o piccolo, è in ogni senso capace di prefigurarlo per la natura dell’uomo e delle sue esigenze di vita sana e funzionale alle sue attività, per quanto lo consentono le previsioni anche di lunga durata. Dall’incontro di questi due momenti nasce la previsione ottimale della costruzione della città presente, che valga anche per il futuro in eredità alle generazioni, senza ipoteche per la sua inefficienza funzionale a breve termine. Come pure le attuali tecnologie consentono di inserire nelle strutture antiche innesti funzionali che le riportano a nuova vita senza intaccare la loro tipologia architettonica originale. La Rocca di Perugia è un esempio che a Tropea può essere ripreso sotto altra forma. Spesso il Principe usa il suo potere sul territorio per consolidare la sua posizione e l’Architetto lo compiace per mancanza di dignità, cedendo di fatto la progettazione all’altro che abusa e lo contenta delle briciole dei proventi dell’uso abusato del territorio. In caso di divergenze è sempre il secondo che soccombe adeguandosi per mancanza di dignità e di deontologia professionale. Qualche volta l’Architetto difende tali sue indispensabili qualità, per meritare quel nome, con la rinuncia all’incarico(raramente accade). Ma sono pronti tanti altri a sostituirlo. Nulla di nuovo, solo che la scarsa conoscenza di questa dinamica e la sua arbitrarietà ci ritorna in mente quando siamo chiusi nel traffico di strade nuove o non troviamo parcheggio accanto a nuovi edifici che accolgono abitazioni, uffici e negozi. Colpa del Principe o dell’Architetto? Perché tutti possiamo comprendere: i progettisti dichiarano, incolpandosi tra di loro, che se non fanno così non lavorano: c’è sempre l’altro disposto a farlo. A Tropea in passato e di recente è successo di tutto: perdente è stato sempre l’Architetto che non si è piegato ed il territorio funestato con l’uomo che in esso agisce. Ma questo non vuol dire fare un processo astorico a qualcuno. Non c’è nulla di blasfemo affermare che in fondo il motivo empirico del guadagno muove la storia dell’uomo assai più del motivo ideale civile o religioso pubblicamente professato: anzi è di fatto il solo motore dell’universo terrestre. L’economia del turismo comunque inteso, (balneare, gastronomico, agricolo, culturale, religioso, ambientale, storico, convegnistico, ecc., con varie specializzazioni) è la più grande molla dell’economia mondiale. Il suo indotto fa prosperare tante iniziative collaterali che alla fine animano l’economia più della voce principale. Per un momento almeno affrontiamo il problema sotto tale ottica -volgare-. Dato che trattarlo diversamente ci si attira l’epiteto di eco-terrorista o affondatore dell’economia della città. Ed allora ci accorgiamo che in Calabria per secoli SOLA Tropea si trovò nelle condizioni naturali e circostanze storiche generali di avere tutti quei requisiti che per lungo tempo la fecero appetibile,invidiata dagli altri centri e soprattutto- vagheggiata- dal potere centrale. La speranza delle presenti note è: I°) quella di tracciare in via breve il percorso attraverso il quale maturarono le circostanze che le condizioni naturali propiziarono, al tempo in cui erano determinanti per l’insediamento e lo sviluppo di una città, mentre oggi non hanno importanza; II°) provare a capire come in breve tempo quei requisiti sono stati in gran parte dispersi e con essi la prospettiva di una fortuna assicurata per generazioni; III°) esaminare quali scelte vanno fatte per una inversione di rotta a 180° prima che sia troppo tardi. Tanto affinché Tropea recuperi nuovi requisiti che, come attrazione, la facciano vagheggiare come una volta anche se per motivi diversi. Nessuno oggi cercherebbe questa città perchè inespugnabile, senza malaria o perché unico porto su duemila chilometri di costa, o per prendere la nave per Messina arrivando in carrozza dal nord. Sui requisiti da salvaguardare siamo tutti d’accordo, sulle scelte la discussione è aperta, ma poche persone la vogliono chiudere imbrattando per e con rapidi e veloci guadagni il centro storico e ciò che rimane fuori di esso. Il centro storico è edificato su un pianoro calcareo alto circa 50 m. sul mare e con leggero pendio da sud a nord, mentre da est ad ovest (dalla scala del Vescovado alla villetta del cannone) è pianeggiante. Sono appunto 100.000 mq.circa, ma furono tutti utili per interventi edilizi. Inutile e lezioso è porsi il problema qui dell’origine di Tropea. Tale ricerca -De Origine- fu enfatizzata fino al ridicolo ai primi del Settecento quando venne la moda di compilazioni (Sergio, Crescenti, Campesi) espressione di quelle famiglie dominanti che nell’anno Mille erano quasi tutte lontane da Tropea appunto mille miglia. Un pianoro così dovette avere insediamenti remoti, come altri luoghi favorevoli per i tempi in rapporto a tutte le circostanze. Come in tutta la Calabria, prima dell’arrivo dei Romani che la ridussero in schiavitù, il bosco lo ricopriva al pari di certi promontori o piccole isole che hanno in parte conservato nel Mediterraneo tale requisito. La prima organizzazione della fede cristiana è nata a Tropea (massa tropeana) intorno ad una comunità che aveva uno dei suoi riferimenti nel sito di S. Maria del Bosco con relativo cimitero accertato. Questo nome si dava alle chiese dentro le foreste e quella di Serra San Bruno è rimasta la più nota in Calabria. Il sito di tale chiesa ora è incorporato da palazzo Toraldo di Portanova lato sud-ovest e su di esso fu edificata la Torre Longa, nome diffuso in Calabria per opere di tal genere. Essa fu edificata sulle sepolture cristiane, forse allora sconosciute, e per tale mancanza di rispetto religioso ed umano,la sua costruzione fu attribuita ai Saraceni profanatori,anche se mancavano dalla Calabria da cinquecento anni. Il rapporto tra terra e mare intorno al perimetro del centro è al momento (si noti bene) invertito rispetto agli inizi dell’era cristiana. Allora il mare era con notevole profondità, utile per il naviglio dell’epoca, a contatto con la base della roccia del pianoro. La stessa roccia al contatto delle onde si ingrottava o diventava propaggine della rupe che per gli agenti esogeni si erodeva di circa un centimetro l’anno (non sono pochi) in modo irregolare a seconda della sua specifica natura anche a breve distanza. I palazzi sulla ripa furono costruiti a ragionevole distanza dal ciglio rupestre che si presentava bombato per l’appoggio incavato dalle onde. L’erosione li ha- portati - sulla perpendicolare e sta nascendo un nuovo problema. Per rendersi conto basta osservare torre Balì a santa Domenica Ricadi, lato mare. La tecnica dell’ingrottamento e successivo crollo in questi decenni ha dato una prova eclatante al Passo del Cavaliere. Sotto la ripa orientale tali segni sono visibili sulla perpendicolare tra i palazzi Galli e Fazzari. Qui il mare raggiungeva la foce del Torrente Lumia a poche decine di metri dal primo gradone su cui c’è il Carmine. Una esile striscia di terra correva fino alla foci separate del Burmaria e della Grazia fino al Settecento inoltrato. Il torrente Burmaria ebbe importanza strategica per l’economia di Tropea per mille anni fino a metà Novecento, più della Grazia nel quale oggi confluisce a sinistra poco a monte del nuovo porto. Lo scoglio S. Leonardo era circondato dal mare ed il canale navigabile tra lo stesso e la rupe a destra consentiva il transito al naviglio per raggiungere i magazzini e l’arsenale sotto il Carmine a destra del Lumia. Tra la riva ed il S. Leonardo c’erano diversi piccoli scogli che servivano da ancoraggio, i Pali e lo Stringhilio: al momento sono sotto l’arena. A seconda del vento le navi a vela potevano entrare ed uscire da tale porto naturale da ponente o levante col vantaggio notevole di tale operazione per sicurezza ed economia. Gli storici e geografi antichi parlano dei porti del basso Tirreno ma ad un certo momento per cause che saranno accennate, tra Napoli e Messina, rimase il nostro l’unico porto naturale agibile con valenza militare e commerciale. Il porto aperto di Vibona - Santa Venere che, traslato, nel tempo soppiantò quello di Tropea, non aveva la stessa sicurezza in rapporto ai venti ed alla possibilità di essere difeso dall’alto da posizioni inattaccabili sulle ripe. Presso Vibona, i luoghi erano assai diversi e poi subirono in tempi rapidi l’avanzamento della linea di costa per l’esagerato riporto dei fiumi in tutta la Calabria. Fu determinato dal disboscamento dei monti dove gli abitanti si erano rifugiati per la pirateria e la malaria in una Calabria indifesa dall’esterno ed oltraggiata all’interno. Quel porto richiese opere dispendiose per la necessaria sua difesa: il castello di Bivona, ora in miserabile abbandono, tre torri in rapida successione (S.Pietro, Mezza Praia, S.Venere). La conformazione del litorale tirrenico, roccia a picco o pianura alluvionale recente, rendeva la costruzione di un porto impresa titanica per la tecnica e l’economia dell’epoca. Le caratteristiche ricordate avevano indotto nel 1818 il governo borbonico a scegliere Tropea per la costruzione di un porto nel basso Tirreno tra Napoli e la fossa di san Giovanni davanti a Reggio. Ancora in quell’anno il teologo Paladini e Pasquale Galluppi prepararono una memoria ciascuno per difendere, di fronte al Papa ed al Re, la permanenza del Vescovo a Tropea che per la prima volta si presentava pericolante. Per quanto tali memorie siano state manipolate, esse chiariscono che gli autori avevano ben inteso quali requisiti avevano nei secoli determinato la POSSANZA di Tropea. -La follia dei novatori- voleva privare Tropea del Vescovato con un atto-indecente dal momento che esso costituiva gran parte del suo lustro ed il Re Ferdinando Ie ha accordato la costruzione di un porto per accrescere maggiormente il suo commercio che, attualmente si estende con molte piazze d’Europa ed anche con Roma-. Questo significa che all’epoca era giunto a maturazione l’insabbiamento progressivo del porto accennato dal Sergio ai primi del Settecento. Per quella volta il Vescovato fu salvato. Per il porto andò diversamente perché con il tempo la tecnica di navigazione e le mutate condizioni politiche, resero Tropea non più -vagheggiata- dai sovrani. Nel 1843 ci fu l’ipotesi di un porto che congiungesse a tenaglia i due scogli e del quale esiste il disegno. Ma i tempi erano cambiati: il profilarsi del vapore richiedeva ampi spazi di mare al sicuro, con problemi logistici di spazio per rifornimenti e magazzini che Tropea non poteva offrire. Ancora nel 1859 riferendosi alla marineria di Tropea si scriveva: volle natura favorire quella località per diventare una città commerciale di prim’ordine, atteso che naturalmente si veggono buttate le fondamenta di un porto, di cui si manca nel Tirreno. Riguardato sotto l’aspetto politico, commerciale ed umanitario, quel sito dovrebbe essere preso in seria considerazione; ed il Real Ministro della guerra e marina e la Provincia dovrebbero mettersi di accordo sui mezzi di attuare opera cotanto utile, in vista specialmente della tenuissima spesa che vi abbisognerebbe. Il Direttore Generale de’ ponti e strade Afan de Rivera, parlando su’ i mezzi di restituire il valor proprio ai doni che natura ha largamente conceduti al Regno delle due Sicilie, dimostra all’evidenza che non vi è altro luogo più acconcio di quello di cui teniam parola per la costruzione di un utilissimo porto. Le ultime illusioni di recuperare POSSANZA. Con -l’unità d’Italia- gli sforzi furono concentrati sul futuro porto di Vibo Marina che divenne scalo del –postale – tra Napoli e Messina. Il consiglio comunale di Tropea -faceva voti- perché tale porto (Vibo Marina) fosse completato e per sé invocava almeno un faro di segnalazione da installare su uno degli scogli. Un altro elemento della POSSANZA -il porto, era ormai sfuggito e da allora disertato e la memoria riferisce di troppi incidenti gravi alle navi nel moncone superstite del porto stesso. All’inzio del Novecento l’acqua era arretrata alla punta sud del san Leonardo ed il canale tra lo stesso e la roccia da tempo arenato.- Ormai era pericoloso . Lato nord il mare batteva con la roccia fino agli inizi del Settecento e l’isola col Santuario fu veramente tale con l’acqua che raggiungeva l’attuale strada sotto il Corallone ed oltre in tempi non tanto remoti se ancora si tramanda l’approdo ad essa con barchino (cu guzzareu). Poi fu realizzato un ponte in pendenza con archi decrescenti verso terra, ora non esiste se non nelle stampe (da non confondere con le arcate da poco demolite). Dalla discesa al mare dell’Isola (a calata di patei) alla foce del Lumia (a calata di mulini) il pianoro era collegato alla terraferma ma in mezzo correva un vallone profondo che lo separava. Ancora nelle stampe del Settecento dal mare appare soltanto la Michelizia, la chiesa del Carmine (Carmelitani Scalzi-S. Elia). Addossato ai piedi della collina del Carmine ed a destra del Lumia l’arsenale -fondaco- dogana. Si vedono l’accesso a Porta Marina ed in basso le grotte incavate nella roccia (esistenti). Un’altra tecnica per ricavare piccoli locali, necessari alla pesca o al piccolo commercio fu quella di chiudere gli ingrottamenti ai piedi della ripa col profilo della stessa. A sud-ovest non esisteva il Borgo che si trovava a sud-est. Dal mare o -dal finestrone dell’Annunziata- si vedevano il bastione sulla villetta del cannone, il ponte levatoio di Porta Vaticana, le retrostanti mura che si dipartivano dall’imbocco di via Indipendenza con dentro le carceri della Bordura. Tra il ponte e le mura c’era il vuoto e sotto le arcate si passava per andare a mare. Fu tale taglio naturale che -costrinse- Tropea a svilupparsi in sì breve spazio ed a precluderle un tempo ulteriore sviluppo per ragioni di sicurezza interna ed esterna. Su tale depressione si innalzava ad arco una cresta rocciosa da Porta Vaticana a Porta Marina come muraglia naturale che esaltava il vallo. Per completare l’opera naturale di difesa si alzarono le mura partendo dalla base rocciosa che fu intagliata per abbassarla ed in certi punti renderla non scalabile con le tecniche militari dell’epoca. La serrata era perfetta. Dal completamento di tale difesa non risulta dimostrato che Tropea sia stata presa d’assalto. Nelle continue guerre dinastiche dal Mille in poi la città poteva contare sul rifornimento dal mare con le corde o da terra con le porte a seconda del tipo di assedio o pericolo. Inoltre bisogna tener presente la limitata potenza terrestre e marittima dei contendenti che in un prolungato assedio di una città del genere così difesa, rischiavano di logorare le loro forze. In ogni epoca le città si sviluppano in rapporto ai requisiti richiesti al momento ed alla tecnologia disponibile. Per assicurarsi tale incolumità all’epoca bisognava arroccarsi sul cocuzzolo di un monte o ritrarsi molto all’interno con altri problemi di viabilità e clima e frane e rifornimenti in caso di assedio prolungato. Qui l’opera l’aveva compiuta la Madre Terra. La nascita di un centro abitato fu evento altrettanto naturale e non ha certo importanza scientifica disquisire se prima o dopo di Roma! Lasciamo la retorica e badiamo all’opera dell’uomo e della natura e delle loro conseguenze incrociate. Quando l’opera di difesa da terra fu completa si articolava in un unico sistema e diversi momenti operativi. Ne seguiamo il percorso per chiarezza di esposizione e perché tali opere fanno (facevano purtroppo) parte integrante dello sviluppo urbano di Tropea. Chi arrivava da oriente (dal porto o da Parghelia), in tempi certi, lasciava la marina risalendo quella stradina a sinistra del primo tornante verso la città con il mare a pochi passi. Svoltando a destra prima dell’attuale curva del mulino arrivava all’altra all’inizio della scala del Vescovado. A questo punto poteva salire verso il Duomo attraversando il ponte levatoio di tavole che di sera si chiudeva alzandosi. Tale ingresso era presidiato dalle armi della Munizione frontale (dietro le absidi del Duomo) che faceva parte del complesso difensivo del Castello al quale si poteva accedere direttamente per via adesso preclusa. Tale passaggio si trovava dietro il Duomo a sud, tra la cappella dello Spirito Santo ed i resti delle chiese delle Raccomandate, che furono una delle sedi antiche del Sedile e dell’ospedale, questo con giurisdizione vescovile in quanto opera pia. Il passaggio pubblico fu chiuso a fine Ottocento -per motivi igienici-. E’ chiara l’urgenza del suo ripristino per il movimento pedonale nel centro e soprattutto per un’uscita di riserva, anche soltanto pedonale, in caso di necessità. Si cerchi pure di provvedere, in uno con l’opera che eviti anche l’inconveniente, che fu allora soltanto una scusa, come in tanti altri casi più gravi. Chi a quel punto entrava in città percorrendo la strada dritta (via Roma) verso l’attuale villetta del cannone, attraversava la via principale est-ovest disseminata di negozi e -roba da vendere- di ogni tipo nella fiera domenicale. Sulla sinistra lasciava il Duomo (dal 1100 circa in poi), l’Episcopio più volte rifatto con l’orologio in alto sul Monte di Pietà. Qui trovava una fontana per dissetarsi. Questa poi fu chiusa dal Vescovo perché con gli scoli infangava la strada. La storia dell’acqua, delle fontane e degli scoli meriterà un capitolo a parte con sorprese attuali. Il problema dell’acqua non fu mai risolto bene: non c’era all’interno del pianoro, la sua adduzione da sant’Agata fu aleatoria ed è oggetto di continue rimostranze negli atti passati del Comune. Il pozzo di san Giacomo nell’attuale largo Calzerano non risolse il problema e fu causa di oscuri episodi: se venisse ripristinato, ed è augurabile, ma non certo per l’acqua salmastra, si troverebbe la non sorpresa di tante -lupare bianche-. Proseguendo c’era la Bagliva (magistratura giudiziaria civile) che a partire dai primi del Settecento fu inglobata nella fabbrica del Sedile dei Nobili dopo la finta divisione formale dagli -Onorati-. Il corso non esisteva e l’osservazione attenta della topografia di Tropea prima del 1783 indica che costipazione urbanistica si era creata in 100.000 mq. di superficie ed in mille anni di attività. C’è l’attenuante dello stato di necessità e di forza maggiore: se il pianoro fortificato fosse stato almeno doppio per superficie sarebbe nata la città principale della Calabria. Le attenuanti naturali e militari non vanno oltre la fine del Settecento. Piazza Ercole era piccola: occupata da edifici, dal convento di santa Domenica e chiesa di san Giorgio a nord. Chi invece arrivava da occidente, avvicinandosi all’inizio di via Umberto scendeva a destra nel vallo indicato e più a sud dell’attuale cunicolo si trovava di fronte a tre scelte: a sinistra la calata alla Marina dell’Isola, al centro la rampa verso il ponte levatoio protetto dal bastione frontale sulla villetta. A destra si poteva avanzare lungo la strada ai piedi delle mura: si passava sotto la prima torre aragonese nella leggera curva di via Margherita dove si apre sulla destra una scalinata. Tale torre presidiava l’accesso dalla marina e dalla rampa del ponte alla città ed a parte delle mura che intravedeva. Queste erano incurvate a sinistra e per la prospettiva altre torri esterne seguivano: la seconda presso l’ingresso di palazzo Toraldo a sinistra, la terza sul ciglio dell’attuale strada verso est. La roccia ai piedi delle torri era stata sistemata in modo che con le sovrastanti mura fosse inaccessibile. Da questa opera di smussamento si ottenne una specie di corsia ai piedi delle torri che appunto congiungeva le due porte con le alternative di transito già viste. Una terza torre era verso nord sulle mura dette di Belisario. Questa si congiungeva ad ovest del Duomo ad un’altra piccola lungo via Glorizio all’angolo con il corso allora inesistente. All’interno tra Porta marina e vaticana in ordine: la torre Mastra, il Castello, la torre Lunga (distinta dal Castello) ed il Rivellino completavano l’opera di difesa che diede ottima prova. Questa memoria topografica, che spero non sia lontana dal vero, per significare che tale opera di messa in SICUREZZA MILITARE completò la POSSANZA di Tropea e solo con essa divenne la città più importante nel basso Tirreno del Regno di Napoli e per tanti secoli. Gli altri elementi di tale POSSANZA furono il PORTO naturale, il VESCOVADO più di quanto si creda, in quanto esso ebbe per quasi mille anni giurisdizione sulla diocesi -inferiore- di Amantea più grande per numero di -anime- e territorio. Senza che questa potesse mai ottenere lo status canonico di aeque principaliter. L’altro fattore fu lo Status di CITTA’ DEMANIALE non sottoposta a barone o principe con diritti feudali. La rapacità e ferocia di questi è stata da sempre riconosciuta anche a danno dei feudatari minori e delle città sottoposte. Viale stazione non esiste più a Tropea: risulta a nome di Pietro Ruffo. I Ruffo tradirono Re Manfredi nel momento dello scontro con Carlo primo di Angiò che si presentava investito dal Papa (salvis iuribus) e Pietro Ruffo tentò di impadronirsi di Tropea come sua giurisdizione feudale, tradendo Re Carlo per il quale i Ruffo avevano già tradito Manfredi. Un suo discendente nel 1612 umiliò Tropea -nobilissima- comprandola come merce esposta al mercato delle pulci. Nell’anno di grazia 2000 i Tropeani ritengono intitolargli una via già storicamente e degnamente nomata. Non so che cosa muova tali scelte. Tanto in rapporto alle circostanze generali, naturali e politiche, in cui dovette vivere il popolo calabrese per mille anni (dalle invasioni saracene al terremoto del 1783). Terra contesa, di transito, senza difese, senza porti, senza strade, flagellata dalla malaria, dalla pirateria, dall’-eccessiva prepotenza baronale e della manomorta ecclesiastica-. Il resto è retorica usata come fumogeno per sottrarsi ai tiri di artiglieria di una seria indagine storiografica. E tutti coloro, famosi e anonimi, che nel corso dei secoli ad oggi hanno messo in evidenza tali aspetti sono stati da quei –poteri –eliminati, anche fisicamente. Tranne rivendicarne, dopo secoli, la loro -grandezza- come lustro della Calabria o del Regno da parte di coloro che sono gli epigoni di quel sistema che di fatto a nessun pensiero civile o religioso è riconducibile. Basta ricordare Campanella che viene portato ad esempio da coro che per metempsicosi sono gli eredi dei suoi torturatori, o il vescovo Serrao chiamato al seminario di Tropea dal Vescovo Paù. Il quale Paù, nativo di Terlizzi, dopo aver ottenuto per il suo paese natale lo status di Concattedrale all’interno della diocesi di Giovinazzo-Terlizzi che così ancor si noma, diventò vescovo di Tropea e provvide ad alleggerire la stessa nostra chiesa di tanti documenti ed opere d’arte che si involarono verso la Puglia, forse per ringraziarla del nome regalato alla Calabria. Seguire la traccia di quanto portato via e del relativo processo che ne seguì sarebbe molto interessante. Questi ed altri episodi del genere da parte anche dei civili di Tropea furono e sono sconosciuti al popolo di Tropea e gli addetti -ai lavori- li ritengono normali con riferimemento alla natura dell’uomo. Chi ha scritto -Le memorie- propedeutiche alla storia della santa chiesa di Tropea accenna appena a problemi del genere perché fa soltanto opera di raccolta di documenti da appassionato erudito. Ma non fa fa la-storia-della chiesa di Tropea che,nell’opera dei vescovi e del capitolo,anche in rapporto all’Universtà tropeana,è ancra tutta da scrivere. Per essere espliciti se venisse mostrato tutto l’archivio che il conte Capialbi si vanta di avere e custodire -nel domestico archivio-, preziosi originali, di molti di essi non si spiegherebbe il possesso se non sottrazioni dagli archivi pubblici e privati compresi quelli ecclesiastici della attuale diocesi Mileto-Nicotera-Tropea. Forse per questo quando ricorda il Vescovo che diede il nome a villa Felice non chiarisce il problema del danno storico –culturale inferto alla Diocesi di Tropea. Retorica e piaggeria ammantano le rivisitazioni di opere del passato-glorioso-.Sono la prerogativa degli eredi di coloro che al -Cardinale Ruffo- mandarono i loro campieri distraendoli dal controllo dei loro privilegi feudali per meglio difenderli. Rimandando ad altro momento i particolari di tanto misfatto che continua sotto altre forme e categorie sociali che hanno preso il posto delle passate, possiamo continuare a seguire lo sviluppo di Tropea che abbiamo lasciata chiusa in fortezza ed accessibile dalle due porte collegate dalla circonvallazione esterna a sud. Non bisogna pensare che l’attuale impianto urbanistico sia veramente molto antico. Il decollo partì da quando il pianoro fu messo in sicurezza militare con le opere accennate. Niente di notevole si può far risalire a prima del Mille. Prima di quella data le vestigia sono state sommerse da reiterate sovrapposizioni e doveva esserci un notevole agglomerato sia pur vistoso per i tempi ed è quello il metro di misura. Le vestigia religiose dell’Alto Medioevo si trovano più nei Casali che nel centro di Tropea, perché il tipo di monachesimo che si diffuse prediligeva il romitaggio singolo o in piccole comunità. I più antichi certi monumenti sono la Chiesa dell’Assunta (S. Giorgio) sul sito del presunto tempio di Marte, prima Cattedrale di Tropea, prima di passare a S. Nicola della Cattolica(Gesuiti) che lascerà per il Duomo, la sede dei Conventuali. La Cattedrale si sposterà brevemente per S. Maria de Latinis e S.Pietro ad ripas (S.Francesco-Immacolata-S. Demetrio) dopo il terremoto del 1783 che fu per Tropea un’occasione tragica perduta. C’èra poi la Bagliva su cui all’inizio dell’Ottocento si cominciò ad edificare il Sedile esclusivo dei Nobili. Per il resto il tessuto urbano consisteva in edifici comodi ma non appariscenti se è vero che quasi tutte le attuali emergenze architettoniche non vanno oltre il Quattrocento (chiese, conventi, monasteri e palazzi). Da quel periodo partì il primo rapido sviluppo urbano di Tropea che si avvolse pericolosamente su se stesso per cinque secoli ed alla fine esplose in forma rovinosa verso sud-ovest come la fiumana di fango e detriti travolse la Marina del porto nel 1872, scendendo lungo la Grazia. I fattori ricordati che fecero la POSSANZA di Tropea cominciarono a produrre il loro effetto man mano che funzionavano a pieno regime, una volta collaudati, in quanto producevano pecunia -reggimento di tutte le cose-Tali fattori rendevano la città preziosa per il Regno di Napoli: per conquistarlo e per conservarlo dagli assalti dai continui aspiranti per motivi dinastici veri o presunti. Con tali requisiti che si consolidavano, essa, attraverso le Istituzioni principali, Vescovi e Sindaci, di fatto ricattava i sovrani sotto l’apparente forma delle richieste di privilegi alla loro -Augusta Maestà-. Se si vuol comprendere l’importanza di una città bisogna misurarla dal numero di privilegi e soprattutto dal loro contenuto. Se poi si esamina la qualità delle richieste si intuisce quale classe sociale aveva il predominio ed a volte anche aspetti della sua cultura. All’inizio ci dovette essere un’aristocrazia terriera locale e la figura del vescovo fu predominante in ogni senso con la manomorta che si andava costituendo: da sola superava quella di tanti singoli proprietari a giudicare dalle fabbriche alzate e pur tenendo conto delle donazioni. Di fatto era un vescovo-conte per il quale in quegli anni si battevano, non solo a parole, Papa ed Imperatore in Europa. Infatti i Diplomi dei sovrani erano ad essi diretti e non ai sindaci dell’Università. Solo più tardi si invertirà in parte la tendenza. Il segno di un riequilibrio dei poteri fu la disputa sui -Vassalli- (gruppo di famiglie che i diplomi reali avevano assegnato al Vescovo con giurisdizione assoluta). Tale disputa fu riassunta nel 1716 e tutti gli atti dovrebbero trovarsi nell’archivio vescovile come pure in quello comunale: il disastro e saggheggio di emtranbi lascia poche speranze. Con i Normanni arrivarono nel Sud tanti aspiranti feudatari che seguendo i vari fratelli d’Altavilla inseguivano come ricompensa un feudo. Fino a quando tutte le conquiste non si ridussero sotto Ruggero II ci fu rivalità vera tra i vari capi e Tropea ospitò Sikelgaita, assediata in Mileto da suo cognato Ruggero I. Essa fuggendo riparò nella Cattedrale di Tropea nel 1062. Era la moglie di Roberto Guiscardo, padre di Ruggero Borsa. Per riconoscenza Tropea, anzi il suo Vescovo-Conte, ebbe un diploma di privilegi e donazioni per la Chiesa e la Città. Questo segnò il decollo ufficiale di Tropea che fino a quel momento era importante ma mise in mostra il lato strategico come testa di ponte per Napoli e la Sicilia. Il passaggio al rito latino fu anche una esigenza politica ma il rito greco rimase a lungo in Calabria. Durante le alterne scorrerie saracene, con Tropea ed Amantea contese tra Arabi e Bizantini, questi che già avevano dato all’antico Bruzio il nome di Calabria, non riuscirono a chiudere la partita con gli Arabi della Sicilia dediti alla predazione più che alla fede del Profeta . Ma furono fatali ad Amantea. Essi -ruinarono- in ogni senso diverse sedi vescovili che numerose i Bizantini avevano istituito, con rito greco, per un miglior controllo del lembo d’Italia loro risparmiato dai Longobardi. Tra di esse Taureana, Vibona, Amantea. Le prime due finirono circoscritte nella Diocesi di Mileto che divenne la Capitale dei Normanni in fase di assestamento dinastico e territoriale. L’ultima non andò a Cosenza perché questa era sotto la giurisdizione longobarda e terra di confine con i Bizantini lungo il torrente Malpertuso, prima di Paola. Dell’ultima si prese cura Tropea in modo informale, ma non c’è una data certa. Per quasi tre secoli anche per Tropea non c’è traccia di vescovi a causa delle scorrerie saracene: probabilmente il nostro vescovado riprese vigore anticipando le possibilità di Amantea di risorgere e poi le circostanze causarono le conseguenze. Tralasciando per ora il problema particolare, avvenne che nel primo privilegio, la diocesi di Amantea, da Ruggero Borsa figlio di Guiscardo fu annessa a quella di Tropea, senza diritti e neanche il riconoscimento di sede Concattedrale. Questo comportò un rovello millenario degli Amanteani tutti non solo per motivi di prestigio, ma per sottrazione di risorse economiche che confluivano nella Diocesi superiore che via mare con il suo porto raggiungeva facilmente Amantea posta esattamente a nord e con navigazione a vista. Invano per secoli essa reclamò la restituzione del mal tolto, vedendo tante rendite della sua chiesa, molto più grande di quella di Tropea per anime e territorio, involarsi via mare verso la mensa del Vescovo e dei Canonici di Tropea. Questi ad una certa data venivano quasi tutti dalle famiglie del Sedile i cui discendenti sono tra di noi. Un Vescovado tale rafforzò Tropea che, chiedendo sempre il rinnovo dei privilegi, metteva al primo posto la conferma del Vescovado di Amantea e la richiesta di essere lasciata in perpetuo nel regio demanio. Lo stesso vale per tanti preziosi documenti dell’archivio comunale. Durante le continue guerre dinastiche, prima dell’arrivo dei Viceré, Tropea rimase sempre fedele alla casa regnante, salvo a giurare fedeltà al vincitore. Da qui il motto sul suo stendardo. Ma già stava crescendo per i fattori accennati. Ad un certo punto il carattere di demanialità fu il maggiore elemento di sviluppo perché le diede, con gli altri privilegi commerciali, gli aspetti di un porto franco. Al seguito delle varie dinastie arrivarono tanti avventurieri e cadetti alla ricerca di un feudo nel quale sentirsi arbitri assoluti in cambio del servizio prestato. Poteva andar bene ed allora veniva cacciato chi aveva parteggiato per il perdente. Ad un certo punto si tradiva per calcolo il proprio sovrano per il quale si era tradito il precedente. Un calcolo pericoloso perché neutrali non si poteva restare. Questo almeno per i titolari dei grandi feudi con giurisdizione di fatto illimitata, potendo da soli affrontare in ogni senso il re stesso. Tale situazione giocò a favore dello sviluppo di Tropea per i fattori esposti. Da tutto il Regno e soprattutto da Napoli molti elementi di media aristocrazia si trasferirono a Tropea per sottrarsi al dominio dei feudatari che su di loro avevano giurisdizione a volte senza appello al sovrano. Qui non dovevano obbedienza a nessuno per la condizione di città demaniale ed anzi apparivano grandi governando con regime aristocratico la città. Cercarono ed ottennero facilmente la limitazione dei poteri del Governatore del Re. Ma le loro rendite di terre lontane si spendevano a Tropea per un palazzo che gareggiasse con quello degli altri arrivati o residenti da tempo. Anche si procuravano terra nei casali intorno ed oltre, anche loro con alterne fortune. Le famiglie notevoli degli stessi Casali ritennero prudente trasferirsi in città per la pirateria ma anche per sottrarsi alla vendetta dei loro tartassati: gli esempi cruenti non mancano fino a poco tempo fa. Il torrente Burmaria rendeva ricche le fertili terre di tutto il Carmine e S. Francesco che appartenevano alla chiesa ed ai nobili che potevano seguire gli orti con gli occhi. Lo stesso torrente deviato a sinistra irrigava la Contura fin oltre viale Tondo e con regolazione delle acque muoveva nella sola Tropea dieci mulini di enorme valenza economica e di sicurezza alimentare per mille anni. Il porto favoriva i commerci insidiati dalla pirateria, dalla quale SOLA Tropea fortezza garantiva all’interno la sicurezza possibile. Alcune famiglie avevano feudi con limitata giurisdizione feudale lontano da Tropea ma qui abitavano costruendo il relativo palazzo sempre all’interno delle mura. In certi privilegi ai Sovrani si chiede che a nessuno del Regno fosse impedito di stabilirsi a Tropea volendolo. A nessuno doveva essere impedito di tornare recandosi fuori. Il fenomeno della corsa a Tropea disturbava qualche baronia perché con l’attività edilizia intensa tra Cinquecento e Settecento furono attirate maestranze specializzate da un vasto raggio. La stessa manutenzione di tante case dava un lavoro continuo ed i vari ordini religiosi da soli avevano fabbriche che duravano decenni. Il trasporto in città di tanti materiali occupava molte persone, come pure le esigenze di legna da ardere contribuì al disboscamento dei Casali con conseguenze sul riporto dei fiumi. Tutto l’indotto animava un artigianato che assunse vita autonoma come i mercanti ed i principali operatori delle fabbriche civili e religiose. Nei privilegi si chiede franchigia dai balzelli feudali per le merci della città in tutto il regno per mare e per terra. Segno che accanto alle famiglie possidenti si era formato un ceto di nuovi ricchi in grado di essere determinanti nella vita cittadina competendo con la nobiltà di fatto immigrata. Tra questa non mancarono tentativi di guadagno che non fosse legato alla semplice rendita.. Non sembri strano la parola -immigrata-: chi era arrivato a Tropea in cerca di sicurezza fisica interna ed esterna e per sottrarsi al più grande feudatario si presentava come guerriero conquistatore ed ancora oggi alcuni fanno intendere che il loro cuore sta nella terra da dove vennero i loro avi e che Tropea è stata una preda: nella loro boria dicono il vero confermato da quanto si dimostrerà più avanti. La varietà delle dinastie, che si rifletteva nelle famiglie, produsse divisione tra svevi ed angioini e tra questi e gli aragonesi nel Quattrocento, ma senza conseguenze traumatiche a Tropea. Avevano capito, laici e religiosi, che il loro interesse era la difesa ed accrescimento dei privilegi di fatto economici ed i Sovrani, compreso CarloV, acconsentirono per le ragioni indicate. Con l’arrivo dei Viceré ebbero la prevalenza gli Spagnoli già anticipati dagli Aragonesi. Allo stesso modo quando alcune famiglie senza alcuna origine cavalleresca, avevano acquistato -col sudore una vistosa possanza- potevano essere pronte ad estromettere dal potere la nobiltà. Questo avvenne in tanti Comuni del Centro-Nord in diverse forme. Da noi niente di tutto questo. La ricca borghesia preferì la cooptazione nel potere allo scontro e se anche ci furono momenti di tensione, ad entrambi non conveniva lo scontro alternativo come avvenne in parte a Catanzaro. Avrebbe messo in gioco il popolo -tapino- dei tuguri ed il rancore dei Casali minacciosi verso la dominante Tropea che li trattava da iloti. Il cambio e rinnovo delle famiglie nel Sedile e nel Capitolo della Cattedrale chiarisce il problema. Il -turn over- funzionava. Il capolavoro mediatico di tale sistema di potere fu quello di aver convinto la plebe ad identificarsi con i suoi interessi in cambio di un sistema di solidarietà paternalistica che da poco forse è finito:-campu cu gnuri-. Avere Tropea compatta significava lo sfruttamento coloniale dei Casali visti non come parte morale dell’università ma come colonie da sfruttare. Tutto fu agevolato in quanto tra le famiglie nessuna aveva prevalenza vistosa sulle altre. Neanche tra i borghesi ci fu il grande banchiere o mercante in grado di divenire signore della città. Cosa impossibile nel Regno dove anzi i grandi banchieri venuti prima da Firenze(Trecento) e poi da Genova(Cinquecento), finirono con l’infeudarsi a loro volta.Oggi i nostri governanti, dopo aver visto per decenni -segni di ripresa nell’economia e nella vita sociale della Calabria- ci hanno consegnato ai Celtici della Milano da –bere- che per ora si preparano ad estromettere dalla dirigenza medio-alta della ex Carical tutti i -Terroni-. In tutto il Regno molte famiglie vivendo soltanto di rendita si avviarono al declino senza ritorno, o con matrimoni parentali cercarono di limitare la divisione delle terre che non avrebbe assicurato la loro sopravvivenza da fannulloni dopo essere stati conquistatori. I matrimoni con i nuovi arricchiti, anche se puzzavano di fondaco o di usura quando a loro anticipavano il denaro del futuro raccolto, fu un altro sistema per salvare la proprietà ed il blasone. Tardi si accorsero della opportunità di avviare i figli ad una -arte liberale- che loro disprezzavano. Gli Aragonesi erano operosi ma gli Spagnoli considerarono il lavoro o lo studio per lavorare cosa ignobile, non degna di un nobile e quindi da disprezzare (mentalità del galantuomo preminente nel sud). I Vicerè avevano ormai sempre meno bisogno dei loro aiuti feudali nonostante le trame dei grandi baroni per restare reucci nei loro feudi portando il Regno ad una ingloriosa fine senza un glorioso passato. I piccoli nostri nobili, si coprivano di altisonanti titoli (Collari e Cingoli) per coprire la miseria morale ed economica alla quale si avviavano per non essersi aggiornati in tempo con le tecniche agricole ed il progresso in genere. Le loro stantie proprietà rendevano grama la vita al colono controllato a vista, mentre le nuove fortune economiche potevano estrometterli in breve tempo dai palazzi e dalle proprietà, come avvenne ed ancora avviene. La memoria del 1818 (attribuita a Galluppi al quale non farebbe onore) indirizzata al Papa ed al Re di Napoli, difende la causa della conservazione del Vescovado a Tropea che si profilava pericolante e non si poteva più chiedere il rinnovo di privilegi. In tale accorata supplica si fa un quadro pietoso dello stato morale, sociale ed economico di una Tropea avviata al declino. Non si trattava più di difendere il possesso di Amantea facendo il -transunto- di tutti i privilegi, ma di salvare la propria esistenza. Con una relazione che -meriterebbe in alcune cose minore entusiasmo e non tante asserzioni insostenibili- si dichiara che -una non picciola parte di queste campagne, che formano le sue delizie, appartiene alla Mensa Vescovile; sarebbe in conseguenza molto doloroso per Tropea, che i frutti dei suoi annessi campi le fossero rapiti, e si dessero ad un vescovo fuori del suo territorio: il cittadino sarebbe incessantemente forzato di versare delle lacrime alla vista di quelle contrade, che la pietà dei suoi padri ha donato alla Chiesa: la Coltura (tutta l’area irrigata dal torrente Burmaria) andrebbe a languire, laddove il Vescovo stesso passeggiando all’uscita dalle mura della città, osservando la coltura dei campi della sua Mensa, l’anima e la ravviva. La posizione fisica di Tropea le dà dunque dritto al Vescovado. Situazione morale di Tropea. La sua posizone morale la reclama egualmente. La popolazione di Tropea racchiusa nelle sue mura è composta per quasi più di due terzi d’individui che non sono addetti a lavori meccanici. Il Clero, la nobiltà ed il ceto dei Galantuomini formano per l’appunto questa parte più numerosa. Il clero che adorna il vetusto Duomo Vescovile è uno dei più illustri della Provincia. Ciò è stato dimostrato innanzi. Tropea è stata sin da’ tempi immemorabili sede di una generosa e cospicua nobiltà….ella (Tropea) sarebbe un corpo acefalo, ella presenterebbe un quadro di un bell’uomo con un capo deforme. Se Tropea presenta una Popolazione, la cui massima parte non è addetta a lavori meccanici; se in sì fatte età sì la parte oziosa ha bisogno di maggior freno, per arrestare la licenza del costume,conseguenza inevitale dell’ozio; e la parte scientifica ha bisogno di una vigilanza, per non essere avvelenata da una falsa filosofia; chi potrà negare che l’esistenza del Vescovo sia legata alla posizione morale di Tropea? chi potrà negare che la perdita del proprio Vescovo richiamerebbe su dì questa città un diluvio di mali? -Forse non c’è bisogno di commento :speriamo che la -perdita- recente del Vescovo non richiami su di questa città un diluvio di mali. E’ ancora presto per stabilirlo. Essa aveva perso l’importanza dei suoi requisiti di ricatto nella vita del Regno e si trovava come un veliero in bonaccia più temibile della tempesta. Intravedeva sulla sua pelle cosa sarebbe significato perdere il vescovato e sotto mentite litanie si badava alla perdita dell’afflusso economico a favore di un’altra sede: Mileto era in agguato da tempo, avendo trascurato la memoria difensiva al momento della disputa finale con Amantea relativa al -laconismo-. Solo adesso i Tropeani capivano il danno fatto per seccoli ad Amantea: sarebbe stato un colpo tremendo per la vita della città. La stessa operazione nella seconda metà del Novecento è passata senza accorgersi o rimostranze. Perché le fonti economiche alternative erano tante. I temi rapidamente accennati non sono estranei all’argomento in quanto ogni attività ha bisogno di capacità professionali e di investimento, meglio se in unico soggetto. Lo sviluppo edilizio di Tropea fu costretto fino al Settecento quasi tutto dentro le mura per paura di assalti e saccheggi. Ma proprio tale situazione aveva contribuito a farne una meta ambita. Finite o vanificate tali prerogative Tropea credette di vivere di rendita del suo passato con una classe dirigente che non guardava al futuro e non aveva la cultura attiva per diventare intraprendente. Discutevano gli Allaborantes se il loro progenitore Ercole fosse stato egizio o tebano e per tale fatica si recavano in residenza di campagna per riposarsi e rapinare meglio il sudore dei contadini ai quali anticipavano le sementi ad usura per rifarsi di quella esercitata su di loro dai prossimi inquilini proprietari dei loro beni ipotecati. Da tale torpore li svegliò il terremoto del 1783 in una città pericolosamente costipata da edifici affollati, come i quartieri spagnoli di Napoli o Palermo. Ricordiamo i più notevoli sull’appicco in senso antiorario da Porta marina. Si notino anche le date certe di alcuni, gli altri sono recenti. La cartografia anteriore al 1783, quella subito dopo tale data e quella di fine Ottoccento sono un quadro eloquente che a Tropea il disastro urbanistico è una tradizione antica. Da Porta marina a palazzo Giffone sulla ripa si vedono otto edifici ed una chiesa: Bragò - Finocchiaro - Galli - Tranfo - Fazzari - Collaretto - S.Demetrio - Sede dei Conventuali - Giffone. Tranne il primo che è stato ridotto lato sud, gli altri sono rimasti nella consistenza originale e la chiesa di S. Demetrio è il rifacimento di S. Pietro ad ripas. Da palazzo Fazzari in poi e fino all’Isola in tempi certi c’era il mare e dall’alto si pescava dalle logge e dai balconi. Dalla fine del Seicento il mare, per cause diverse cominciò a ritirarsi. Allo stato attuale in generale c’è una inversione di tendenza in quasi tutta la Calabria, con conseguenze disastrose che pur potevano essere previste. Si continua ancora a costruire, con i finanziamenti pubblici, degni di miglior causa, a ridosso del mare che sarà l’unico vindice di tanta deliberata inciviltà -per il bene pubblico-. Quando poi il mare asporterà tali opere, si invocherà lo stato di calamità naturale per altri soldi. Sono assolutamente inutili le opere di difesa marittima che sperperano risorse ingenti per un abreve tregua. Il prelievo di materiale dall’arenile, dal corso dei fiumi, i laghi artificiali, hanno accelerato la tendenza del mare a riconquistare lo spazio perduto negli ultimi duemila anni. Non si può alzare una diga (torre di Babele) da Scalea a Reggio e da qui alla Lucania. Si usino quelle risorse per spostare in tempo ferrovia e strade e le attività possibili: non si possono salvare Napoli o Catania tappando la bocca eruttiva al Vesuvio o all’Etna. Sulle coste della Calabria si sta tentando tale operazione: non so se bisogna ridere o piangere. La regione Calabria riveda tutta la materia ed intanto blocchi ogni finanziamento alle attività che hanno ormai il mare di fatto all’interno e piuttosto le aiuti a spostarsi se ne hanno la possibilità: la ferrovia sul Tirreno già arretrata da poco sta per essere di nuovo raggiunta sotto la collina. Intere paesi sulle -Marine- non credo siano più difendibili: basta fare una ricognizione ed una anamnesi seria sul piano storico – scientifico. Ionio e Tirreno : non c’è bisogno di fare esempi. Dopo questa precisazione che vale anche da Capo Vaticano a Capo Sempronio si ricorda che a Tropea le arcate sulla ripa orientale dei palazzi Collaretto e Fazzari erano pubbliche con uscita da S.Demetrio ed ora sono chiuse: furono anche pubblici lavatoi e macello. Si può pensare alla loro riapertura.Tali manufatti hanno le scale più -storiche- di Tropea. Palazzo Fazzari: il suo atrio è presentato in bianco e nero davanti all’ufficio del Sindaco di Tropea. Ed a ragione! Prego lo Stesso sig.Sindaco di andare a verificare lo stato di sfacelo ed anche altro e nel frattempo si eviti la visione ai turisti che sempre numerosi traggono valutazioni. Palazzo Collaretto (ospizio): sono in corso lavori di –restauro- che non credo siano confacenti al caso .Un sopralluogo di oltre dieci anni fa stabiliva che - rifacimenti non pertinenti e sovrastrutture per il recupero degli spazi, in parte hanno cambiato la tipologia e deformato le strutture-. Se ancora si prosegue su quella strada che fine farà il centro storico? Segue la chiesa che da san Pietro passò a san Francesco, all’Immacolata ed infine a san Demetrio per la demolizione della stessa in largo Galluppi. Nel 1295 l’antica chiesa di san Pietro ad Ripas (non sulla rupe ma presso la Ripa – affaccio pubblico) fu ceduta ai Francescani con l’orto annesso. Su di questo essi costruirono il convento esistente che ebbe in seguito varie destinazioni. Largo Galluppi nacque dalla demolizione degli edifici che da palazzo Bragò fronteggiavano palazzo Giffone. Seguire le passeggiate della statua del filosofo sarà –edificante - in altro momento. Dall’affaccio di tutti gli edifici orientali si vede la Grazia, il porto ed il S. Leonardo. La prima con una colata di fango e pietrame sommerse il porto nel 1872. La maggior parte dei detriti si riversò a destra verso la Pizzuta ed a nord fino all’attuale molo. La marina di Tropea fu in buona parte risparmiata dalla conformazione orografica e da quel muro che si intravede sullo sfondo. La fiumana sommerse due mulini ed i probabili resti del convento della Grazia. Uno dei due mulini, con l’assestamento del terreno è riemerso nella punta della saetta, come di una nave affondata il fumaiolo. Per la posizione è facile recuperarlo per interesse tecnico e scientifico. La campana del convento, già sede dei Domenicani prima di passare a palazzo Adesi sul corso, è una delle quattro della Concattedrale di Tropea (così si chiama dopo la costituzione della diocesi Mileto-Nicotera-Tropea di recente definitiva). Il mare agli inizi del Novecento raggiungeva a sud lo scoglio san Leonardo fino alla strada attuale.Per varie ragioni aveva toccato il punto di massimo arretramento naturale prima della inversione di tendenza in atto. Il canale si era chiuso anche se durante le mareggiate da ponente e maestrale si afferma che le onde circondavano lo scoglio. Quando il mare era assai avanti sotto il Carmine c’era appunto la dogana regia, il fondaco, e l’arsenale per la costruzione e riparazione delle navi ed anche una torricella di guardia contro i pirati. Per questi fu mantenuta una piccola flotta dall’ammiraglio Vulcano ricordato nella toponomastica di Tropea e forse anche nel fondo che al confine con Ricadi porta tale nome. Sotto gli occhi dell’osservatore ad oriente c’è ancora il nuovo porto. Il vecchio molo fu costruito dopo la prima guerra del Novecento. Nella pineta di fronte al preventorio ,sorto intorno al 1930,affiorano due teste d’ariete in granito: la loro esplorazione potrebbe riservare qualche sorpresa. A Tropea qualcosa di nuovo accade sempre non -ad ogni morte di Papa- (ai quali si augura comunque lunghissima vita, come pure al Vescovo della nuova diocesi di Mileto-Nicotera -Tropea) ma ad ogni terremoto che vorremmo mai avvenissero. La teoria delle probabilità ci insegna che gli scongiuri non cambiano niente, né altri riti propiziatori se non si vuole cadere nella magia degli sciamani. Come conseguenza dei terremoti del 1905 e 1908, preceduti da quelli del 1638, 1658, 1783, (si rifletta sulla loro periodicità) furono per la prima volta emanate leggi speciali per la Calabria. Esse prevedevano anche un piano per sette porti tra i quali quello di Tropea. Fu realizzato il molo che tale restò interrandosi e sforacchiandosi. Leggendo gli atti del consiglio comunale e poi quelli del podestà, durante i lavori del primo porto, si notano evidenti nel nuovo impianto gli stessi difetti di agibilità che allora invano e tante volte essi denunciarono inascoltati. Diga foranea esile per costituzione e bassa. Con il mare in tempesta le onde scavalcano e si rovesciano pericolosamente sulla banchina che è troppo stretta anche adesso. I rimedi sarebbero oggi molto costosi. Eppure tutta l’area del porto fu presa di mira circa trent’anni fa da benefattori che la volevano regalata per una speculazione immobiliare. In cambio promettevano un approdo più sicuro per i pescatori esasperati a ragione per tale mancanza che aggiungeva al loro lavoro fatica e pericolo. Si ricordi quanto di tragico accadde a Schiavonea sullo Ionio circa venti anni fa. Avrebbe portato lavoro e lustro al paese: agiva per il pubblico bene e ci mancò poco che non la spuntasse. Se così fosse accaduto oggi lo scoglio sarebbe circondato da benefattori in quanto l’area a sud, un tempo canale navigabile, è stata donata per -le Roccette- per il bene pubblico ad altri richiedenti benefattori che tuttora in forma legittima la detengono. Ma con l’attuale ritmo di avanzamento del mare nel suo antico ed anche per esso legittimo naturale sito si ricostituirà il canale e SOLA Tropea avrà, anzi riavrà, un porto con due entrate ed uscite per le quali si possono approntare le modifiche. Nessun sarcasmo a meno di congiungere con muraglione ciclopico la punta a maestrale dello scoglio con la roccia coperta da quegli orrendi archi che dovrebbero essere in qualche modo mascherati. Alla foce della Grazia il porto ha due emergenze inconciliabili: il mare mangia la striscia alluvionale mobile e tende ad aggirarlo da est, se la Grazia ripasce la linea di costa interra lo stesso porto. Questo per millenni non si insabbiò perché il lavoro dinamico delle correnti disperdeva al largo gli apporti fisiologici delle acque di tutta la costa ed in particolare del Lumia e del benemerito Burmaria che distingueva la sua foce da quella della Grazia. Con questo andamento dinamico della linea di costa e senza l’intervento dell’uomo per controllarla, si tornerà alla morfologia dei tempi remoti ed il porto si troverà nel mare da attraversare per raggiungerlo: sarà un altro requisito della SOLA Tropea: un molo di servizio per arrivare al porto. L’attuale porto si inserisce nel programma europeo de -I porti di Ulisse- in Italia ed in Grecia ed altri in zona se ne prevedono. Questo va bene ma come sarà protetta la zona intorno dagli scempi o chi e come gestirà opere realizzate a pubbliche spese? Ci avviamo a costituire nuovi feudi o prebende sul diritto di -ripatico-? Se Odisseo ritornasse lungo le coste della Megale Ellas e della stessa Grecia, vedendo i Mostri urbanistici lungo le coste li scambierebbe per Scilla e Cariddi e non si farebbe tappare le orecchie con la cera, ma si farebbe bendare gli occhi. Egli che era - uom di multiforme ingegno - che molto errò poi ch’ebbe a terra gittate d’Ilion le sacri torri, e che città vide molte e delle genti l’indol conobbe, - abbandonerebbe di nuovo Penelope per una nuova missione volontaria. Con l’arco e le frecce recuperate dal corpo dei Proci usurpatori si presenterebbe di fronte ai nuovi Mostri. Questa volta, non legato all’albero, ma dall’alto del pennone, come la vedetta del pesce spada, comincerebbe a saettare invocando anche Apollo, suo nemico, ad aiutarlo in forza e precisione, contro i nuovi Proci usurpatori di tutte le nostre coste. Con piccola metatesi li scambierebbe per quell’animale nel quale Circe tramutò i suoi compagni, ma non solo a calci li prenderebbe. Dopo tremila anni potrebbe aver dimenticato il percorso fatto, ma non c’è problema. La bella nostra pubblicità presenta a tutti i livelli la Regione Calabria che all’eroe dalla -Mente Colorata- può fornire una delle guide preparate e stampate dai bavosi cantori dei mari del Mito: seguendo Ulisse oppure Enea, tali guide a spese nostre ed a vantaggio dei Proci, con retorica abominevole e mistificazione di falsari, mostrano i luoghi veri o presunti, toccati da quei due, veri o presunti, nel loro viaggio verso Itaca ed il Tevere. Ma i bavosi cantori, a caccia di prebende, non spostano di poco (a volte anche dieci metri) l’obiettivo delle loro -mitiche immagini-: ci farebbero vedere le vergogne urbanistiche, che sostituiscono, nei loro -splendidi itinerari- alle-vergogne- di qualche aspirante Venere di Botticelli che nasce dall’onde del mare. Guardando a destra dal punto trigonometrico scelto segue la Chiesa oggi denominata S.Demetrio e per ora chiusa, con tutti i danni che ne derivano ad essa ed alle -cose- che conserva. Dico questo perché pochi sanno quale commercio turpe si fa, nell’ombra, delle opere d’arte, comprese quelle sacre che a Tropea sono la totalità e da parte di persone insospettabili. Essa è l’antica parrocchia di S.Francesco d’Assisi ed alla sua destra c’è, di fronte a palazzo Giffone, l’attuale liceo scientifico. Alla fine del 1200 esisteva soltanto la chiesa sotto il titolo di S.Pietro ad Ripas e l’area a destra era l’orto dello stesso. Nel 1295 il vescovo Giordano con regolare diploma concesse chiesa ed orto ai Francescani Conventuali perché su di esso edificassero il loro convento. Così avvenne. In seguito (1665) sull’area dell’antica chiesa fu ricostruita la chiesa detta S. Francesco o dell’Immacolata. Questo Ordine di Frati ebbe a Tropea vari momenti. I conventuali furono nel luogo descritto, a quelli di più stretta osservanza fu prima dato il monastero basiliano di S. Sergio, alle sorgenti della Grazia, poi la chiesa dell’Annunziata quando divennero i Francescani Riformati. La chiesa dell’Annunziata è oggi proprietà comunale e la secolare fontana che c’era davanti fu eliminata con atto non certo encomiabile. I Minori Francescani (Cappuccini) prima ebbero la chiesa ed il loro convento a Vicce, sotto il titolo di S. Maria della Sanità (esiste ancora buona parte della fabbrica) e subito dopo fu edificato, in seguito a generosa donazione l’attuale convento con chiesa detto della Sanità (sant’Antonio portoghese). Prima sulla sinistra si trovava l’ospedale dopo tante migrazioni. Più avanti c’è palazzo Giffone: per ragioni che saranno altrove riferite esso fu nella prima metà del Novecento al centro di una vicenda che segnò il suo passaggio nei beni dello Stato, dopo un’asta che determinò attrito tra i Redentoristi e gli affini dei Giffone ed anche all’interno di questi ultimi. Gli atti relativi dovrebbero trovarsi presso gli eredi ed aventi causa, negli archivi dello Stato che divenne controparte per ragioni fiscali, e certamente presso l’archivio e la biblioteca dei PP RR a Pagani. Credo che dopo un secolo alcuni fatti di storia locale possano essere ricostruiti, inquadrati e riferiti nel loro tempo, anche se sembrano privati. Soprattutto quando sono il prototipo di una classe sociale e di una città che a sua volta fu un UNICUM-SOLA in Calabria e forse nell’intero Regno. Vedremo. Tale immobile da anni è oggetto di interminabili lavori di restauri e lavori non terminati. La sua acquisizione da parte del Comune di Tropea non è impossibile. Ma altre attenzioni sta ricevendo.Tale palazzo separa la sede dei Conventuali da quella dei Gesuiti, diversamente i seguaci del Poverello di Assisi e del Loiola si sarebbero guardati a vista (ed anche in cagnesco). Queste due istituzioni religiose furono elementi portanti della vita tropeana nel loro tempo. Nel Cinquecento Tropea ebbe una forte economia ed un alto incremento demografico per vari motivi ricordati. Fino a quel momento a Tropea erano arrivati quasi tutti gli ordini religiosi regolari. I Gesuiti scelsero Tropea come quarta sede della loro Compagnia. La Compagnia di Gesù (Societas Jesu) sorta in quel secolo ebbe una rapida espansione che sollevò rimostranze negli altri ordini. Quello di Tropea fu il quarto Collegio dei Gesuiti in Calabria dopo Cosenza, Catanzaro e Reggio. Seguiranno Monteleone, Amantea, Paola. Tranne Catanzaro tutti sul Tirreno e non è un caso. Il pioniere fu padre Bobadilla castigliano che per stare in Calabria rinunciò a presenziare all’atto formale della fondazione canonica della Compagnia del Gesù, 1540. Spirito -libertario- ed incontrollabile. I Gesuiti, trovarono in Calabria condizioni generali, in rapporto a tutti i possibili riferimenti, compresa la chiesa e le sue istituzioni, così tragiche e disperate che ci definirono -Indie di quaggiù-. (Più tardi i Celtici ci chiameranno con disprezzo Africa:ricordo che la classe politica dei nostri ascari ci tiene in condizioni di essere da loro insultati in cambio delle briciole per essere rieletti col clientelismo corruttore.) Una chiara ed inappellabile condanna dell’opera svolta in passato dagli altri ordini religiosi ed espressamente dalla deviazione delle autorità tutte, civili e religiose. Qui bisognava restare e da qui cominciare. Neanche il Barrio in quel periodo presenta un quadro così triste. Riprodurre qui il contenuto delle loro relazioni, senza ricordarne gli autori, rischia di attirarsi addosso le calunnie di tanti zelanti a parole della storia della nostra regione. Ad un certo punto avere nella propria città, già presenziata dagli altri ordini religiosi, la Compagnia di Gesù, divenne un’aspirazione che travalicava la fede. Chiese, conventi, monasteri, religiosi regolari e secolari,confraternite in genere superavano di gran lunga il numero massimo di religiosi che un viceré stabilì in rapporto agli abitanti, per fermare la corsa alle sacre lane. Fra le città della costa tirrenica scattò una gara di emulazione e forse orgoglio e tutte in rapida successione ebbero il Collegio dei Gesuiti con annessa chiesa, offrendo la più ampia garanzia per la fondazione ed il suo mantenimento, mentre altri ordini religiosi avevano difficoltà di sopravvivenza. La priorità data dai seguaci del Loiola a Tropea era il riconoscimento della sua importanza. Si noti bene che dopo la costruzione della sede di Amantea il Vescovo di Tropea condivise con quello di Cosenza la presenza di due Collegi nella propria circoscrizione. Essi si installavano su richiesta con garanzia di sede adatta e reddito per la sua vita decorosa. La scelta dei centri migliori era subordinata allo scopo di formare ed inquadrare nell’ortodossia i figli dei nobili destinati alla classe dirigente, con evoluzione ed adattamento dell’ispirazione fondante della compagnia. Se si potesse controllare l’elenco degli alunni laici e religiosi, quanto affermato troverebbe le prove. I Gesuiti, insediandosi su esplicita richiesta, sceglievano il sito con valutazioni a largo raggio che spesso nom sono state fatte in tempi recenti dall’edilizia civile. Essi avevano al loro interno i Mastri-progettisti e direttori di fabbrica col nome di -Consiliarius aedilicius- ed al primo errore li cambiavano. La fabbrica del collegio di Tropea iniziò all’inizio del Seicento ed alla sua inaugurazione intervenne il generale della Compagnia padre Acquaviva. Verso la metà del Seicento fu demolita l’antica cattolica a croce latina, già Cattedrale dopo san Giorgio, ed innalzata l’attuale a croce greca. La velocità di esecuzione di tutto il complesso, chiesa e collegio, dimostra che quando responsabile della procedura è un solo soggetto, senza intralci di burocrazia che spesso si costituisce a potere e pretese indipendenti, le opere si realizzano e si portano a termine. Oggi si dice -Sportello unico- ma è un’altra cosa. Il Collegio ha subito varianti e cambi di proprietà e destinazioni d’uso che si tagliano con la storia di Tropea e dell’Italia. Possono essere oggetto di ricerca, con tutte le implicazioni anche recenti per le quali nel nostro comune non si trovano i documenti. Esso costituisce, dopo il complesso -Duomo, Episcopio, Seminario- la fabbrica migliore di Tropea, avendo subito pochi ritocchi. Il piano terra ha due livelli adeguandosi alla natura dei luoghi. Nel progetto originale non c’era il secondo piano di fronte a largo Di Netta e da questo innalzato ai primi dell’Ottocento. Prima era largo Municipio. Ad ovest della chiesa c’è largo Gesuiti. Perché non si è cambiato questo nome? Dov’è a Tropea largo o piazza Municipio? Lungi da me idee blasfeme ma piazza Municipio deve essere ripristinata: se il tempio di Marte divenne san Giorgio per allontanare un dio pagano, possiamo allontanare un Ercole, semidio pagano, chiamando la sua piazza Municipio ed il sedile Municipio Antico, senza far torto alla storia. Diversamente Tropea sarà la SOLA in Italia a non avere piazza Municipio. La fondazione dei collegi di Tropea, Monteleone, Amantea e Paola fu dovuta alle cospicue elargizioni di feudatari e facoltosi cittadini. -Nell’Archivio Romano della Compagnia di Gesù è conservata una pergamena con il testamento dei due fratelli tropeani, i nobili Marcello e Claudio Tavuli, che nel 1599 lasciarono i loro averi ai Gesuiti di Napoli perchè aprissero un collegio a Tropea. Il vescovo di Tropea, Tommaso Calvo, nominato esecutore testamentario, prese subito contatto con il rettore del collegio di Catanzaro e poco dopo, sollecitato da una delegazione di cittadini, il padre provinciale diede il suo assenso all’apertura del collegio, che incrementò le proprie sostanze con i lasciti di privati, come quelli di Quinzio Bongiovanni nel 1612, di Faustina Fazzari, Carlo Crescenti, e Giuseppe Calzerano qualche anno più tardi-. Al momento a Tropea c’è largo Calzerano e su di esso prospettano i palazzi Fazzari e Bongiovanni dove la strada Lepanto confluisce nella strada Vianeo: forse non è un caso. Il suo progetto, mirato alla funzione da svolgere, fu redatto dallo stesso architetto gesuita Quercia: Architetto e Principe nella stessa persona. Non c’erano problemi di finanziamento o stati di consistenza per erogare i pagamenti e l’opera avanzò veloce. Per problemi di confini e simili tra gli occupanti il collegio, prima i Gesuiti e poi i Redentoristi, con entrambi i confinanti sulla rupe, è sorta la leggenda di maledizioni che si sarebbero concretizzate. La verità è un’altra: da entrambi i lati del collegio gesuitico c’era un’ampia ripa pubblica per ventilazione igienica e veduta: le liti sorsero per la chiusura abusiva di tali spazi come avvenne per tutti gli altri, quasi fossero res nullius. Tra palazzo Giffone ed il collegio (palazzo s. Anna) c’è un cancello di ferro, datato 1833, che -di tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude-. Ma chi arriva non vuole immaginare -sedendo e mirando-, ma affacciarsi e scrutare l’infinito fino a capo Suvero ed oltre. Se poi tanta visione lo induce a ringraziare il suo Creatore ha un altro problema più grave: sulla data riportata, 1833, c’è segnato in ferro battuto: C N (Chiesa dei Nobili). Ad essa si accede soltanto con la carta elettronica che segnala la presenza di sangue nobile nel catecumeno. Diversamente scatta l’allarme. Consiglio a tutti di presentarsi con la carta del DNA, come quella del bancomat. Per tale motivo è pericoloso avvicinarsi al solo cancello che chiude una ripa pubblica come risulta dalla cartografia ufficiale prima di quella data. Ad ovest è successa la stessa cosa. Circa trent’anni fa il consiglio comunale svolse un’indagine sulle ripe chiuse: si concluse con la farsa. Si domanda a tutti gli amministratori passati, presenti e futuri di Tropea a chi appartiene e con quale diritto positivo lo scoglio san Leonardo. Negli itinerari -mitici- offerti ai turisti come allocchi da abbagliare, la sede di Calipso viene indicata su ogni scoglio del Mediterraneo a seconda del compilatore o del committente. Quando nelle vicinanze da esaltare non c’è traccia di isole si dice che l’isola è scomparsa. Noi non dobbiamo mentire: -Dinanzi a Tropea dalla parte del mare vi ha due scogli, detto l’uno S.Leonardo, l’altro l’Isola. S. Leonardo e l’Isola, seccondo l’Autore, son l’Insulae Ithacensae, seu Ithaci nempe Ulissis, sebbene credasi, che queste siano al di là di Zambrone. S.Leonardo è circondato tutto dal mare; sopra vi son vestigia di un edificio che per tradizione si crede la chiesa di S.Leonado; il piano si coltiva; vi era un ulivo che produceva. Appartiene al convento di S.Isidoro, e il prebendatario Abate Giuseppe Grilli il diè ad enfiteusi ad un certo Domenico Ferro, il quale dal convento di S. Francesco di Assisi con funi e canne condusse l’acqua da innaffiarlo-. Lo scoglio-isola-Ogigia lo abbiamo, mettiamo sopra Calipso come premio al turista più fedele a Tropea da almeno cinquant’anni. Per sette giorni e non per sette anni. Con la raccomandazione di non tagliare l’ulivo per fare il letto, la permanenza è provvisoria e ci sono gli anfratti: per l’acqua provvederà la solita cannuccia, per i pasti pregheremo le -Roccette- in quanto sponsor. Se durante la provvisoria luna di miele essi sentono vibrare lo scoglio sappiano che gli Amanteani stanno cercando di tirarlo invano dinanzi alle loro coste con una corda di pelo. Ma se sentono vibrare un martello pneumatico diano l’allarme per non essere trasformati nella -carcara- in calce viva. Con tutto quello che si vede in certe manifestazioni da noi pagate l’idea non è strana. Al di là di Zambrone: escludendo lo scoglio della peschiera di fronte a S.Irene, restano le Insulae di Dino e Cirella che possono rivendicare il titolo di Ithacensae. Ma non faremo la guerra: il titolo spetterà a chi farà trovare sopra la più bella Calipso. Prima di lasciare lo scoglio per spostarci più avanti desidero –rivelare– ai Tropeani una finezza archeologica inserita nello stesso a sud est. Intagliato nella roccia, a livello dell’asfalto c’è un emiciclo di cui appare la parte più alta e forse si abbassava ad anfiteatro fino a livello del mare quando occupava gli spazi ricordati. Alla archeologia non manca il lavoro in questo paese. Dopo il Sedile per discutere di carta e di penna, dopo la chiesa esclusiva con scranni di lusso, l’emiciclo sedile era il lido balneare riservato ai nobili e riferiremo i discorsi da spiaggia che qui tenevano. Con il tempo il mare lo interrò e si era persa la memoria. Senza sarcasmo può essere un luogo da visitare e scavare per vederne la fattura. Seguono poi verso sud i palazzi Parisi, Adilardi, Mottola, Gabrielli. Edifici sulla rupe che un tempo erano separati da un piccolo spazio pubblico. Finalmente si apre la villetta di Eliano. Come vedremo qui si arrivò alla fine dell’Ottoccento partendo dalle mura a sud alla fine del Settecento: lento pede, tra un terremoto e l’altro si rimediò ad un problema e se ne crearono altri. Dopo tale affaccio c’è palazzo Barone e segue il monastero di S. Chiara che si dice fondato nel 1265. Esso ospitava le nobili vergini mentre più tardi (1600) per le vergini nobili fu costruito il monastero di santa Domenica a sud della chiesa di san Giorgio. Nobili vergini erano le figlie dei patrizi che dovevano farsi monache,vergini nobili erano le figlie degli onorati con lo stesso destino. La chiesa di santa Chiara fu rovinata con adattamenti stravolgenti, segno di disprezzo per la storia e l’arte. Dopo un altro palazzo di recente restaurato segue la chiesa della Madonna della pietà e dei sette dolori divenuta S.Giacomo dopo la demolizione di questa in largo Calzerano. Il convento annesso fu oggetto di maneggi infiniti tra Ottocento e Novecento per come risulta dagli atti comunali: finchè finì in appartamenti per vacanze. Da quel momento credo che la Madonna abbia non Sette ma Settantasette dolori. Le grate in ferro sulla via Abate Sergio indicano che lì c’era il carcere della Pietà per i reati civili,distinto da quello per i reati criminali.Prima c’è un obbrobrio post moderno di fronte all’isola: si controlli che cosa è stato occupato di suolo pubblico e di ripa e se con diritto da parte di coloro che hanno l’onore del titolo di una via.Già nel 1846 il Decurionato si era occupato dell’occupazione abusiva di tale ripa e della Pietà da parte di privati per ristabilire i diritti pubblici di ventilazione ed affaccio qui come altrove usurpati. Tutto da rifare, anche la toponomastica. Dopo la casa di Carità rimane intatto un vero gioiello della Tropea antica: l’unico forno sopravvissuto nella struttura originale. In effetti dentro la fabbrica vi sono tre forni in linea con l’aspirazione unificata dei fumi verso un unico fumaiolo ancora eretto sul tetto. Non credo sia facile in Calabria ed anche fuori trovarne uno eguale. Un intervento di consolidamento e restauro non dovrebbe tardare. C’è il rischio di implosione e deterioramento irreversibile. E’ un monumento di tecnica e di vita cittadina: vedremo dopo dove erano gli altri forni. Da questi paraggi con una corda tesa fino al sagrato della chiesa dell’Isola veniva fatto arrivare agli eremiti il necessario a cominciare dal cibo. Una –sceneggiata- che ripeta la scena con il forno acceso ed il fumaiolo –fumante- potrebbe diventare una –rivisitazione- interessante con lo svolgimento dei riti in costumi d’epoca sul sagrato stesso magari in occasione del XVII° secolo anniversario del martirio di S. Domenica. Nel 1903 il vescovo Taccone-Gallucci,di origine militese e cultore di studi sulla santa, promosse a Tropea una grande manifestazione civile e religiosa. Al momento non pare che in questo paese si muova qualcosa: si ricorda che il turismo religioso in Italia è quello che non conosce crisi. Dopo il forno si apre la villetta grande un tempo postazione a difesa di Porta Vaticana. In essa confluisce via Indipendenza lasciando a sinistra Palazzo Gabrielli al quale è unito un fabbricato più basso che, lato ovest con finestre, continua le mura fino alla via stessa. Esso non è altro che l’antico carcere criminale della Bardura che stava appunto dietro le mura ad occidente.-La Curia Vescovile di Tropea ha avuto tutte quelle vicende che hanno avuto le altre Curie.Ha avuto le sue cause criminali,le civili,le miste.Ha dei de’Vassalli ha le carceri criminali fatte da Bordura, ha le carceri civili dette la Carità. Di più nelle catacombe (dice il Campesi) del palazzo Vescovile vi era un luogo di carcere detto la Flemma. In questo egli si ricordava di essere stata posta una certa donna per maleficii veneficii e superstizioni; dopo molti anni costei fu trovata gravida, e fu finto che fosse fuggita. Ad un certo punto i ruderi del carcere Bardura ,accanto a palazzo Gabrielli, ed entro la cerchia delle mura da poco demolite, furono richieste,con regolare istanza,dalla stessa famiglia che espresse in Tropea, e per tante volte ,il sindaco. Inutile dire quanto oggi quello spazio sarebbe stato utile alla città con le altre aree che fecero la stessa fine. Insisto su questo perché tale vocazione di regalare –per il pubblico bene – i suoli pubblici preziosi non è mai venuta meno. Alla fine dell’Ottocento risultava in condizioni precarie e fu ceduto al conte Pasquale Gabrielli che appunto era confinante. Nelle deliberazioni del nostro consiglio comunale un’operazione del genere viene sempre presentata in forma melodrammatica con una ouverture degna di miglior causa e non di speculazione immobiliare. Verbale del consiglio comunale n.44 del 1892: Ordine del giorno: Istanza Conte Pasquale Gabrielli per acquisto ruderi carcere Bardura. Un Gabrielli era stato sindaco dal 1844 preceduto da Annibale Teotino i cui eredi abitano ancora nello stesso disastrato palazzo(come tanti) all’inzio di via Boiano verso largo Galluppi. Ad illustrare l’istanza ci pensa l’assessore Tranfo essendo il sindaco impedito.Ognuno di voi signori consiglieri che si reca al sito di questa città,detto la villetta,e tutti noi ci andiamo, per volgere lo lo sguardo alla sua diritta e mira qull’incantevole orizzonteche si presenta, solleva per fermo l’animo del Cielo, per rendere grazia a Dio che l’ha fatta nascere con la natura sì maestra bella e maravigliosa ma se poi si guarda a sinistra, mortificato conviene che l’arte per quanto riguarda la parte estetica, lascia a desiderare. Infatti che si vede? Dei ruderi di un carcere da dieci anni demolito, i quali deturpano la vista non solo, ma fonte di reale pericolo per coloro che transitano quella località essendo la maggior parte sospesi,senza pedamento. Presto il Municipio sarebbe nell’obbligo di riparare tanta sconcezza con l’onere di centinaia di lire,come più volte ha deliberato. Ora siccome questi avanzi di fabbrica crolladoda loro verrebbero a danneggiare il palazzo del conte P. Gabrielli ,poiché la strapiomberebbero con essi l’angolo della facciata prospiciente a mezzogiorno, come di già si veggono delle lesioni non piccole,….- Dal cielo alla terra ,anzi, alle pietre il passo fu breve: Quanto richiesto fu ceduto gratis con una partita doppia: le pietre di risulta, le spese di demolizione ed il suolo eguagliavano in valore quanto il Municipio avrebbe dovuto spendere per provvedere alla rimozione dei –ruderi-. Nel secolo XX° si passò alla pratica del prezzo simbolico continuando a costipare la Città ed a concessioni che di fatto sono alienazioni. Il terremoto del 1783 devastò la Calabria Ultra: le conseguenze si ebbero non solo non solo all’ìntensità del sisma, ma anche per il sito dei centri abitati in pendii scoscesi, costruzioni con criteri e materiali non adatti e talmente accostate da cadere una sull’altra, precludendo le vie di scampo per mancanza di strade e piazze. Fu una catastrofe che si appalesò meglio col tempo. I soccorsi da Napoli furono lenti e simbolici di fronte all’apocalisse. Non c’erano strade e porti per muoversi. A Tropea i danni furono relativi in rapporto al numero di abitanti ed alla struttura del tessuto urbano. Per rendersi conto basta osservare la pianta della città al 1783: viuzze e vicoli senza larghi o piazze. Sarebbe potuta verificarsi una ecatombe. Ci furono venti morti ma solo come conseguenza indiretta. Ma i danni non mancarono, diversi edifici pericolanti ed una città a gravissimo rischio anche per la sua costituzione. Molti palazzi progettati a due o tre piani fuori terra, erano stati, prima del terremoto, sopraelevati –abusivamente – senza verifica di carico o stabilità. Quali di essi è facile distinguere con attenta osservazione. Il problema è che tanti manufatti e per la forma del loro appoggio, stretto e lungo, e perché prospicienti da tutti i lati su angusti vicoli, costituiscono oggi maggiormente una trappola pericolosa che può bloccare la via di salvezza in caso di pericolo. C’è una emergenza in via Aragona: un alto muro di edificio dirupato sta per crollare con grave danno a persone e cose. Per problemi di prestigio le famiglie patrizie non volevano uscire dalla casa degli antenati, mentre nei bassi tuguri si ammassavano migliaia di persone. I larghi rimasti erano stati occupati da corpi posticci o da piccole chiese divenute parrocchie. Nelle sole mura urbiche erano costipate oltre 5000 persone: il numero di abitanti della sola Tropea era stato sempre di un terzo rispetto al numero complessivo con i Casali. La scampata catastrofe umana costrinse a pensare al riparo con una verifica della stabilità ed un’opera di profilassi urbanistica. Non sarebbe stato quello l’ultimo terremoto. A Tropea arrivò l’ingegnere Ermenegildo Sintes e preparò un piano di intervento sulla struttura della città ai fini di un minimo di vivibilità e per metterla in sicurezza di fronte ad altre ipotesi di emergenze, fornendo una valida via di fuga: Portanova con tutta la piazza derivata dallo spiano del castello e dall’area antistante,sventramento sud –nord, demolizione degli edifici pericolanti già prima del terremoto, sbassamento di quelli troppo alti rispetto alla larghezza delle strade o che ingombravano inutilmente piazze di fatto prima usurpate. A parte il terremoto, in caso di incendio neanche oggi sarebbe possibile intervenire in tempi e modi efficaci. Tanti erano i problemi gravi e secolari sotto ogni aspetto ed il terremoto li aveva solo evidenziati, aggravandoli. Uno li riassume tutti in quel momento: come e dove dare la possibilità di riedificare le città da spostare assolutamente, come tecnicamente creare condizioni di sicurezza minime in quelle da conservare anche per valore artistico. Tropea era in particolare uno dei centri da salvaguardare. Il Sintes si rendeva conto che le demolizioni erano necessarie in Tropea e che metà degli abitanti doveva uscire verso sud –ovest. Ma tutti respingevano l’idea ed anche chi stava in condizioni - immonde nei tuguri con animali sotto il letto- riteneva per plagio di mentalità, disdicevole una casa extra moenia. Ma vedremo che la mentalità su tutto la fanno soltanto i soldi: quando a Tropea ci furono causarono una rapida mutazione di pensiero ed aspirazioni a lungo represse dalla situazione politica-economica interna. Nell’Ottocento si continuò ad operare sui suoli interni e su ciò che aveva offerto la Cassa Sacra di edifici da riattare. In tale direzione avvennero gli investimenti oltre che qualche risalita dal tugurio al piano ammezzato. Tropea era sempre sovraffollata come un quartiere spagnolo a Napoli o Palermo. Tali aspetti in generale per tutta la Calabria sono stati affrontati da studiosi con impegno civile da pionieri in archivi disastrati che, ordinati, andrebbero tutti in generale messi in rete: sarebbe questo una enorme spinta alla ricerca, è assurdo ormai per vedere una carta doversi recare lontano con difficoltà di ogni genere. A Tropea le carte delle famiglie sono disperse per l’Italia o qui chiuse in casse per le carie dei libri: si nega la visione quasi temendo la rivelazione di segreti pericolosi o vergognosi. Il finanziamento per le necessità del terremoto doveva avvenire tramite la Cassa Sacra. Il primo compito fu affidato in larga prevalenza a tecnici venuti da Napoli (per Tropea diretti dal Sintes). La Cassa Sacra doveva finanziare le opere attraverso la vendita dei beni di tutti gli ordini religiosi della Calabria Ultra delimitata a nord poco più avanti di capo Suvero alla foce del Neto. I Gesuiti erano stati espulsi già dieci anni prima da Tanucci sotto il pensiero di Giannone e per questo il Vescovo di Tropea tra Ottocento e Novecento lo definisce -famigerato-. Tutta l’emergenza era coordinata dal principe Pignatelli da Monteleone, Vicario Generale, con poteri assoluti. Primo grave errore. Come i commissari nominati di recente per il Belice, l’Irpinia ed il Friuli. Per abbreviare, in questi fogli almeno, si anticipò lo scandalo -o la normalità- di quanto avvenne nei terremoti del Belice e dell’Irpinia, per sentirci ripetere dal Friuli: = Qui le cose si sono fatte bene =. La ricognizione del territorio fu per i tecnici un compito difficile per mancanza di strade (di fronte alla carta stradale della Calabria anche dopo i terremoti del 1905-8 si rimane increduli), ma i progetti redatti con sollecitudine. Il censimento dei beni spettanti alla Cassa Sacra e la sua gestione di fatto finì, quasi sempre, nelle mani dei notabili locali tra infiniti liti e favoritismi. Tra infiniti raggiri truffaldini i beni finirono svenduti nelle mani di profittatori che risposero al disastro controllando le aste di fronte alla candela -accensa-, anche con la violenza. L’amministrazione della Cassa Sacra si profilava più gravosa degli incassi e fu sciolta. Le alterne ripercussioni della rivoluzione francese nel Regno di Napoli segnarono anche il destino alterno di quei beni, almeno quelli ecclesiastici. Il tema sarà ripreso dopo l’Unità d’Italia ed il concordato. La mancanza di fondi condizionò gli interventi sul territorio. Per comprendere il piano della = Pianta di riforma della città = di Tropea preparato ed in parte eseguito dal Sintes, per il fine accennato, basta esaminare la pianta topografica prima del 1783, quella preparata dallo stesso, e quella conseguente ai suoi interventi di fatto, prima di essere defenestrato dai nobili e dagli onorati di Tropea. La sua opera di demolizioni e risanamento aveva scatenato i loro appetiti sui beni immobili dei religiosi e sugli edifici dismessi del Comune, con annessa area, che di fatto con poca spesa passarono a loro. Essi pretendevano, in cambio di edifici da demolire e fatiscenti già prima ,i fondi ed i beni della Cassa sacra accusando il Sintes di sopravvalutarli rispetto a quello che essi perdevano. Con le demolizioni si creavano ampi spazi entro le mura che il Sintes riteneva indispensabili restassero a suolo pubblico, per la messa in sicurezza della città. Se poi si controllano i componenti del consiglio comunale ed i benefattori di turno ed i vari sindaci non c’è bisogno del decoder, ma si vede in chiaro il gioco. Tra le carte della Suprema Giunta di Corrispondenza (SGC) 11/171 di Napoli tra l’altro vi sono le istanze dei patrizi e degli onorati della città (1788), per liquidare Sintes. Era appunto considerato disdicevole, per nobili ed onorati, trasferire la loro dimora fuori dalle sacre mura ed i suoli dentro erano preziosi. Di fatto il Sintes fu in parte bloccato. Venendo in contrasto con Diego Pignatelli, fratello del Vicario Generale (Commissario Straordinario) ed altri, fu definito pazzo: titolo ancora generoso dato da sempre in Calabria a chi vede il male e cerca di riparare. Finita l’esperienza francese si andò alla conquista dei suoli liberi per avvenuta demolizione e degli edifici religiosi da -ridurre a casa particolare-. La caccia è ancora aperta anche negli spazi che erano stati previsti fuori delle mura. Ancora oggi con vari trucchi si continua a sopraelevare dentro il centro sfigurando e chi chiede dove vuol dire che è cieco o gli hanno tappato gli occhi. Chi ha paura del lupo non attraversi la foresta. Il Sintes è il primo progettista di una nuova -forma- della città ed il -Principe- lo neutralizza ed allontana perché non piega il capo ai suoi voleri che guardano al profitto e non all’uso del territorio per l’uomo che deve convivere con tutti gli eventi naturali e tragici prevedibili. La sua azione fu in gran parte vanificata: tutta l’area annessa al castello, a destra di Porta Nova fu chiusa e riedificata: anche se ad essa si pervenne non con –dubbio-ma anche eventualmente certo diritto formale, i luoghi non dovevano essere modificati. Ma chi parlò per tale circostanza di -dubbio diritto- non si comportò meglio con i suoli pubblici. A sinistra di Porta Nova verso il 1870 cominciò un’altra opera ancora assurda sempre condotta -per il bene del paese-. Coloro che per secoli si erano appropriati delle ripe pubbliche chiudendole, togliendo la ventilazione ad una città costipata, ora scoprono che le porte e le mura a sud tolgono la ventilazione alla città. Affermazione che sa di malafede, ignoranza, spregio della storia civile ed urbanistica e della cultura di Tropea alla quale fino a quel momento si erano richiamati. Ritengono, con animo angosciato, che la visione del ponte levatoio col suo bastione, della torre bassa aragonese, le stesse mura e la porte turbavano come mostri i sogni dei loro pargoli. Alla loro vista venivano i brividi -un patir d’antico e di retrivo- per ciò che era stato il vanto e l’attrazione che avevano costituito la potenza di Tropea e per la quale i loro antenati avevano scelto di stabilirvisi quasi da turisti pionieri. Con questa visione onirica si dovrebbero dovunque demolire gran parte dei monumenti e delle antiche mura superstiti in Italia. Per avere un’idea del danno architettonico,storico,culturale scientifico, d’immagine arrecato a Tropea da costoro, si guardino le antiche stampe che presentano tale visione in un sol colpo d’occhio dalla villetta del cannone a sud est del Castello. Anche se le mura ed il resto non servivano più per la difesa non era necessario abbattere. Si vanificò anche qui l’opera di bonifica del Sintes costipando con nuovi manufatti la città. Attraverso il riempimento operato a Porta Vaticana si avviò regina Margherita fino a Porta Nova che, colmando il terrapieno, fu collegata alla strada per Pizzo a sinistra e per Monteleone verso la collina. Al loro incrocio sorse la chiesa di S. Michele (Purgatorio), quando quella del Rosario divenne parrocchia. La conseguenza di tanto non è stata ben messa in rilievo. A Tropea -le nuove case adiacenti- a sud sorsero in numero limitato e senza ordine urbano e nell’area da lui disegnata per l’espansione solo negli ultimi cinquant’anni ci fu uno sviluppo avvilente. Tanto risulta dai pochi atti del consiglio comunale che si sono lasciati sopravvivere, la maggior parte scomparsi per incuria senza escludere il dolo. In particolare il Sintes aprì una breccia nelle mura a sud e abbassò in quel punto la cresta rocciosa, separando fino a palazzo Fazzari ed alla sede dei Domenicani i resti del castello dalla zona del rivellino a sinistra. Questi officiavano nella loro chiesa attualmente divisa tra S. Caterina e S. Giuseppe, confraternita). Nacque la -Porta nova-, ma non fino al livello di calpestio attuale raggiunto durante il periodo francese che diede il nome alla calata della marina. Tale area risulta libera in modo continuo fino alla villetta del Vescovato, occupata dalla Munizione che presidiava porta marina. Nella legenda si precisa: = Tropea con nuovi larghi e piazze, spiano di Castello ed apertura di nuova porta di città con nuove case adiacenti. D’ordine regio eseguito =. Si notino pure nella piantina tutte le altre aree libere create allora. Come e perché si è arrivati alla situazione attuale non si capisce, senza voler dire che senz’altro sia nata da illegittimità. Penetrando dal sud chiuso dalle mura ed isolato dal vallo profondo che andava da Porta Marina a Porta Vaticana, ad arco sul collegamento interno, bisognava sventrare in linea retta. Superando palazzo Fazzari, a destra fu demolito un manufatto tra lo stesso ed il Sedile ora felicemente ritornato alla comunità di TUTTI i cittadini. Ne riparleremo estesamente. Le attuali tre fontane sono un assemblaggio: i tritoni vengono dalla fontana monumento a Galluppi nello stesso largo sopra il sito di s. Demetrio demolito, mentre le conchiglie di granito raccoglievano l’acqua dei tre putti entro le tre nicchie al piano terra all’ingresso della Casa Comunale di piazza Ercole che aveva altre due fontane sui fianchi. Le tre conchiglie furono commissionate nel 1893 (Consiglio comunale del. n. 20). Il Sintes intendeva spianò tutta l’area del castello diroccato ed ormai inutile per farne una grande piazza senza demolire i resti del castello:non era un vandalo ed aveva risparmiato tutta la cinta muraria. Fuori dalle mura non si uscì fino a cinquant’anni fa. Verso il 1870, forse improbabilmente eccitati dalla breccia di Porta Pia, si riprese il prolungamento del corso con demolizioni fino all’attuale villetta di Eliano dove fu posta la ringhiera (che non è quella attuale) nel 1893. I dolori ed i contorcimenti di tale operazione si intravedono negli atti del consiglio comunale che operava, suo malgrado, in nome di V.E. Re d’Italia per Grazia di Dio e Volontà della Nazione. Suo malgrado: fino all’ultimo giorno l’Augusta Maestà di Ferdinando II ricevette elogi e lodi da parte dei nostri Affaticati. Nella delibera (1861) che nomina la delegazione da mandare a Napoli per rendere omaggio al nuovo re d’Italia si sente che è un atto dovuto, come quando fu accolto nella stessa Casa Comunale antica Giacchino Murat. Il cuore di alcuni nostri patrizi batte ancora oggi per i gigli borbonici quando li assale in delirio -dei dì che furono….il sovvenir!- Non ci fu un Cardinale Ruffo al quale i nostri baroni avevano mandato rinforzi ed aiuti, ma molti sperarono in un rientro borbonico date le esperienze secolari. Porta Pia li convinse che non era più possibile e metà dell’esercito nazionale inviato contro il -brigantaggio- li aveva assicurati che i loro privilegi erano intatti ed accresciuti dalla nuova vendita di beni comunali ed ecclesiastici sui quali si buttarono nobili e borghesi come ai tempi della Cassa Sacra. Tornando alle demolizioni si tagliò il monastero e la chiesa di S. Domenica fino all’attuale profilo est di palazzo Naso. Questo prospetta su piazza Ercole nella forma architettonica rifatta: furono congiunti i due tronconi con in mezzo il portone che immette in un irregolare pozzo luce con elementi di fabbrica originali. Arrivare all’affaccio fu un’operazione dirompente all’interno delle famiglie toccate: amministratori e proprietari erano spesso parenti e affini e ci furono strascichi da poco sopiti. Ognuno voleva allontanare da sé la linea di taglio a spese del palazzo di fronte. Ma il punto fisso erano gli spigoli di Porta Nova e la possibile oscillazione del pendolo era minima. Ci fu solo il completamento del corso: per il resto danni irreparabili. Da questa trappola non si voleva uscire e l’area nuova a sud ovest prospettata dal Sintes fu utilizzata lentamente sfigurandola. Nel corso dell’Ottocento ci fu a Tropea un fermo prolungato dell’attività edilizia ridotta al minimo per la stagnazione economica. La mancanza di denaro era determinata da vari fattori: gli investimenti della borghesia nei beni demaniali ed ecclesiastici, calo in verticale della rendita agraria. Questa ricevette un grave colpo dalla grave crisi della industria del vino che per le cause e conseguenze merita in seguito attenzione. A fine Ottocento il Comune di Tropea mise all’asta cinque lotti edificabili fuori Portanova lungo l’asse per la ferrovia che stava per arrivare. Si stabilì il prezzo di base nella speranza che -il calore dell’asta- a lume di candela, ne aumentasse il prezzo. La candela non scaldò il cuore dei compratori anche consumandosi tutta:l’asta andò deserta e si cominciò a vendere con trattativa privata e prezzo ridotto di un terzo. Tale stasi durò di fatto fino alla metà del novecento, mentre a Tropea migliaia di persone vivevano in condizioni spaventose che molti possono ricordare. Gli episodi edilizi degni di nota furono quello che si trova piazza su piazza Vittorio Veneto ed i palazzi Cesareo e Toraldo. Sul sito di quest’ultimo c’era il convento degli eremiti di S. Agostino Scalzi sotto il titolo di S.M. della Libertà nel 1616,(dai Ruffo ai quali è intitolato viale Stazione).A proposito di questo questo convento: -Privo di Padri come tutti gli altri,dopo il terremoto del 1783 fu poi dato ai Carmelitani,perché il proprio era in gran parte ruinato. restato infine soppresso,e ruinato,fu dato in censo a Don Antonio Toraldo,che, riducendolo a palazzo,occupò buona parte della strada-. Nel 1926 fu redatto un piano regolatore che interessava l’area a sud –ovest compresa tra via Libertà e viale Tondo fino all’incrocio con viale Stazione. Esso non determinò una ripresa edilizia per alleggerire la città. Oltre i motivi economici, dagli atti del podestà viene documentata l’opposizione irriducibile dei proprietari delle aree interessate ed i suoi appelli disperati al Governo perché intervenga a far uscire dal centro un popolo chiuso nell’angustia di una città sovraffollata e senza respiro. Fu di nuovo bloccato ogni intervento pubblico per avviare lo sviluppo fuori le mura nella Contura. In questi casi si misura la qualità del -Principe e dell’Architetto-. La res publica prima di tutto, la deontologia professionale prima di tutto: rara temporum felicitas! Fin oltre la metà del Novecento nel -Piano regolatore- che non ha regolato niente, pascolavano le pecore che facevano dal Poro un weekend di transumanza. Nel dopoguerra si verificò la situazione attuale. Edifici con ogni forma e dimensione senza decoro e funzionalità riversano sulle strade i servizi, i costi e disagi che tutti lamentiamo. Buona parte di tale area fu destinata ad edifici scolastici senza parcheggio, con sviluppo orizzontale ripetitivo che deprime la zona meritevole di migliore aspetto in rapporto alla sua posizione come diretto prolungamento del centro storico. Nel 1965 fu redatto un piano regolatore e portato all’esame del consiglio comunale. La vicenda di questo -piano- che, si precisa, non fu mai approvato, è la dimostrazione elementare per tutti di che cosa c’è in gioco quando si tratta di dare, in base a scelte determinate da molti fattori, una destinazione vincolante al territorio a misura d’uomo.Quanto riferito corrisponde esattamente alla verità dei fatti riscontrabile negli atti del Consiglio comunale e delle planimetrie allegate e tutti possono prenderne visione. I progettisti erano due e redassero un piano regolatore che sarebbe stato era il terzo dopo quello del 1926. La sua presentazione al consiglio fu accolta con plauso per la valenza delle previsioni di sviluppo civile ed ordinato della città, valide per un lungo periodo. Alcuni consiglieri si espressero con lodi sperticate. Brutto presagio. La maggioranza si riservò -qualche ritocco- da suggerire (leggi imporre) per l’approvazione in Consiglio comunale. I ritocchi operati dietro le quinte dal Principe avevano stravolto le previsioni ed al consiglio comunale, da esso controllato, arrivò un mostro di vergogna che si voleva approvare. I responsabili presenti in Consiglio stavano a testa bassa tentando una difesa d’ufficio, essi erano i manutengoli del Principe che stava fuori. La redazione originale era partita dall’idea di un piano che prevedeva la realizzazione di un lungomare dal Carmine al Campo per farne un panorama continuo. Poi cominciarono i contorcimenti che si trascinarono per cinque anni durante i quali tutto fu stravolto. Si faceva finta di portare avanti il PRG e si introducevano soluzioni provvisorie che lo vanificavano. Smentivano oggi quello che avevano approvato e difeso ieri. Lasciavano deliberatamente ferma la procedura del piano per continuamente adattarlo ai desideri degli amici elettori o proprietari dei suoli o dei committenti che operavano sempre -per il bene del paese-. Si discusse per cinque anni in consiglio comunale durante le alterne maggioranze e forse non mancò la malafede di arrivare al fallimento del piano, proprio per avere sempre le mani libere. Eravamo all’Opera: si intonavano le cantate alla -Casta diva Tropea-, come nel 1892, che pur meritava uno sviluppo che salvaguardasse per tutti le naturali prerogative di bellezza. Per una storia urbanistica di Tropea si prepari, in modo ordinato, una esposizione di tutti gli atti elaborati dal dopoguerra ad oggi e si verifichi come hanno contribuito al disastro proprio coloro che in consiglio facevano le cantate. Alla fine fu mandato al Ministero competente un mostro di PRG, rifiutato da uno dei progettisti che in esso non volle riconoscersi. Dopo il Sintes egli fu il secondo che di fronte al Principe difese col rifiuto di avallo la propria dignità professionale di Architetto. Aspettiamo il Terzo se sarà necessario. Il PRG così stravolto fu bocciato dal Ministero dei LLPP. Poi seguì la legge ponte e più tardi un piano di fabbricazione che fu un altro disastro. La giurisprudenza locale decretò che esso era soltanto indicativo e non vincolante ai fini delle sua operatività. Allora le aree degli amici e della corte del Principe divennero tutte edificabili anche ai fini elettorali, ignorando strade, piazze, pargheggi, scuole, e tutto ciò di cui oggi sentiamo la mancanza. Si controllino le tavole di quel piano con la loro destinazione ed il loro destino effettivo. La loro edificabilità era aleatoria e legata al possesso e non ad una norma vincolante generale. Si esasperarono i cittadini non legati al Principe spingendoli spesso all’abusivismo per necessità. Quando nelle cronache italiane sentiamo di atti inconsulti consumati dentro la sacre mura della Curia da cittadini esasperati, la condanna non cambia la situazione, se non si ha intelligenza di che cosa sta a monte. Il ricorso per via giudiziaria in queste cose lascia il - tempo- che trova. Si sovrapponga il piano di fabbricazione del 1976 alla situazione di fatto ai primi del 1990 e tutto diventa chiaro. L’amministrazione di Tropea si era specializzata nella costruzione di autodromi per la formula 1: da viale stazione per arrivare al Carmine in meno di cinquecento metri ci sono sette curve pericolose, niente impediva poco tempo fa una uscita agevole in quella direzione in più di un punto. Gli autori di tali scempi hanno ancora il coraggio di esibirsi candidati -per il bene del paese-. Da dieci anni a questa parte segue un periodo di quasi stasi almeno nelle aree non governate da una norma certa. Ma questo può provocare un’altra esplosione incontrollata . I tentativi di redigere un piano regolatore fallirono tutti perhè la situazione di fatto vanificava ogni ipotesi. Scaduti i termini previsti dalla legge il nostro glorioso Comune, sempre geloso della sua indipendenza, vide affidare il compito ad un commissario regionale in una situazione amministrativa di fallimento che ognuno scarica sull’altro. Dopo molti travagli nella sala di disegno e con parto cesareo nel 1998 venne fuori il nuovo Piano Regolatore Generale del Comune di Tropea. Non restano ormai che 100.000 mq. di superficie da gestire. Dal loro uso o abuso dipende il destino di Tropea. Basta guardare il territorio dall’alto e ricordarsi che la esile striscia dall’appicco al tracciato della nuova strada all’inizio della collina, dovrà reggere tutto il traffico di una zona costiera da Pizzo a Nicotera sempre più in aumento. Tale striscia è in gran parte satura di edifici a scacchiera per cui è assolutamente necessario salvaguardare tutti i possibili nuovi tracciati paralleli alla strada ricordata ed alla provinciale Tropea –Spilinga. Per entrambe è urgente predisporre una distanza adeguata alle eventuali nuove costruzioni. E’ meglio cercare sviluppo in una media altezza degli edifici che nella limitazione della loro distanza: questa si traduce in angustia degli spazi di servizio: strade, verde, piazze e parcheggi. Bisogna produrre norme precise per cui ogni insediamento abbia autonomia interna a tali esigenze. La prima strada deve restare a scorrimento veloce senza essere menomata da attività che la trasformino in parcheggio. La seconda deve sopportare l’enorme traffico turistico locale per agevolare la prima ed ha bisogno delle stesse salvaguardie. Allo stato dei fatti non è impossibile raddoppiarla per evitare che diventi un vicolo come Viale Tondo. L’esperienza orrenda della antica via Popilia nell’attrversare Pizzo e Vibo Valentia deve indurre Tropea a non cadere nello stesso errore urbanistico. Dal riguardo dovuto a queste due strade deriva la necessità di realizzare le altre di piano ad entrambe parallele, salvo lievi modifiche per la situazione dei luoghi che cambiavano di fatto mentre lo stesso PRG veniva con travaglio redatto. Bisogna evitare che per muoversi dentro il futuro sviluppo urbano si impegnino le strade di scorrimento. Chi dovrà decidere tenga almeno presente tale aspetto. Una strada panoramica sull’appicco, esclusivamente pedonale, deve offrire la fruizione a tutta la zona intorno a Tropea. Essa deve cominciare dalla provinciale per Ricadi alla sinistra del torrente Vicce lungo tutto il bordo fino a Riaci, senza soluzione di continuità. Da Riaci seguendo il lato sinistro dello stesso torrente verso monte e passando sotto il ponte ferroviario, alto e largo, può innestarsi alla 522 chiudendo un territorio con alternative di percorso. I terreni prospicienti il mare debbono avere destinazione turistica e tipologia adeguata alla strada di bordo. Si possono introdurre le procedure per liberare il territorio dal vincolo della lottizzazione imposta dal comparto. Entro ognuno di essi c’è una proprietà talmente parcellizzata e compromessa che difficilmente si arriverà alla conclusione. Non tenerne conto è demagogia giuridica. L’ intervento del Comune per sostituirsi ai privati inadempienti è auspicabile solo con sicurezza di tempi veloci che per vari motivi non si intravedono. Il cittadino si lamenta per mancanza di infrastrutture ma queste le auspica sulla proprietà altrui per valorizzare la propria. Quanto auspicato ferme sempre restando le aree da cedere al Comune evitando al massimo la monetizzazione. Le volumetrie esistenti non possono gravare sul terreno di chi è estraneo di diritto e di fatto alla loro consistenza comunque realizzata. Da via del Soccorso alla Grazia è ancora possibile migliorare la strada che porta a Parghelia ed alla 522. E’ un’opera essenziale per alleggerire il raccordo sopra la ferrovia. La presenza di una ferrovia a tal fine è un ulteriore problema per l’alleggerimento di strade alternative. Può darsi che che quanto auspicato sia definito utopia, allora è inutile redigere previsioni urbanistiche se ad esse non si crede o se si cede alle pressioni varie che le stravolgono . Qui il problema consiste, partendo purtroppo dal consolidato, di definire una Tropea che riacquisti caratteristiche di POSSANZA per un lungo periodo. Essa può essere ripristinata soltanto usando a tal fine l’antico centro ed il territorio ancora non compromesso. Quei fattori naturali che segnarono il prestigio e l’attrazione di Tropea per oltre mille anni, oggi, ai fini di un’attività turistica prolungata, non hanno più valore se non vengono inseriti in un contesto adeguato che possa e sappia rifuggire dalla speculazione immediata (mordi e fuggi). La rocca consolidata in fortezza, il porto esclusivo quando mancavano completamente le strade, il Vescovato con enormi rendite qui impiegate, la presenza di tutti gli ordini religiosi, una produzione agricola variegata che soddisfava la città, la piccola industria e l’esportazione, oltre cinquanta mulini dalla Ruffa al Potame, i privilegi demaniali e commerciali avevano fatto di Tropea quasi una città-stato indipendente. Di questo se ne accorsero i cronisti tropeani (Crescenti-Sergio-Campesi) tra Seicento e Settecento, pur non analizzando la vita dei ceti poveri dentro le mura ed i Casali di Tropea. Solo che essi attribuirono in modo enfatico la POSSANZA ai nobili di Tropea sottovalutando che alla base di tutto c’era l’opera della natura efficacemente assecondata e valida fino a quando non cambiarono le condizioni politiche generali e la natura dei luoghi. Tante delibere negli atti del nostro Comune lungo l’Ottocento ed il Novecento, hanno per oggetto la banda musicale che si esibiva in piazza Ercole dove esisteva un palco fisso che si vede nelle foto dell’epoca. Un’altra rotonda simile era al lato sud di viale Tondo ridotto a vicolo. Essa era -a rota o tundu- ed a quella strada lasciò il nome .Ma tante delibere sono dedicate all’orologio della città, oggetto di culto e di devota cura. Quando non funzionava bisognava far venire da Napoli o da Messina il –maestro –per ripararlo. Non poteva restare -ozioso- o segnare e battere le ore in anticipo o ritardo. Lo reclamavano i -Trabagliatori- (non gli Alloborantes) per regolare la giornata del loro lavoro. Tanti a Tropea con le sue ore ed i suoi quarti regolarono i tempi e ritmi della loro vita. non sembri esagerato. Molti analfabeti non sapevano leggere l’orario ma riconoscevano l’ora dal tocco delle campane. Non potevano permettersi un orologio. Il maestro partendo da Reggio o Messina si fermava per manutenzione in ogni centro che avesse l’orologio di piazza. Si spostava con tutto l’occorrente (officina e ricambi) con la soma o carrozza e poi con la ferrovia. Poteva venire anche da Napoli ed in questo caso arrivava a Messina col vapore e risaliva come già detto. Alla fine, stanchi di riparazioni, fu fatta la torre campanaria attuale, quando era già sede della cultura tropeana, e si decise di acquistarlo nuovo, l’orologio. Eravano nel 1894. Si pubblicò la gara di appalto ed alla fine con motivazioni discutibili la vinse la ditta De Vita di Napoli e l’opera costò 2000 lire. Il De Vita era oriundo tropeano: l’amore per la sua patria di origine lo doveva indurre a -presentare un lavoro con cura e non smentì le attese. Il contratto in particolare prevedeva che il tempo venisse scandito in ore e quarti proprio per la sua funzione di servizio pubblico. Esiodo l’avrebbe inserito come elemento necessario per -Le opere e i giorni-. Si precisa anche il tono che dovevano avere le campane sotto il colpo dei magli per essere udito in tutta la città ed altri particolari: una delle campane pesa da 50 chili è fornita dalla ditta e scandisce le ore, l’altra più piccola scandisce i quarti ed apparteneva già al Comune. Forse era del precedente orologio o recuperata da qualche chiesa demolita o dimessa dal culto. L’organo-strumento di tale orologio è ancora sotto il campanile anche se di recente spostato. Dopo di che per ovviare alla ordinaria manutenzione con apposita delibera si diede l’incarico al sig. Gregorio Del Duce, altri seguirono fino a Caraia. Ora l’orologio è di nuovo ozioso da tempo e non si intravede soluzione.Segna sempre le sette e cinquantacingue: non sappiamo se si fermò di mattina o di sera. In altri tempi il suo fermo prolungato avrebbe sfasato la vita dei cittadini. Nella stessa condizione si trova a Tropea da tempo l’attività edilizia: si sviluppa malamente oppure è oziosa. Il Principe ha chiamato (speriamo per correggerla ed avviarla) un consiliarius aedilicius perché la metta all’altezza dei tempi e dell’urgenza. Ognuno è normale che abbia le proprie idee, anormalo sarebbe non poterle esprimere. A mio avviso, se il consiliarius aedilicius, come maestro orologiaio dell’edilizia tropeana, se non si muove con urgenza per ovviare al problema con gli obiettivi indicati, finisce col rendere l’orologio -ozioso- oppure gli fa segnare le ore sbagliate e bisogna allora comprare l’orologio nuovo e nominare un nuovo curatore. Detto chiaramente se deve continuare il disastro o l’ozio, bisogna cambiare Principe ed Architetto. Il buongiorno si vede dal mattino (in Italia), non lodare mai il giorno avanti la sera (in Germania). Preferisco in questo caso la Germania. Ma alla fine di una ragionevole giornata, non per lungo tempo. Poi si vedrà cosa pensano i cittadini cui spetta sempre l’ultima parola. Per avviare un nuovo lungo periodo di POSSANZA di Tropea bisogna aggiornarsi con la mente e con i fatti in tutto, tutto conservando nello stesso tempo. Primo: il centro storico non è fruibile se per raggiungere le spiagge bisogna usare l’auto. Esso deve diventare tutto un’attività ricettiva anche parcellizzata e specializzata nell’offerta non di un mese ma di lungo periodo per diluire le presenze. Se queste si concentrano in estate mettono in difficoltà tutti i servizi pubblici e privati. Due ascensori, per la Marina del porto e dell’Isola, potrebbero consentire a migliaia di persone di raggiungere il mare senza l’uso della macchina. Naturalmente bisogna entrare nell’ordine di idee che a tal fine la città è integrata con la spiaggia che si può raggiungere considerando a tutti effetti la stessa città un suo stabilimento balneare. Ciò consente ad una vasta utenza di arrivare a Tropea senza auto nel centro storico che potrebbe ravvivarsi per tutto l’anno ed essere recuperato alleggerendo la richiesta sul rimanente esiguo territorio che è necessario non per seconde case, ma impianti ricettivi nuovi come concezione uso. Qui si deve costituire un altro elemento di rilancio qualitativo. Le nuove attività ricettive devono all’interno essere autonome in rapporto alla loro capacità senza pesare sui servizi generali con lagnanze continue per problemi dovuti alla miopia iniziale. Dovunque possibile aprire un pubblico accesso al mare senza riverenza per alcuno. Su tutta la costa -degli dei- i semidei hanno chiuso o ridotto al minimo non utilizzabile gli accessi sempre praticati ed ha difficoltà di accesso al mare proprio il cittadino qui residente, per se o per gli ospiti della sua attività. Solo così, con la garanzia diffusa di fruizione delle spiagge, possono sorgere iniziative nel retroterra che non deturpano la costa. Questa non può essere chiusa da una teoria ininterrotta di cemento che il mare certamente sta inghiottendo. Questo aspetto continua ad essere sottovalutato dai Comuni, committenti e progettisti non so se per ignoranza scientifica o malafede, per lucrare sui contributi prima e dopo dei danni. E’ la realtà: è inutile fare stupida ironia! La costituzione in luogo idoneo di una biblioteca che partendo da tutto quello che si può reperire su Tropea, sulla Calabria ed il Mediterraneo antico, medievale e moderno in rapporto ad ogni aspetto, potrebbe essere un centro autonomo di interesse non solo per il turismo culturale, ma anche per tantissimi studenti della zona dai quali certamente si spera che emergano figure motivate e preparate ad una gestione del territorio e di tutte le sue risorse rivolte verso una qualità che corregga quanto avvenuto. CONTINUA.......
Berotti: Veduta di una parte della Città di Tropea, 1795
Tropea: territorio e società, passato e prospettive
LA POSSANZA DI TROPEA IL PRINCIPE E L’ARCHITETTO
di Antonio De Luca
Quanto segue fa parte degli appunti già compilati nel tentativo di delineare una visione organica della vita civile di Tropea nell’ultimo millennio fino ai giorni nostri. Tanto senza cedere alla retorica che inquina spesso la storiografia del Regno di Napoli ed in particolare la storia locale che, da celebrativa e mistificatrice, solo da poco tempo ha cominciato a guardare nella realtà vera della vita di tutto il popolo di una comunità e non soltanto della classe comunque dominante. Nelle stesse opere da questa prodotte non mancano cenni di vita, ma tutto viene ricordato in funzione della sua grandezza. Atti disperati di folle ridotte alla fame vengono definiti – dissenzioni - e tradimento da un sistema di potere incardinatosi in privilegi feudali, baronali ed ecclesiastici. Non si può rispondere - quelli erano i tempi -. E’ pericoloso giustificare tutto a posteriori come se non avesse trovato oppositori. Le istituzioni di quei tempi erano quelle attuali e si richiamano agli stessi principi per giustificare la loro presenza ed azione in ogni tempo. Quando si parla dell’uso del territorio in rapporto allo sviluppo di una città sempre bisogna tener presente il committente e la fonte delle sue risorse finanziarie: seguendo tale percorso si risale alla formazione delle stesse risorse investite ed al contenuto dei valori praticati e non soltanto di quelli declamati. Laddove, se non si vuole abbagliare con la semplice fenomenologia, è necessario sforzarsi di comprendere ogni accaduto con tutte le possibili relazioni che l’hanno reso possibile o conseguente. Questo a prescindere dal giudizio, inevitabile, che poi ognuno in relazione al proprio io dà di quei fatti e conseguenze che in ogni caso si prolungano fino ai tempi presenti, come vedremo nella formazione del tessuto urbano di Tropea. Un fiume arrivando alla foce è la sommatoria di tutto quello che si è riversato nel suo bacino, sotto forma di acqua, non solo dal cielo, ma anche sotto altra forma dalla terra sottoposta all’uso che l’uomo ha fatto e fa del territorio per ragioni determinate da molteplici fattori tra di loro solo artificialmente separabili. Non esiste la - storia - di una qualsiasi attività umana separata da tutte le altre, anche se poi per comodità i vari elementi assumono narrazione distinta. Tenendo ferma tale premessa, in questo momento interessa che, sotto l’urgenza degli avvenimenti e delle scelte operative da fare, si abbia una visione dell’uso che del territorio di Tropea e delle coste della Calabria è stato fatto fino ad oggi, determinandone l’attuale stato. Il riferimento a fatti che soltanto in apparenza sono estranei al territorio rientra nella logica di comprensione globale appena accennata. Tanto perché la città non è opera naturale, ma fattura dell’uomo. Questo ha sempre scelto i vari siti costretto o allettato da vari fattori in rapporto alle sue necessità ed ai mezzi per soddisfarli. Tutte funzioni variabili con l’evolversi della tecnica applicata ad ogni aspetto della vita. Città nate per la presenza dell’acqua sono scomparse con essa, nate in luogo impervio abbandonate o quasi quando tale requisito divenne inutile. Città in posizione amena furono fortificate e mantengono le antiche mura solo come testimonianza di un periodo della loro storia al pari di un un antico telaio per la seta. La nostra città rientra tra queste, non ebbe però più fortuna di un telaio antico. Il territorio di Tropea, dopo la circoscrizione dei primi dell’Ottocento, ha la forma di un rettangolo con i lati minori verso est e sud-ovest e quelli maggiori verso il nord-maestrale ed il sud-scirocco. Il torrente La Grazia segna da un lato il confine con Parghelia, ed il torrente Riaci o Vitranu quello con Ricadi. A sud-est è delimitato dal comune di Drapia a quote altimetriche diverse, il mare lo bagna a nord in senso lato. In tutto meno di 400.000 mq. Uno dei comuni, per superficie, più piccoli d’Italia. 100.000 mq. circa sono occupati dal - centro storico - che con l’aiuto della retorica sta diventando vecchio (edifici fatiscenti e pericolanti) o moderno (edifici con interventi in cemento armato anche a vista, tetti con copertura di eternit di quello cancerogeno (già all’entrata di Portanova in alto a sinistra), finestre in alluminio anodizzato, gronde e pluviali di plastica multicolore. Tanto operato non per necessità o da cittadini -sprovveduti-, ma da coloro che per diversi motivi si richiamano alla Tropea antica e dei loro avi. Negli incontri celebrativi, come le tante saghe paesane che si svolgono d’estate, esaltano quei tempi. Quei tempi non li esalto, ma la conservazione ed il restauro (non lo sfiguramento che da anni prosegue) del centro storico, il suo risanamento, ci deve trovare tutti d’accordo. Anche la ricostruzione di qualche opera significativa (il ponte levatoio di Porta Vaticana) che a suo tempo sarebbe potuta rimanere, può non essere idea strana: sarebbe il collegamento (ideale) tra quello che contengono le mura urbiche e l’uscita degli abitanti verso l’esterno per le mutate condizioni generali in tempi recenti. Dal dopoguerra ad oggi altri 200.000 mq. sono stati urbanizzati: non è un male, il male consiste nel modo selvaggio e distorto della espansione di Tropea verso sud-ovest soprattutto, senza pianificazione alcuna. Le conseguenze nella vivibilità sono davanti a tutti e con danno di tutti. Il valore, anche economico, di tali manufatti in rapporto ai vari parametri ritenuti da tutti essenziali, è la metà di quello che uno sviluppo urbanistico,non a caso e senza regole, ma pianificato, gli avrebbe dato anche con volumetria maggiore.Aver permesso tale disastro significa anche aver procurato danno agli interessati ed alla città per sempre. Rimangono al momento circa 100.000 mq. utili che aspettano la loro fine: dal loro uso o abuso dipende il destino di Tropea in senso sano e duraturo: rischiano il disastro e se così sarà il quadro della gloriosa Tropea potrà essere esposto al museo delle Inciviltà. Quale destino avrà il territorio? In forma più che sintetica si tenta qui di delineare l’uso del territorio di Tropea, nel passato recente ed in quello che si chiama storico. Indicare il ruolo che ciascuno ha svolto, come risulta dagli atti, dovrebbe essere prassi normale in ogni cosa. Tanto perché i privati e le pubbliche autorità riflettano sul fatto che l’uso del territorio, con tutte le implicazioni, misura il grado di civiltà con la quale ogni comunità è di fatto gestita o si lascia gestire nell’illusione di facili profitti a spese dell’ambiente e della natura, del suolo e del sottosuolo. Chiamo Principe l’Istituzione, comunque costituita, che nei secoli con il suo potere determina con atti d’imperio o di discrezione lo sviluppo, in questo caso, della organizzazione del territorio di una determinata area. L’Architetto è colui che in una visione unitaria dello sviluppo di un comprensorio grande o piccolo, è in ogni senso capace di prefigurarlo per la natura dell’uomo e delle sue esigenze di vita sana e funzionale alle sue attività, per quanto lo consentono le previsioni anche di lunga durata. Dall’incontro di questi due momenti nasce la previsione ottimale della costruzione della città presente, che valga anche per il futuro in eredità alle generazioni, senza ipoteche per la sua inefficienza funzionale a breve termine. Come pure le attuali tecnologie consentono di inserire nelle strutture antiche innesti funzionali che le riportano a nuova vita senza intaccare la loro tipologia architettonica originale. La Rocca di Perugia è un esempio che a Tropea può essere ripreso sotto altra forma. Spesso il Principe usa il suo potere sul territorio per consolidare la sua posizione e l’Architetto lo compiace per mancanza di dignità, cedendo di fatto la progettazione all’altro che abusa e lo contenta delle briciole dei proventi dell’uso abusato del territorio. In caso di divergenze è sempre il secondo che soccombe adeguandosi per mancanza di dignità e di deontologia professionale. Qualche volta l’Architetto difende tali sue indispensabili qualità, per meritare quel nome, con la rinuncia all’incarico(raramente accade). Ma sono pronti tanti altri a sostituirlo. Nulla di nuovo, solo che la scarsa conoscenza di questa dinamica e la sua arbitrarietà ci ritorna in mente quando siamo chiusi nel traffico di strade nuove o non troviamo parcheggio accanto a nuovi edifici che accolgono abitazioni, uffici e negozi. Colpa del Principe o dell’Architetto? Perché tutti possiamo comprendere: i progettisti dichiarano, incolpandosi tra di loro, che se non fanno così non lavorano: c’è sempre l’altro disposto a farlo. A Tropea in passato e di recente è successo di tutto: perdente è stato sempre l’Architetto che non si è piegato ed il territorio funestato con l’uomo che in esso agisce. Ma questo non vuol dire fare un processo astorico a qualcuno. Non c’è nulla di blasfemo affermare che in fondo il motivo empirico del guadagno muove la storia dell’uomo assai più del motivo ideale civile o religioso pubblicamente professato: anzi è di fatto il solo motore dell’universo terrestre. L’economia del turismo comunque inteso, (balneare, gastronomico, agricolo, culturale, religioso, ambientale, storico, convegnistico, ecc., con varie specializzazioni) è la più grande molla dell’economia mondiale. Il suo indotto fa prosperare tante iniziative collaterali che alla fine animano l’economia più della voce principale. Per un momento almeno affrontiamo il problema sotto tale ottica -volgare-. Dato che trattarlo diversamente ci si attira l’epiteto di eco-terrorista o affondatore dell’economia della città. Ed allora ci accorgiamo che in Calabria per secoli SOLA Tropea si trovò nelle condizioni naturali e circostanze storiche generali di avere tutti quei requisiti che per lungo tempo la fecero appetibile,invidiata dagli altri centri e soprattutto- vagheggiata- dal potere centrale. La speranza delle presenti note è: I°) quella di tracciare in via breve il percorso attraverso il quale maturarono le circostanze che le condizioni naturali propiziarono, al tempo in cui erano determinanti per l’insediamento e lo sviluppo di una città, mentre oggi non hanno importanza; II°) provare a capire come in breve tempo quei requisiti sono stati in gran parte dispersi e con essi la prospettiva di una fortuna assicurata per generazioni; III°) esaminare quali scelte vanno fatte per una inversione di rotta a 180° prima che sia troppo tardi. Tanto affinché Tropea recuperi nuovi requisiti che, come attrazione, la facciano vagheggiare come una volta anche se per motivi diversi. Nessuno oggi cercherebbe questa città perchè inespugnabile, senza malaria o perché unico porto su duemila chilometri di costa, o per prendere la nave per Messina arrivando in carrozza dal nord. Sui requisiti da salvaguardare siamo tutti d’accordo, sulle scelte la discussione è aperta, ma poche persone la vogliono chiudere imbrattando per e con rapidi e veloci guadagni il centro storico e ciò che rimane fuori di esso. Il centro storico è edificato su un pianoro calcareo alto circa 50 m. sul mare e con leggero pendio da sud a nord, mentre da est ad ovest (dalla scala del Vescovado alla villetta del cannone) è pianeggiante. Sono appunto 100.000 mq.circa, ma furono tutti utili per interventi edilizi. Inutile e lezioso è porsi il problema qui dell’origine di Tropea. Tale ricerca -De Origine- fu enfatizzata fino al ridicolo ai primi del Settecento quando venne la moda di compilazioni (Sergio, Crescenti, Campesi) espressione di quelle famiglie dominanti che nell’anno Mille erano quasi tutte lontane da Tropea appunto mille miglia. Un pianoro così dovette avere insediamenti remoti, come altri luoghi favorevoli per i tempi in rapporto a tutte le circostanze. Come in tutta la Calabria, prima dell’arrivo dei Romani che la ridussero in schiavitù, il bosco lo ricopriva al pari di certi promontori o piccole isole che hanno in parte conservato nel Mediterraneo tale requisito. La prima organizzazione della fede cristiana è nata a Tropea (massa tropeana) intorno ad una comunità che aveva uno dei suoi riferimenti nel sito di S. Maria del Bosco con relativo cimitero accertato. Questo nome si dava alle chiese dentro le foreste e quella di Serra San Bruno è rimasta la più nota in Calabria. Il sito di tale chiesa ora è incorporato da palazzo Toraldo di Portanova lato sud-ovest e su di esso fu edificata la Torre Longa, nome diffuso in Calabria per opere di tal genere. Essa fu edificata sulle sepolture cristiane, forse allora sconosciute, e per tale mancanza di rispetto religioso ed umano,la sua costruzione fu attribuita ai Saraceni profanatori,anche se mancavano dalla Calabria da cinquecento anni. Il rapporto tra terra e mare intorno al perimetro del centro è al momento (si noti bene) invertito rispetto agli inizi dell’era cristiana. Allora il mare era con notevole profondità, utile per il naviglio dell’epoca, a contatto con la base della roccia del pianoro. La stessa roccia al contatto delle onde si ingrottava o diventava propaggine della rupe che per gli agenti esogeni si erodeva di circa un centimetro l’anno (non sono pochi) in modo irregolare a seconda della sua specifica natura anche a breve distanza. I palazzi sulla ripa furono costruiti a ragionevole distanza dal ciglio rupestre che si presentava bombato per l’appoggio incavato dalle onde. L’erosione li ha- portati - sulla perpendicolare e sta nascendo un nuovo problema. Per rendersi conto basta osservare torre Balì a santa Domenica Ricadi, lato mare. La tecnica dell’ingrottamento e successivo crollo in questi decenni ha dato una prova eclatante al Passo del Cavaliere. Sotto la ripa orientale tali segni sono visibili sulla perpendicolare tra i palazzi Galli e Fazzari. Qui il mare raggiungeva la foce del Torrente Lumia a poche decine di metri dal primo gradone su cui c’è il Carmine. Una esile striscia di terra correva fino alla foci separate del Burmaria e della Grazia fino al Settecento inoltrato. Il torrente Burmaria ebbe importanza strategica per l’economia di Tropea per mille anni fino a metà Novecento, più della Grazia nel quale oggi confluisce a sinistra poco a monte del nuovo porto. Lo scoglio S. Leonardo era circondato dal mare ed il canale navigabile tra lo stesso e la rupe a destra consentiva il transito al naviglio per raggiungere i magazzini e l’arsenale sotto il Carmine a destra del Lumia. Tra la riva ed il S. Leonardo c’erano diversi piccoli scogli che servivano da ancoraggio, i Pali e lo Stringhilio: al momento sono sotto l’arena. A seconda del vento le navi a vela potevano entrare ed uscire da tale porto naturale da ponente o levante col vantaggio notevole di tale operazione per sicurezza ed economia. Gli storici e geografi antichi parlano dei porti del basso Tirreno ma ad un certo momento per cause che saranno accennate, tra Napoli e Messina, rimase il nostro l’unico porto naturale agibile con valenza militare e commerciale. Il porto aperto di Vibona - Santa Venere che, traslato, nel tempo soppiantò quello di Tropea, non aveva la stessa sicurezza in rapporto ai venti ed alla possibilità di essere difeso dall’alto da posizioni inattaccabili sulle ripe. Presso Vibona, i luoghi erano assai diversi e poi subirono in tempi rapidi l’avanzamento della linea di costa per l’esagerato riporto dei fiumi in tutta la Calabria. Fu determinato dal disboscamento dei monti dove gli abitanti si erano rifugiati per la pirateria e la malaria in una Calabria indifesa dall’esterno ed oltraggiata all’interno. Quel porto richiese opere dispendiose per la necessaria sua difesa: il castello di Bivona, ora in miserabile abbandono, tre torri in rapida successione (S.Pietro, Mezza Praia, S.Venere). La conformazione del litorale tirrenico, roccia a picco o pianura alluvionale recente, rendeva la costruzione di un porto impresa titanica per la tecnica e l’economia dell’epoca. Le caratteristiche ricordate avevano indotto nel 1818 il governo borbonico a scegliere Tropea per la costruzione di un porto nel basso Tirreno tra Napoli e la fossa di san Giovanni davanti a Reggio. Ancora in quell’anno il teologo Paladini e Pasquale Galluppi prepararono una memoria ciascuno per difendere, di fronte al Papa ed al Re, la permanenza del Vescovo a Tropea che per la prima volta si presentava pericolante. Per quanto tali memorie siano state manipolate, esse chiariscono che gli autori avevano ben inteso quali requisiti avevano nei secoli determinato la POSSANZA di Tropea. -La follia dei novatori- voleva privare Tropea del Vescovato con un atto-indecente dal momento che esso costituiva gran parte del suo lustro ed il Re Ferdinando Ie ha accordato la costruzione di un porto per accrescere maggiormente il suo commercio che, attualmente si estende con molte piazze d’Europa ed anche con Roma-. Questo significa che all’epoca era giunto a maturazione l’insabbiamento progressivo del porto accennato dal Sergio ai primi del Settecento. Per quella volta il Vescovato fu salvato. Per il porto andò diversamente perché con il tempo la tecnica di navigazione e le mutate condizioni politiche, resero Tropea non più -vagheggiata- dai sovrani. Nel 1843 ci fu l’ipotesi di un porto che congiungesse a tenaglia i due scogli e del quale esiste il disegno. Ma i tempi erano cambiati: il profilarsi del vapore richiedeva ampi spazi di mare al sicuro, con problemi logistici di spazio per rifornimenti e magazzini che Tropea non poteva offrire. Ancora nel 1859 riferendosi alla marineria di Tropea si scriveva: volle natura favorire quella località per diventare una città commerciale di prim’ordine, atteso che naturalmente si veggono buttate le fondamenta di un porto, di cui si manca nel Tirreno. Riguardato sotto l’aspetto politico, commerciale ed umanitario, quel sito dovrebbe essere preso in seria considerazione; ed il Real Ministro della guerra e marina e la Provincia dovrebbero mettersi di accordo sui mezzi di attuare opera cotanto utile, in vista specialmente della tenuissima spesa che vi abbisognerebbe. Il Direttore Generale de’ ponti e strade Afan de Rivera, parlando su’ i mezzi di restituire il valor proprio ai doni che natura ha largamente conceduti al Regno delle due Sicilie, dimostra all’evidenza che non vi è altro luogo più acconcio di quello di cui teniam parola per la costruzione di un utilissimo porto. Le ultime illusioni di recuperare POSSANZA. Con -l’unità d’Italia- gli sforzi furono concentrati sul futuro porto di Vibo Marina che divenne scalo del –postale – tra Napoli e Messina. Il consiglio comunale di Tropea -faceva voti- perché tale porto (Vibo Marina) fosse completato e per sé invocava almeno un faro di segnalazione da installare su uno degli scogli. Un altro elemento della POSSANZA -il porto, era ormai sfuggito e da allora disertato e la memoria riferisce di troppi incidenti gravi alle navi nel moncone superstite del porto stesso. All’inzio del Novecento l’acqua era arretrata alla punta sud del san Leonardo ed il canale tra lo stesso e la roccia da tempo arenato.- Ormai era pericoloso . Lato nord il mare batteva con la roccia fino agli inizi del Settecento e l’isola col Santuario fu veramente tale con l’acqua che raggiungeva l’attuale strada sotto il Corallone ed oltre in tempi non tanto remoti se ancora si tramanda l’approdo ad essa con barchino (cu guzzareu). Poi fu realizzato un ponte in pendenza con archi decrescenti verso terra, ora non esiste se non nelle stampe (da non confondere con le arcate da poco demolite). Dalla discesa al mare dell’Isola (a calata di patei) alla foce del Lumia (a calata di mulini) il pianoro era collegato alla terraferma ma in mezzo correva un vallone profondo che lo separava. Ancora nelle stampe del Settecento dal mare appare soltanto la Michelizia, la chiesa del Carmine (Carmelitani Scalzi-S. Elia). Addossato ai piedi della collina del Carmine ed a destra del Lumia l’arsenale -fondaco- dogana. Si vedono l’accesso a Porta Marina ed in basso le grotte incavate nella roccia (esistenti). Un’altra tecnica per ricavare piccoli locali, necessari alla pesca o al piccolo commercio fu quella di chiudere gli ingrottamenti ai piedi della ripa col profilo della stessa. A sud-ovest non esisteva il Borgo che si trovava a sud-est. Dal mare o -dal finestrone dell’Annunziata- si vedevano il bastione sulla villetta del cannone, il ponte levatoio di Porta Vaticana, le retrostanti mura che si dipartivano dall’imbocco di via Indipendenza con dentro le carceri della Bordura. Tra il ponte e le mura c’era il vuoto e sotto le arcate si passava per andare a mare. Fu tale taglio naturale che -costrinse- Tropea a svilupparsi in sì breve spazio ed a precluderle un tempo ulteriore sviluppo per ragioni di sicurezza interna ed esterna. Su tale depressione si innalzava ad arco una cresta rocciosa da Porta Vaticana a Porta Marina come muraglia naturale che esaltava il vallo. Per completare l’opera naturale di difesa si alzarono le mura partendo dalla base rocciosa che fu intagliata per abbassarla ed in certi punti renderla non scalabile con le tecniche militari dell’epoca. La serrata era perfetta. Dal completamento di tale difesa non risulta dimostrato che Tropea sia stata presa d’assalto. Nelle continue guerre dinastiche dal Mille in poi la città poteva contare sul rifornimento dal mare con le corde o da terra con le porte a seconda del tipo di assedio o pericolo. Inoltre bisogna tener presente la limitata potenza terrestre e marittima dei contendenti che in un prolungato assedio di una città del genere così difesa, rischiavano di logorare le loro forze. In ogni epoca le città si sviluppano in rapporto ai requisiti richiesti al momento ed alla tecnologia disponibile. Per assicurarsi tale incolumità all’epoca bisognava arroccarsi sul cocuzzolo di un monte o ritrarsi molto all’interno con altri problemi di viabilità e clima e frane e rifornimenti in caso di assedio prolungato. Qui l’opera l’aveva compiuta la Madre Terra. La nascita di un centro abitato fu evento altrettanto naturale e non ha certo importanza scientifica disquisire se prima o dopo di Roma! Lasciamo la retorica e badiamo all’opera dell’uomo e della natura e delle loro conseguenze incrociate. Quando l’opera di difesa da terra fu completa si articolava in un unico sistema e diversi momenti operativi. Ne seguiamo il percorso per chiarezza di esposizione e perché tali opere fanno (facevano purtroppo) parte integrante dello sviluppo urbano di Tropea. Chi arrivava da oriente (dal porto o da Parghelia), in tempi certi, lasciava la marina risalendo quella stradina a sinistra del primo tornante verso la città con il mare a pochi passi. Svoltando a destra prima dell’attuale curva del mulino arrivava all’altra all’inizio della scala del Vescovado. A questo punto poteva salire verso il Duomo attraversando il ponte levatoio di tavole che di sera si chiudeva alzandosi. Tale ingresso era presidiato dalle armi della Munizione frontale (dietro le absidi del Duomo) che faceva parte del complesso difensivo del Castello al quale si poteva accedere direttamente per via adesso preclusa. Tale passaggio si trovava dietro il Duomo a sud, tra la cappella dello Spirito Santo ed i resti delle chiese delle Raccomandate, che furono una delle sedi antiche del Sedile e dell’ospedale, questo con giurisdizione vescovile in quanto opera pia. Il passaggio pubblico fu chiuso a fine Ottocento -per motivi igienici-. E’ chiara l’urgenza del suo ripristino per il movimento pedonale nel centro e soprattutto per un’uscita di riserva, anche soltanto pedonale, in caso di necessità. Si cerchi pure di provvedere, in uno con l’opera che eviti anche l’inconveniente, che fu allora soltanto una scusa, come in tanti altri casi più gravi. Chi a quel punto entrava in città percorrendo la strada dritta (via Roma) verso l’attuale villetta del cannone, attraversava la via principale est-ovest disseminata di negozi e -roba da vendere- di ogni tipo nella fiera domenicale. Sulla sinistra lasciava il Duomo (dal 1100 circa in poi), l’Episcopio più volte rifatto con l’orologio in alto sul Monte di Pietà. Qui trovava una fontana per dissetarsi. Questa poi fu chiusa dal Vescovo perché con gli scoli infangava la strada. La storia dell’acqua, delle fontane e degli scoli meriterà un capitolo a parte con sorprese attuali. Il problema dell’acqua non fu mai risolto bene: non c’era all’interno del pianoro, la sua adduzione da sant’Agata fu aleatoria ed è oggetto di continue rimostranze negli atti passati del Comune. Il pozzo di san Giacomo nell’attuale largo Calzerano non risolse il problema e fu causa di oscuri episodi: se venisse ripristinato, ed è augurabile, ma non certo per l’acqua salmastra, si troverebbe la non sorpresa di tante -lupare bianche-. Proseguendo c’era la Bagliva (magistratura giudiziaria civile) che a partire dai primi del Settecento fu inglobata nella fabbrica del Sedile dei Nobili dopo la finta divisione formale dagli -Onorati-. Il corso non esisteva e l’osservazione attenta della topografia di Tropea prima del 1783 indica che costipazione urbanistica si era creata in 100.000 mq. di superficie ed in mille anni di attività. C’è l’attenuante dello stato di necessità e di forza maggiore: se il pianoro fortificato fosse stato almeno doppio per superficie sarebbe nata la città principale della Calabria. Le attenuanti naturali e militari non vanno oltre la fine del Settecento. Piazza Ercole era piccola: occupata da edifici, dal convento di santa Domenica e chiesa di san Giorgio a nord. Chi invece arrivava da occidente, avvicinandosi all’inizio di via Umberto scendeva a destra nel vallo indicato e più a sud dell’attuale cunicolo si trovava di fronte a tre scelte: a sinistra la calata alla Marina dell’Isola, al centro la rampa verso il ponte levatoio protetto dal bastione frontale sulla villetta. A destra si poteva avanzare lungo la strada ai piedi delle mura: si passava sotto la prima torre aragonese nella leggera curva di via Margherita dove si apre sulla destra una scalinata. Tale torre presidiava l’accesso dalla marina e dalla rampa del ponte alla città ed a parte delle mura che intravedeva. Queste erano incurvate a sinistra e per la prospettiva altre torri esterne seguivano: la seconda presso l’ingresso di palazzo Toraldo a sinistra, la terza sul ciglio dell’attuale strada verso est. La roccia ai piedi delle torri era stata sistemata in modo che con le sovrastanti mura fosse inaccessibile. Da questa opera di smussamento si ottenne una specie di corsia ai piedi delle torri che appunto congiungeva le due porte con le alternative di transito già viste. Una terza torre era verso nord sulle mura dette di Belisario. Questa si congiungeva ad ovest del Duomo ad un’altra piccola lungo via Glorizio all’angolo con il corso allora inesistente. All’interno tra Porta marina e vaticana in ordine: la torre Mastra, il Castello, la torre Lunga (distinta dal Castello) ed il Rivellino completavano l’opera di difesa che diede ottima prova. Questa memoria topografica, che spero non sia lontana dal vero, per significare che tale opera di messa in SICUREZZA MILITARE completò la POSSANZA di Tropea e solo con essa divenne la città più importante nel basso Tirreno del Regno di Napoli e per tanti secoli. Gli altri elementi di tale POSSANZA furono il PORTO naturale, il VESCOVADO più di quanto si creda, in quanto esso ebbe per quasi mille anni giurisdizione sulla diocesi -inferiore- di Amantea più grande per numero di -anime- e territorio. Senza che questa potesse mai ottenere lo status canonico di aeque principaliter. L’altro fattore fu lo Status di CITTA’ DEMANIALE non sottoposta a barone o principe con diritti feudali. La rapacità e ferocia di questi è stata da sempre riconosciuta anche a danno dei feudatari minori e delle città sottoposte. Viale stazione non esiste più a Tropea: risulta a nome di Pietro Ruffo. I Ruffo tradirono Re Manfredi nel momento dello scontro con Carlo primo di Angiò che si presentava investito dal Papa (salvis iuribus) e Pietro Ruffo tentò di impadronirsi di Tropea come sua giurisdizione feudale, tradendo Re Carlo per il quale i Ruffo avevano già tradito Manfredi. Un suo discendente nel 1612 umiliò Tropea -nobilissima- comprandola come merce esposta al mercato delle pulci. Nell’anno di grazia 2000 i Tropeani ritengono intitolargli una via già storicamente e degnamente nomata. Non so che cosa muova tali scelte. Tanto in rapporto alle circostanze generali, naturali e politiche, in cui dovette vivere il popolo calabrese per mille anni (dalle invasioni saracene al terremoto del 1783). Terra contesa, di transito, senza difese, senza porti, senza strade, flagellata dalla malaria, dalla pirateria, dall’-eccessiva prepotenza baronale e della manomorta ecclesiastica-. Il resto è retorica usata come fumogeno per sottrarsi ai tiri di artiglieria di una seria indagine storiografica. E tutti coloro, famosi e anonimi, che nel corso dei secoli ad oggi hanno messo in evidenza tali aspetti sono stati da quei –poteri –eliminati, anche fisicamente. Tranne rivendicarne, dopo secoli, la loro -grandezza- come lustro della Calabria o del Regno da parte di coloro che sono gli epigoni di quel sistema che di fatto a nessun pensiero civile o religioso è riconducibile. Basta ricordare Campanella che viene portato ad esempio da coro che per metempsicosi sono gli eredi dei suoi torturatori, o il vescovo Serrao chiamato al seminario di Tropea dal Vescovo Paù. Il quale Paù, nativo di Terlizzi, dopo aver ottenuto per il suo paese natale lo status di Concattedrale all’interno della diocesi di Giovinazzo-Terlizzi che così ancor si noma, diventò vescovo di Tropea e provvide ad alleggerire la stessa nostra chiesa di tanti documenti ed opere d’arte che si involarono verso la Puglia, forse per ringraziarla del nome regalato alla Calabria. Seguire la traccia di quanto portato via e del relativo processo che ne seguì sarebbe molto interessante. Questi ed altri episodi del genere da parte anche dei civili di Tropea furono e sono sconosciuti al popolo di Tropea e gli addetti -ai lavori- li ritengono normali con riferimemento alla natura dell’uomo. Chi ha scritto -Le memorie- propedeutiche alla storia della santa chiesa di Tropea accenna appena a problemi del genere perché fa soltanto opera di raccolta di documenti da appassionato erudito. Ma non fa fa la-storia-della chiesa di Tropea che,nell’opera dei vescovi e del capitolo,anche in rapporto all’Universtà tropeana,è ancra tutta da scrivere. Per essere espliciti se venisse mostrato tutto l’archivio che il conte Capialbi si vanta di avere e custodire -nel domestico archivio-, preziosi originali, di molti di essi non si spiegherebbe il possesso se non sottrazioni dagli archivi pubblici e privati compresi quelli ecclesiastici della attuale diocesi Mileto-Nicotera-Tropea. Forse per questo quando ricorda il Vescovo che diede il nome a villa Felice non chiarisce il problema del danno storico –culturale inferto alla Diocesi di Tropea. Retorica e piaggeria ammantano le rivisitazioni di opere del passato-glorioso-.Sono la prerogativa degli eredi di coloro che al -Cardinale Ruffo- mandarono i loro campieri distraendoli dal controllo dei loro privilegi feudali per meglio difenderli. Rimandando ad altro momento i particolari di tanto misfatto che continua sotto altre forme e categorie sociali che hanno preso il posto delle passate, possiamo continuare a seguire lo sviluppo di Tropea che abbiamo lasciata chiusa in fortezza ed accessibile dalle due porte collegate dalla circonvallazione esterna a sud. Non bisogna pensare che l’attuale impianto urbanistico sia veramente molto antico. Il decollo partì da quando il pianoro fu messo in sicurezza militare con le opere accennate. Niente di notevole si può far risalire a prima del Mille. Prima di quella data le vestigia sono state sommerse da reiterate sovrapposizioni e doveva esserci un notevole agglomerato sia pur vistoso per i tempi ed è quello il metro di misura. Le vestigia religiose dell’Alto Medioevo si trovano più nei Casali che nel centro di Tropea, perché il tipo di monachesimo che si diffuse prediligeva il romitaggio singolo o in piccole comunità. I più antichi certi monumenti sono la Chiesa dell’Assunta (S. Giorgio) sul sito del presunto tempio di Marte, prima Cattedrale di Tropea, prima di passare a S. Nicola della Cattolica(Gesuiti) che lascerà per il Duomo, la sede dei Conventuali. La Cattedrale si sposterà brevemente per S. Maria de Latinis e S.Pietro ad ripas (S.Francesco-Immacolata-S. Demetrio) dopo il terremoto del 1783 che fu per Tropea un’occasione tragica perduta. C’èra poi la Bagliva su cui all’inizio dell’Ottocento si cominciò ad edificare il Sedile esclusivo dei Nobili. Per il resto il tessuto urbano consisteva in edifici comodi ma non appariscenti se è vero che quasi tutte le attuali emergenze architettoniche non vanno oltre il Quattrocento (chiese, conventi, monasteri e palazzi). Da quel periodo partì il primo rapido sviluppo urbano di Tropea che si avvolse pericolosamente su se stesso per cinque secoli ed alla fine esplose in forma rovinosa verso sud-ovest come la fiumana di fango e detriti travolse la Marina del porto nel 1872, scendendo lungo la Grazia. I fattori ricordati che fecero la POSSANZA di Tropea cominciarono a produrre il loro effetto man mano che funzionavano a pieno regime, una volta collaudati, in quanto producevano pecunia -reggimento di tutte le cose-Tali fattori rendevano la città preziosa per il Regno di Napoli: per conquistarlo e per conservarlo dagli assalti dai continui aspiranti per motivi dinastici veri o presunti. Con tali requisiti che si consolidavano, essa, attraverso le Istituzioni principali, Vescovi e Sindaci, di fatto ricattava i sovrani sotto l’apparente forma delle richieste di privilegi alla loro -Augusta Maestà-. Se si vuol comprendere l’importanza di una città bisogna misurarla dal numero di privilegi e soprattutto dal loro contenuto. Se poi si esamina la qualità delle richieste si intuisce quale classe sociale aveva il predominio ed a volte anche aspetti della sua cultura. All’inizio ci dovette essere un’aristocrazia terriera locale e la figura del vescovo fu predominante in ogni senso con la manomorta che si andava costituendo: da sola superava quella di tanti singoli proprietari a giudicare dalle fabbriche alzate e pur tenendo conto delle donazioni. Di fatto era un vescovo-conte per il quale in quegli anni si battevano, non solo a parole, Papa ed Imperatore in Europa. Infatti i Diplomi dei sovrani erano ad essi diretti e non ai sindaci dell’Università. Solo più tardi si invertirà in parte la tendenza. Il segno di un riequilibrio dei poteri fu la disputa sui -Vassalli- (gruppo di famiglie che i diplomi reali avevano assegnato al Vescovo con giurisdizione assoluta). Tale disputa fu riassunta nel 1716 e tutti gli atti dovrebbero trovarsi nell’archivio vescovile come pure in quello comunale: il disastro e saggheggio di emtranbi lascia poche speranze. Con i Normanni arrivarono nel Sud tanti aspiranti feudatari che seguendo i vari fratelli d’Altavilla inseguivano come ricompensa un feudo. Fino a quando tutte le conquiste non si ridussero sotto Ruggero II ci fu rivalità vera tra i vari capi e Tropea ospitò Sikelgaita, assediata in Mileto da suo cognato Ruggero I. Essa fuggendo riparò nella Cattedrale di Tropea nel 1062. Era la moglie di Roberto Guiscardo, padre di Ruggero Borsa. Per riconoscenza Tropea, anzi il suo Vescovo-Conte, ebbe un diploma di privilegi e donazioni per la Chiesa e la Città. Questo segnò il decollo ufficiale di Tropea che fino a quel momento era importante ma mise in mostra il lato strategico come testa di ponte per Napoli e la Sicilia. Il passaggio al rito latino fu anche una esigenza politica ma il rito greco rimase a lungo in Calabria. Durante le alterne scorrerie saracene, con Tropea ed Amantea contese tra Arabi e Bizantini, questi che già avevano dato all’antico Bruzio il nome di Calabria, non riuscirono a chiudere la partita con gli Arabi della Sicilia dediti alla predazione più che alla fede del Profeta . Ma furono fatali ad Amantea. Essi -ruinarono- in ogni senso diverse sedi vescovili che numerose i Bizantini avevano istituito, con rito greco, per un miglior controllo del lembo d’Italia loro risparmiato dai Longobardi. Tra di esse Taureana, Vibona, Amantea. Le prime due finirono circoscritte nella Diocesi di Mileto che divenne la Capitale dei Normanni in fase di assestamento dinastico e territoriale. L’ultima non andò a Cosenza perché questa era sotto la giurisdizione longobarda e terra di confine con i Bizantini lungo il torrente Malpertuso, prima di Paola. Dell’ultima si prese cura Tropea in modo informale, ma non c’è una data certa. Per quasi tre secoli anche per Tropea non c’è traccia di vescovi a causa delle scorrerie saracene: probabilmente il nostro vescovado riprese vigore anticipando le possibilità di Amantea di risorgere e poi le circostanze causarono le conseguenze. Tralasciando per ora il problema particolare, avvenne che nel primo privilegio, la diocesi di Amantea, da Ruggero Borsa figlio di Guiscardo fu annessa a quella di Tropea, senza diritti e neanche il riconoscimento di sede Concattedrale. Questo comportò un rovello millenario degli Amanteani tutti non solo per motivi di prestigio, ma per sottrazione di risorse economiche che confluivano nella Diocesi superiore che via mare con il suo porto raggiungeva facilmente Amantea posta esattamente a nord e con navigazione a vista. Invano per secoli essa reclamò la restituzione del mal tolto, vedendo tante rendite della sua chiesa, molto più grande di quella di Tropea per anime e territorio, involarsi via mare verso la mensa del Vescovo e dei Canonici di Tropea. Questi ad una certa data venivano quasi tutti dalle famiglie del Sedile i cui discendenti sono tra di noi. Un Vescovado tale rafforzò Tropea che, chiedendo sempre il rinnovo dei privilegi, metteva al primo posto la conferma del Vescovado di Amantea e la richiesta di essere lasciata in perpetuo nel regio demanio. Lo stesso vale per tanti preziosi documenti dell’archivio comunale. Durante le continue guerre dinastiche, prima dell’arrivo dei Viceré, Tropea rimase sempre fedele alla casa regnante, salvo a giurare fedeltà al vincitore. Da qui il motto sul suo stendardo. Ma già stava crescendo per i fattori accennati. Ad un certo punto il carattere di demanialità fu il maggiore elemento di sviluppo perché le diede, con gli altri privilegi commerciali, gli aspetti di un porto franco. Al seguito delle varie dinastie arrivarono tanti avventurieri e cadetti alla ricerca di un feudo nel quale sentirsi arbitri assoluti in cambio del servizio prestato. Poteva andar bene ed allora veniva cacciato chi aveva parteggiato per il perdente. Ad un certo punto si tradiva per calcolo il proprio sovrano per il quale si era tradito il precedente. Un calcolo pericoloso perché neutrali non si poteva restare. Questo almeno per i titolari dei grandi feudi con giurisdizione di fatto illimitata, potendo da soli affrontare in ogni senso il re stesso. Tale situazione giocò a favore dello sviluppo di Tropea per i fattori esposti. Da tutto il Regno e soprattutto da Napoli molti elementi di media aristocrazia si trasferirono a Tropea per sottrarsi al dominio dei feudatari che su di loro avevano giurisdizione a volte senza appello al sovrano. Qui non dovevano obbedienza a nessuno per la condizione di città demaniale ed anzi apparivano grandi governando con regime aristocratico la città. Cercarono ed ottennero facilmente la limitazione dei poteri del Governatore del Re. Ma le loro rendite di terre lontane si spendevano a Tropea per un palazzo che gareggiasse con quello degli altri arrivati o residenti da tempo. Anche si procuravano terra nei casali intorno ed oltre, anche loro con alterne fortune. Le famiglie notevoli degli stessi Casali ritennero prudente trasferirsi in città per la pirateria ma anche per sottrarsi alla vendetta dei loro tartassati: gli esempi cruenti non mancano fino a poco tempo fa. Il torrente Burmaria rendeva ricche le fertili terre di tutto il Carmine e S. Francesco che appartenevano alla chiesa ed ai nobili che potevano seguire gli orti con gli occhi. Lo stesso torrente deviato a sinistra irrigava la Contura fin oltre viale Tondo e con regolazione delle acque muoveva nella sola Tropea dieci mulini di enorme valenza economica e di sicurezza alimentare per mille anni. Il porto favoriva i commerci insidiati dalla pirateria, dalla quale SOLA Tropea fortezza garantiva all’interno la sicurezza possibile. Alcune famiglie avevano feudi con limitata giurisdizione feudale lontano da Tropea ma qui abitavano costruendo il relativo palazzo sempre all’interno delle mura. In certi privilegi ai Sovrani si chiede che a nessuno del Regno fosse impedito di stabilirsi a Tropea volendolo. A nessuno doveva essere impedito di tornare recandosi fuori. Il fenomeno della corsa a Tropea disturbava qualche baronia perché con l’attività edilizia intensa tra Cinquecento e Settecento furono attirate maestranze specializzate da un vasto raggio. La stessa manutenzione di tante case dava un lavoro continuo ed i vari ordini religiosi da soli avevano fabbriche che duravano decenni. Il trasporto in città di tanti materiali occupava molte persone, come pure le esigenze di legna da ardere contribuì al disboscamento dei Casali con conseguenze sul riporto dei fiumi. Tutto l’indotto animava un artigianato che assunse vita autonoma come i mercanti ed i principali operatori delle fabbriche civili e religiose. Nei privilegi si chiede franchigia dai balzelli feudali per le merci della città in tutto il regno per mare e per terra. Segno che accanto alle famiglie possidenti si era formato un ceto di nuovi ricchi in grado di essere determinanti nella vita cittadina competendo con la nobiltà di fatto immigrata. Tra questa non mancarono tentativi di guadagno che non fosse legato alla semplice rendita.. Non sembri strano la parola -immigrata-: chi era arrivato a Tropea in cerca di sicurezza fisica interna ed esterna e per sottrarsi al più grande feudatario si presentava come guerriero conquistatore ed ancora oggi alcuni fanno intendere che il loro cuore sta nella terra da dove vennero i loro avi e che Tropea è stata una preda: nella loro boria dicono il vero confermato da quanto si dimostrerà più avanti. La varietà delle dinastie, che si rifletteva nelle famiglie, produsse divisione tra svevi ed angioini e tra questi e gli aragonesi nel Quattrocento, ma senza conseguenze traumatiche a Tropea. Avevano capito, laici e religiosi, che il loro interesse era la difesa ed accrescimento dei privilegi di fatto economici ed i Sovrani, compreso CarloV, acconsentirono per le ragioni indicate. Con l’arrivo dei Viceré ebbero la prevalenza gli Spagnoli già anticipati dagli Aragonesi. Allo stesso modo quando alcune famiglie senza alcuna origine cavalleresca, avevano acquistato -col sudore una vistosa possanza- potevano essere pronte ad estromettere dal potere la nobiltà. Questo avvenne in tanti Comuni del Centro-Nord in diverse forme. Da noi niente di tutto questo. La ricca borghesia preferì la cooptazione nel potere allo scontro e se anche ci furono momenti di tensione, ad entrambi non conveniva lo scontro alternativo come avvenne in parte a Catanzaro. Avrebbe messo in gioco il popolo -tapino- dei tuguri ed il rancore dei Casali minacciosi verso la dominante Tropea che li trattava da iloti. Il cambio e rinnovo delle famiglie nel Sedile e nel Capitolo della Cattedrale chiarisce il problema. Il -turn over- funzionava. Il capolavoro mediatico di tale sistema di potere fu quello di aver convinto la plebe ad identificarsi con i suoi interessi in cambio di un sistema di solidarietà paternalistica che da poco forse è finito:-campu cu gnuri-. Avere Tropea compatta significava lo sfruttamento coloniale dei Casali visti non come parte morale dell’università ma come colonie da sfruttare. Tutto fu agevolato in quanto tra le famiglie nessuna aveva prevalenza vistosa sulle altre. Neanche tra i borghesi ci fu il grande banchiere o mercante in grado di divenire signore della città. Cosa impossibile nel Regno dove anzi i grandi banchieri venuti prima da Firenze(Trecento) e poi da Genova(Cinquecento), finirono con l’infeudarsi a loro volta.Oggi i nostri governanti, dopo aver visto per decenni -segni di ripresa nell’economia e nella vita sociale della Calabria- ci hanno consegnato ai Celtici della Milano da –bere- che per ora si preparano ad estromettere dalla dirigenza medio-alta della ex Carical tutti i -Terroni-. In tutto il Regno molte famiglie vivendo soltanto di rendita si avviarono al declino senza ritorno, o con matrimoni parentali cercarono di limitare la divisione delle terre che non avrebbe assicurato la loro sopravvivenza da fannulloni dopo essere stati conquistatori. I matrimoni con i nuovi arricchiti, anche se puzzavano di fondaco o di usura quando a loro anticipavano il denaro del futuro raccolto, fu un altro sistema per salvare la proprietà ed il blasone. Tardi si accorsero della opportunità di avviare i figli ad una -arte liberale- che loro disprezzavano. Gli Aragonesi erano operosi ma gli Spagnoli considerarono il lavoro o lo studio per lavorare cosa ignobile, non degna di un nobile e quindi da disprezzare (mentalità del galantuomo preminente nel sud). I Vicerè avevano ormai sempre meno bisogno dei loro aiuti feudali nonostante le trame dei grandi baroni per restare reucci nei loro feudi portando il Regno ad una ingloriosa fine senza un glorioso passato. I piccoli nostri nobili, si coprivano di altisonanti titoli (Collari e Cingoli) per coprire la miseria morale ed economica alla quale si avviavano per non essersi aggiornati in tempo con le tecniche agricole ed il progresso in genere. Le loro stantie proprietà rendevano grama la vita al colono controllato a vista, mentre le nuove fortune economiche potevano estrometterli in breve tempo dai palazzi e dalle proprietà, come avvenne ed ancora avviene. La memoria del 1818 (attribuita a Galluppi al quale non farebbe onore) indirizzata al Papa ed al Re di Napoli, difende la causa della conservazione del Vescovado a Tropea che si profilava pericolante e non si poteva più chiedere il rinnovo di privilegi. In tale accorata supplica si fa un quadro pietoso dello stato morale, sociale ed economico di una Tropea avviata al declino. Non si trattava più di difendere il possesso di Amantea facendo il -transunto- di tutti i privilegi, ma di salvare la propria esistenza. Con una relazione che -meriterebbe in alcune cose minore entusiasmo e non tante asserzioni insostenibili- si dichiara che -una non picciola parte di queste campagne, che formano le sue delizie, appartiene alla Mensa Vescovile; sarebbe in conseguenza molto doloroso per Tropea, che i frutti dei suoi annessi campi le fossero rapiti, e si dessero ad un vescovo fuori del suo territorio: il cittadino sarebbe incessantemente forzato di versare delle lacrime alla vista di quelle contrade, che la pietà dei suoi padri ha donato alla Chiesa: la Coltura (tutta l’area irrigata dal torrente Burmaria) andrebbe a languire, laddove il Vescovo stesso passeggiando all’uscita dalle mura della città, osservando la coltura dei campi della sua Mensa, l’anima e la ravviva. La posizione fisica di Tropea le dà dunque dritto al Vescovado. Situazione morale di Tropea. La sua posizone morale la reclama egualmente. La popolazione di Tropea racchiusa nelle sue mura è composta per quasi più di due terzi d’individui che non sono addetti a lavori meccanici. Il Clero, la nobiltà ed il ceto dei Galantuomini formano per l’appunto questa parte più numerosa. Il clero che adorna il vetusto Duomo Vescovile è uno dei più illustri della Provincia. Ciò è stato dimostrato innanzi. Tropea è stata sin da’ tempi immemorabili sede di una generosa e cospicua nobiltà….ella (Tropea) sarebbe un corpo acefalo, ella presenterebbe un quadro di un bell’uomo con un capo deforme. Se Tropea presenta una Popolazione, la cui massima parte non è addetta a lavori meccanici; se in sì fatte età sì la parte oziosa ha bisogno di maggior freno, per arrestare la licenza del costume,conseguenza inevitale dell’ozio; e la parte scientifica ha bisogno di una vigilanza, per non essere avvelenata da una falsa filosofia; chi potrà negare che l’esistenza del Vescovo sia legata alla posizione morale di Tropea? chi potrà negare che la perdita del proprio Vescovo richiamerebbe su dì questa città un diluvio di mali? -Forse non c’è bisogno di commento :speriamo che la -perdita- recente del Vescovo non richiami su di questa città un diluvio di mali. E’ ancora presto per stabilirlo. Essa aveva perso l’importanza dei suoi requisiti di ricatto nella vita del Regno e si trovava come un veliero in bonaccia più temibile della tempesta. Intravedeva sulla sua pelle cosa sarebbe significato perdere il vescovato e sotto mentite litanie si badava alla perdita dell’afflusso economico a favore di un’altra sede: Mileto era in agguato da tempo, avendo trascurato la memoria difensiva al momento della disputa finale con Amantea relativa al -laconismo-. Solo adesso i Tropeani capivano il danno fatto per seccoli ad Amantea: sarebbe stato un colpo tremendo per la vita della città. La stessa operazione nella seconda metà del Novecento è passata senza accorgersi o rimostranze. Perché le fonti economiche alternative erano tante. I temi rapidamente accennati non sono estranei all’argomento in quanto ogni attività ha bisogno di capacità professionali e di investimento, meglio se in unico soggetto. Lo sviluppo edilizio di Tropea fu costretto fino al Settecento quasi tutto dentro le mura per paura di assalti e saccheggi. Ma proprio tale situazione aveva contribuito a farne una meta ambita. Finite o vanificate tali prerogative Tropea credette di vivere di rendita del suo passato con una classe dirigente che non guardava al futuro e non aveva la cultura attiva per diventare intraprendente. Discutevano gli Allaborantes se il loro progenitore Ercole fosse stato egizio o tebano e per tale fatica si recavano in residenza di campagna per riposarsi e rapinare meglio il sudore dei contadini ai quali anticipavano le sementi ad usura per rifarsi di quella esercitata su di loro dai prossimi inquilini proprietari dei loro beni ipotecati. Da tale torpore li svegliò il terremoto del 1783 in una città pericolosamente costipata da edifici affollati, come i quartieri spagnoli di Napoli o Palermo. Ricordiamo i più notevoli sull’appicco in senso antiorario da Porta marina. Si notino anche le date certe di alcuni, gli altri sono recenti. La cartografia anteriore al 1783, quella subito dopo tale data e quella di fine Ottoccento sono un quadro eloquente che a Tropea il disastro urbanistico è una tradizione antica. Da Porta marina a palazzo Giffone sulla ripa si vedono otto edifici ed una chiesa: Bragò - Finocchiaro - Galli - Tranfo - Fazzari - Collaretto - S.Demetrio - Sede dei Conventuali - Giffone. Tranne il primo che è stato ridotto lato sud, gli altri sono rimasti nella consistenza originale e la chiesa di S. Demetrio è il rifacimento di S. Pietro ad ripas. Da palazzo Fazzari in poi e fino all’Isola in tempi certi c’era il mare e dall’alto si pescava dalle logge e dai balconi. Dalla fine del Seicento il mare, per cause diverse cominciò a ritirarsi. Allo stato attuale in generale c’è una inversione di tendenza in quasi tutta la Calabria, con conseguenze disastrose che pur potevano essere previste. Si continua ancora a costruire, con i finanziamenti pubblici, degni di miglior causa, a ridosso del mare che sarà l’unico vindice di tanta deliberata inciviltà -per il bene pubblico-. Quando poi il mare asporterà tali opere, si invocherà lo stato di calamità naturale per altri soldi. Sono assolutamente inutili le opere di difesa marittima che sperperano risorse ingenti per un abreve tregua. Il prelievo di materiale dall’arenile, dal corso dei fiumi, i laghi artificiali, hanno accelerato la tendenza del mare a riconquistare lo spazio perduto negli ultimi duemila anni. Non si può alzare una diga (torre di Babele) da Scalea a Reggio e da qui alla Lucania. Si usino quelle risorse per spostare in tempo ferrovia e strade e le attività possibili: non si possono salvare Napoli o Catania tappando la bocca eruttiva al Vesuvio o all’Etna. Sulle coste della Calabria si sta tentando tale operazione: non so se bisogna ridere o piangere. La regione Calabria riveda tutta la materia ed intanto blocchi ogni finanziamento alle attività che hanno ormai il mare di fatto all’interno e piuttosto le aiuti a spostarsi se ne hanno la possibilità: la ferrovia sul Tirreno già arretrata da poco sta per essere di nuovo raggiunta sotto la collina. Intere paesi sulle -Marine- non credo siano più difendibili: basta fare una ricognizione ed una anamnesi seria sul piano storico – scientifico. Ionio e Tirreno : non c’è bisogno di fare esempi. Dopo questa precisazione che vale anche da Capo Vaticano a Capo Sempronio si ricorda che a Tropea le arcate sulla ripa orientale dei palazzi Collaretto e Fazzari erano pubbliche con uscita da S.Demetrio ed ora sono chiuse: furono anche pubblici lavatoi e macello. Si può pensare alla loro riapertura.Tali manufatti hanno le scale più -storiche- di Tropea. Palazzo Fazzari: il suo atrio è presentato in bianco e nero davanti all’ufficio del Sindaco di Tropea. Ed a ragione! Prego lo Stesso sig.Sindaco di andare a verificare lo stato di sfacelo ed anche altro e nel frattempo si eviti la visione ai turisti che sempre numerosi traggono valutazioni. Palazzo Collaretto (ospizio): sono in corso lavori di –restauro- che non credo siano confacenti al caso .Un sopralluogo di oltre dieci anni fa stabiliva che - rifacimenti non pertinenti e sovrastrutture per il recupero degli spazi, in parte hanno cambiato la tipologia e deformato le strutture-. Se ancora si prosegue su quella strada che fine farà il centro storico? Segue la chiesa che da san Pietro passò a san Francesco, all’Immacolata ed infine a san Demetrio per la demolizione della stessa in largo Galluppi. Nel 1295 l’antica chiesa di san Pietro ad Ripas (non sulla rupe ma presso la Ripa – affaccio pubblico) fu ceduta ai Francescani con l’orto annesso. Su di questo essi costruirono il convento esistente che ebbe in seguito varie destinazioni. Largo Galluppi nacque dalla demolizione degli edifici che da palazzo Bragò fronteggiavano palazzo Giffone. Seguire le passeggiate della statua del filosofo sarà –edificante - in altro momento. Dall’affaccio di tutti gli edifici orientali si vede la Grazia, il porto ed il S. Leonardo. La prima con una colata di fango e pietrame sommerse il porto nel 1872. La maggior parte dei detriti si riversò a destra verso la Pizzuta ed a nord fino all’attuale molo. La marina di Tropea fu in buona parte risparmiata dalla conformazione orografica e da quel muro che si intravede sullo sfondo. La fiumana sommerse due mulini ed i probabili resti del convento della Grazia. Uno dei due mulini, con l’assestamento del terreno è riemerso nella punta della saetta, come di una nave affondata il fumaiolo. Per la posizione è facile recuperarlo per interesse tecnico e scientifico. La campana del convento, già sede dei Domenicani prima di passare a palazzo Adesi sul corso, è una delle quattro della Concattedrale di Tropea (così si chiama dopo la costituzione della diocesi Mileto-Nicotera-Tropea di recente definitiva). Il mare agli inizi del Novecento raggiungeva a sud lo scoglio san Leonardo fino alla strada attuale.Per varie ragioni aveva toccato il punto di massimo arretramento naturale prima della inversione di tendenza in atto. Il canale si era chiuso anche se durante le mareggiate da ponente e maestrale si afferma che le onde circondavano lo scoglio. Quando il mare era assai avanti sotto il Carmine c’era appunto la dogana regia, il fondaco, e l’arsenale per la costruzione e riparazione delle navi ed anche una torricella di guardia contro i pirati. Per questi fu mantenuta una piccola flotta dall’ammiraglio Vulcano ricordato nella toponomastica di Tropea e forse anche nel fondo che al confine con Ricadi porta tale nome. Sotto gli occhi dell’osservatore ad oriente c’è ancora il nuovo porto. Il vecchio molo fu costruito dopo la prima guerra del Novecento. Nella pineta di fronte al preventorio ,sorto intorno al 1930,affiorano due teste d’ariete in granito: la loro esplorazione potrebbe riservare qualche sorpresa. A Tropea qualcosa di nuovo accade sempre non -ad ogni morte di Papa- (ai quali si augura comunque lunghissima vita, come pure al Vescovo della nuova diocesi di Mileto-Nicotera -Tropea) ma ad ogni terremoto che vorremmo mai avvenissero. La teoria delle probabilità ci insegna che gli scongiuri non cambiano niente, né altri riti propiziatori se non si vuole cadere nella magia degli sciamani. Come conseguenza dei terremoti del 1905 e 1908, preceduti da quelli del 1638, 1658, 1783, (si rifletta sulla loro periodicità) furono per la prima volta emanate leggi speciali per la Calabria. Esse prevedevano anche un piano per sette porti tra i quali quello di Tropea. Fu realizzato il molo che tale restò interrandosi e sforacchiandosi. Leggendo gli atti del consiglio comunale e poi quelli del podestà, durante i lavori del primo porto, si notano evidenti nel nuovo impianto gli stessi difetti di agibilità che allora invano e tante volte essi denunciarono inascoltati. Diga foranea esile per costituzione e bassa. Con il mare in tempesta le onde scavalcano e si rovesciano pericolosamente sulla banchina che è troppo stretta anche adesso. I rimedi sarebbero oggi molto costosi. Eppure tutta l’area del porto fu presa di mira circa trent’anni fa da benefattori che la volevano regalata per una speculazione immobiliare. In cambio promettevano un approdo più sicuro per i pescatori esasperati a ragione per tale mancanza che aggiungeva al loro lavoro fatica e pericolo. Si ricordi quanto di tragico accadde a Schiavonea sullo Ionio circa venti anni fa. Avrebbe portato lavoro e lustro al paese: agiva per il pubblico bene e ci mancò poco che non la spuntasse. Se così fosse accaduto oggi lo scoglio sarebbe circondato da benefattori in quanto l’area a sud, un tempo canale navigabile, è stata donata per -le Roccette- per il bene pubblico ad altri richiedenti benefattori che tuttora in forma legittima la detengono. Ma con l’attuale ritmo di avanzamento del mare nel suo antico ed anche per esso legittimo naturale sito si ricostituirà il canale e SOLA Tropea avrà, anzi riavrà, un porto con due entrate ed uscite per le quali si possono approntare le modifiche. Nessun sarcasmo a meno di congiungere con muraglione ciclopico la punta a maestrale dello scoglio con la roccia coperta da quegli orrendi archi che dovrebbero essere in qualche modo mascherati. Alla foce della Grazia il porto ha due emergenze inconciliabili: il mare mangia la striscia alluvionale mobile e tende ad aggirarlo da est, se la Grazia ripasce la linea di costa interra lo stesso porto. Questo per millenni non si insabbiò perché il lavoro dinamico delle correnti disperdeva al largo gli apporti fisiologici delle acque di tutta la costa ed in particolare del Lumia e del benemerito Burmaria che distingueva la sua foce da quella della Grazia. Con questo andamento dinamico della linea di costa e senza l’intervento dell’uomo per controllarla, si tornerà alla morfologia dei tempi remoti ed il porto si troverà nel mare da attraversare per raggiungerlo: sarà un altro requisito della SOLA Tropea: un molo di servizio per arrivare al porto. L’attuale porto si inserisce nel programma europeo de -I porti di Ulisse- in Italia ed in Grecia ed altri in zona se ne prevedono. Questo va bene ma come sarà protetta la zona intorno dagli scempi o chi e come gestirà opere realizzate a pubbliche spese? Ci avviamo a costituire nuovi feudi o prebende sul diritto di -ripatico-? Se Odisseo ritornasse lungo le coste della Megale Ellas e della stessa Grecia, vedendo i Mostri urbanistici lungo le coste li scambierebbe per Scilla e Cariddi e non si farebbe tappare le orecchie con la cera, ma si farebbe bendare gli occhi. Egli che era - uom di multiforme ingegno - che molto errò poi ch’ebbe a terra gittate d’Ilion le sacri torri, e che città vide molte e delle genti l’indol conobbe, - abbandonerebbe di nuovo Penelope per una nuova missione volontaria. Con l’arco e le frecce recuperate dal corpo dei Proci usurpatori si presenterebbe di fronte ai nuovi Mostri. Questa volta, non legato all’albero, ma dall’alto del pennone, come la vedetta del pesce spada, comincerebbe a saettare invocando anche Apollo, suo nemico, ad aiutarlo in forza e precisione, contro i nuovi Proci usurpatori di tutte le nostre coste. Con piccola metatesi li scambierebbe per quell’animale nel quale Circe tramutò i suoi compagni, ma non solo a calci li prenderebbe. Dopo tremila anni potrebbe aver dimenticato il percorso fatto, ma non c’è problema. La bella nostra pubblicità presenta a tutti i livelli la Regione Calabria che all’eroe dalla -Mente Colorata- può fornire una delle guide preparate e stampate dai bavosi cantori dei mari del Mito: seguendo Ulisse oppure Enea, tali guide a spese nostre ed a vantaggio dei Proci, con retorica abominevole e mistificazione di falsari, mostrano i luoghi veri o presunti, toccati da quei due, veri o presunti, nel loro viaggio verso Itaca ed il Tevere. Ma i bavosi cantori, a caccia di prebende, non spostano di poco (a volte anche dieci metri) l’obiettivo delle loro -mitiche immagini-: ci farebbero vedere le vergogne urbanistiche, che sostituiscono, nei loro -splendidi itinerari- alle-vergogne- di qualche aspirante Venere di Botticelli che nasce dall’onde del mare. Guardando a destra dal punto trigonometrico scelto segue la Chiesa oggi denominata S.Demetrio e per ora chiusa, con tutti i danni che ne derivano ad essa ed alle -cose- che conserva. Dico questo perché pochi sanno quale commercio turpe si fa, nell’ombra, delle opere d’arte, comprese quelle sacre che a Tropea sono la totalità e da parte di persone insospettabili. Essa è l’antica parrocchia di S.Francesco d’Assisi ed alla sua destra c’è, di fronte a palazzo Giffone, l’attuale liceo scientifico. Alla fine del 1200 esisteva soltanto la chiesa sotto il titolo di S.Pietro ad Ripas e l’area a destra era l’orto dello stesso. Nel 1295 il vescovo Giordano con regolare diploma concesse chiesa ed orto ai Francescani Conventuali perché su di esso edificassero il loro convento. Così avvenne. In seguito (1665) sull’area dell’antica chiesa fu ricostruita la chiesa detta S. Francesco o dell’Immacolata. Questo Ordine di Frati ebbe a Tropea vari momenti. I conventuali furono nel luogo descritto, a quelli di più stretta osservanza fu prima dato il monastero basiliano di S. Sergio, alle sorgenti della Grazia, poi la chiesa dell’Annunziata quando divennero i Francescani Riformati. La chiesa dell’Annunziata è oggi proprietà comunale e la secolare fontana che c’era davanti fu eliminata con atto non certo encomiabile. I Minori Francescani (Cappuccini) prima ebbero la chiesa ed il loro convento a Vicce, sotto il titolo di S. Maria della Sanità (esiste ancora buona parte della fabbrica) e subito dopo fu edificato, in seguito a generosa donazione l’attuale convento con chiesa detto della Sanità (sant’Antonio portoghese). Prima sulla sinistra si trovava l’ospedale dopo tante migrazioni. Più avanti c’è palazzo Giffone: per ragioni che saranno altrove riferite esso fu nella prima metà del Novecento al centro di una vicenda che segnò il suo passaggio nei beni dello Stato, dopo un’asta che determinò attrito tra i Redentoristi e gli affini dei Giffone ed anche all’interno di questi ultimi. Gli atti relativi dovrebbero trovarsi presso gli eredi ed aventi causa, negli archivi dello Stato che divenne controparte per ragioni fiscali, e certamente presso l’archivio e la biblioteca dei PP RR a Pagani. Credo che dopo un secolo alcuni fatti di storia locale possano essere ricostruiti, inquadrati e riferiti nel loro tempo, anche se sembrano privati. Soprattutto quando sono il prototipo di una classe sociale e di una città che a sua volta fu un UNICUM-SOLA in Calabria e forse nell’intero Regno. Vedremo. Tale immobile da anni è oggetto di interminabili lavori di restauri e lavori non terminati. La sua acquisizione da parte del Comune di Tropea non è impossibile. Ma altre attenzioni sta ricevendo.Tale palazzo separa la sede dei Conventuali da quella dei Gesuiti, diversamente i seguaci del Poverello di Assisi e del Loiola si sarebbero guardati a vista (ed anche in cagnesco). Queste due istituzioni religiose furono elementi portanti della vita tropeana nel loro tempo. Nel Cinquecento Tropea ebbe una forte economia ed un alto incremento demografico per vari motivi ricordati. Fino a quel momento a Tropea erano arrivati quasi tutti gli ordini religiosi regolari. I Gesuiti scelsero Tropea come quarta sede della loro Compagnia. La Compagnia di Gesù (Societas Jesu) sorta in quel secolo ebbe una rapida espansione che sollevò rimostranze negli altri ordini. Quello di Tropea fu il quarto Collegio dei Gesuiti in Calabria dopo Cosenza, Catanzaro e Reggio. Seguiranno Monteleone, Amantea, Paola. Tranne Catanzaro tutti sul Tirreno e non è un caso. Il pioniere fu padre Bobadilla castigliano che per stare in Calabria rinunciò a presenziare all’atto formale della fondazione canonica della Compagnia del Gesù, 1540. Spirito -libertario- ed incontrollabile. I Gesuiti, trovarono in Calabria condizioni generali, in rapporto a tutti i possibili riferimenti, compresa la chiesa e le sue istituzioni, così tragiche e disperate che ci definirono -Indie di quaggiù-. (Più tardi i Celtici ci chiameranno con disprezzo Africa:ricordo che la classe politica dei nostri ascari ci tiene in condizioni di essere da loro insultati in cambio delle briciole per essere rieletti col clientelismo corruttore.) Una chiara ed inappellabile condanna dell’opera svolta in passato dagli altri ordini religiosi ed espressamente dalla deviazione delle autorità tutte, civili e religiose. Qui bisognava restare e da qui cominciare. Neanche il Barrio in quel periodo presenta un quadro così triste. Riprodurre qui il contenuto delle loro relazioni, senza ricordarne gli autori, rischia di attirarsi addosso le calunnie di tanti zelanti a parole della storia della nostra regione. Ad un certo punto avere nella propria città, già presenziata dagli altri ordini religiosi, la Compagnia di Gesù, divenne un’aspirazione che travalicava la fede. Chiese, conventi, monasteri, religiosi regolari e secolari,confraternite in genere superavano di gran lunga il numero massimo di religiosi che un viceré stabilì in rapporto agli abitanti, per fermare la corsa alle sacre lane. Fra le città della costa tirrenica scattò una gara di emulazione e forse orgoglio e tutte in rapida successione ebbero il Collegio dei Gesuiti con annessa chiesa, offrendo la più ampia garanzia per la fondazione ed il suo mantenimento, mentre altri ordini religiosi avevano difficoltà di sopravvivenza. La priorità data dai seguaci del Loiola a Tropea era il riconoscimento della sua importanza. Si noti bene che dopo la costruzione della sede di Amantea il Vescovo di Tropea condivise con quello di Cosenza la presenza di due Collegi nella propria circoscrizione. Essi si installavano su richiesta con garanzia di sede adatta e reddito per la sua vita decorosa. La scelta dei centri migliori era subordinata allo scopo di formare ed inquadrare nell’ortodossia i figli dei nobili destinati alla classe dirigente, con evoluzione ed adattamento dell’ispirazione fondante della compagnia. Se si potesse controllare l’elenco degli alunni laici e religiosi, quanto affermato troverebbe le prove. I Gesuiti, insediandosi su esplicita richiesta, sceglievano il sito con valutazioni a largo raggio che spesso nom sono state fatte in tempi recenti dall’edilizia civile. Essi avevano al loro interno i Mastri-progettisti e direttori di fabbrica col nome di -Consiliarius aedilicius- ed al primo errore li cambiavano. La fabbrica del collegio di Tropea iniziò all’inizio del Seicento ed alla sua inaugurazione intervenne il generale della Compagnia padre Acquaviva. Verso la metà del Seicento fu demolita l’antica cattolica a croce latina, già Cattedrale dopo san Giorgio, ed innalzata l’attuale a croce greca. La velocità di esecuzione di tutto il complesso, chiesa e collegio, dimostra che quando responsabile della procedura è un solo soggetto, senza intralci di burocrazia che spesso si costituisce a potere e pretese indipendenti, le opere si realizzano e si portano a termine. Oggi si dice -Sportello unico- ma è un’altra cosa. Il Collegio ha subito varianti e cambi di proprietà e destinazioni d’uso che si tagliano con la storia di Tropea e dell’Italia. Possono essere oggetto di ricerca, con tutte le implicazioni anche recenti per le quali nel nostro comune non si trovano i documenti. Esso costituisce, dopo il complesso -Duomo, Episcopio, Seminario- la fabbrica migliore di Tropea, avendo subito pochi ritocchi. Il piano terra ha due livelli adeguandosi alla natura dei luoghi. Nel progetto originale non c’era il secondo piano di fronte a largo Di Netta e da questo innalzato ai primi dell’Ottocento. Prima era largo Municipio. Ad ovest della chiesa c’è largo Gesuiti. Perché non si è cambiato questo nome? Dov’è a Tropea largo o piazza Municipio? Lungi da me idee blasfeme ma piazza Municipio deve essere ripristinata: se il tempio di Marte divenne san Giorgio per allontanare un dio pagano, possiamo allontanare un Ercole, semidio pagano, chiamando la sua piazza Municipio ed il sedile Municipio Antico, senza far torto alla storia. Diversamente Tropea sarà la SOLA in Italia a non avere piazza Municipio. La fondazione dei collegi di Tropea, Monteleone, Amantea e Paola fu dovuta alle cospicue elargizioni di feudatari e facoltosi cittadini. -Nell’Archivio Romano della Compagnia di Gesù è conservata una pergamena con il testamento dei due fratelli tropeani, i nobili Marcello e Claudio Tavuli, che nel 1599 lasciarono i loro averi ai Gesuiti di Napoli perchè aprissero un collegio a Tropea. Il vescovo di Tropea, Tommaso Calvo, nominato esecutore testamentario, prese subito contatto con il rettore del collegio di Catanzaro e poco dopo, sollecitato da una delegazione di cittadini, il padre provinciale diede il suo assenso all’apertura del collegio, che incrementò le proprie sostanze con i lasciti di privati, come quelli di Quinzio Bongiovanni nel 1612, di Faustina Fazzari, Carlo Crescenti, e Giuseppe Calzerano qualche anno più tardi-. Al momento a Tropea c’è largo Calzerano e su di esso prospettano i palazzi Fazzari e Bongiovanni dove la strada Lepanto confluisce nella strada Vianeo: forse non è un caso. Il suo progetto, mirato alla funzione da svolgere, fu redatto dallo stesso architetto gesuita Quercia: Architetto e Principe nella stessa persona. Non c’erano problemi di finanziamento o stati di consistenza per erogare i pagamenti e l’opera avanzò veloce. Per problemi di confini e simili tra gli occupanti il collegio, prima i Gesuiti e poi i Redentoristi, con entrambi i confinanti sulla rupe, è sorta la leggenda di maledizioni che si sarebbero concretizzate. La verità è un’altra: da entrambi i lati del collegio gesuitico c’era un’ampia ripa pubblica per ventilazione igienica e veduta: le liti sorsero per la chiusura abusiva di tali spazi come avvenne per tutti gli altri, quasi fossero res nullius. Tra palazzo Giffone ed il collegio (palazzo s. Anna) c’è un cancello di ferro, datato 1833, che -di tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude-. Ma chi arriva non vuole immaginare -sedendo e mirando-, ma affacciarsi e scrutare l’infinito fino a capo Suvero ed oltre. Se poi tanta visione lo induce a ringraziare il suo Creatore ha un altro problema più grave: sulla data riportata, 1833, c’è segnato in ferro battuto: C N (Chiesa dei Nobili). Ad essa si accede soltanto con la carta elettronica che segnala la presenza di sangue nobile nel catecumeno. Diversamente scatta l’allarme. Consiglio a tutti di presentarsi con la carta del DNA, come quella del bancomat. Per tale motivo è pericoloso avvicinarsi al solo cancello che chiude una ripa pubblica come risulta dalla cartografia ufficiale prima di quella data. Ad ovest è successa la stessa cosa. Circa trent’anni fa il consiglio comunale svolse un’indagine sulle ripe chiuse: si concluse con la farsa. Si domanda a tutti gli amministratori passati, presenti e futuri di Tropea a chi appartiene e con quale diritto positivo lo scoglio san Leonardo. Negli itinerari -mitici- offerti ai turisti come allocchi da abbagliare, la sede di Calipso viene indicata su ogni scoglio del Mediterraneo a seconda del compilatore o del committente. Quando nelle vicinanze da esaltare non c’è traccia di isole si dice che l’isola è scomparsa. Noi non dobbiamo mentire: -Dinanzi a Tropea dalla parte del mare vi ha due scogli, detto l’uno S.Leonardo, l’altro l’Isola. S. Leonardo e l’Isola, seccondo l’Autore, son l’Insulae Ithacensae, seu Ithaci nempe Ulissis, sebbene credasi, che queste siano al di là di Zambrone. S.Leonardo è circondato tutto dal mare; sopra vi son vestigia di un edificio che per tradizione si crede la chiesa di S.Leonado; il piano si coltiva; vi era un ulivo che produceva. Appartiene al convento di S.Isidoro, e il prebendatario Abate Giuseppe Grilli il diè ad enfiteusi ad un certo Domenico Ferro, il quale dal convento di S. Francesco di Assisi con funi e canne condusse l’acqua da innaffiarlo-. Lo scoglio-isola-Ogigia lo abbiamo, mettiamo sopra Calipso come premio al turista più fedele a Tropea da almeno cinquant’anni. Per sette giorni e non per sette anni. Con la raccomandazione di non tagliare l’ulivo per fare il letto, la permanenza è provvisoria e ci sono gli anfratti: per l’acqua provvederà la solita cannuccia, per i pasti pregheremo le -Roccette- in quanto sponsor. Se durante la provvisoria luna di miele essi sentono vibrare lo scoglio sappiano che gli Amanteani stanno cercando di tirarlo invano dinanzi alle loro coste con una corda di pelo. Ma se sentono vibrare un martello pneumatico diano l’allarme per non essere trasformati nella -carcara- in calce viva. Con tutto quello che si vede in certe manifestazioni da noi pagate l’idea non è strana. Al di là di Zambrone: escludendo lo scoglio della peschiera di fronte a S.Irene, restano le Insulae di Dino e Cirella che possono rivendicare il titolo di Ithacensae. Ma non faremo la guerra: il titolo spetterà a chi farà trovare sopra la più bella Calipso. Prima di lasciare lo scoglio per spostarci più avanti desidero –rivelare– ai Tropeani una finezza archeologica inserita nello stesso a sud est. Intagliato nella roccia, a livello dell’asfalto c’è un emiciclo di cui appare la parte più alta e forse si abbassava ad anfiteatro fino a livello del mare quando occupava gli spazi ricordati. Alla archeologia non manca il lavoro in questo paese. Dopo il Sedile per discutere di carta e di penna, dopo la chiesa esclusiva con scranni di lusso, l’emiciclo sedile era il lido balneare riservato ai nobili e riferiremo i discorsi da spiaggia che qui tenevano. Con il tempo il mare lo interrò e si era persa la memoria. Senza sarcasmo può essere un luogo da visitare e scavare per vederne la fattura. Seguono poi verso sud i palazzi Parisi, Adilardi, Mottola, Gabrielli. Edifici sulla rupe che un tempo erano separati da un piccolo spazio pubblico. Finalmente si apre la villetta di Eliano. Come vedremo qui si arrivò alla fine dell’Ottoccento partendo dalle mura a sud alla fine del Settecento: lento pede, tra un terremoto e l’altro si rimediò ad un problema e se ne crearono altri. Dopo tale affaccio c’è palazzo Barone e segue il monastero di S. Chiara che si dice fondato nel 1265. Esso ospitava le nobili vergini mentre più tardi (1600) per le vergini nobili fu costruito il monastero di santa Domenica a sud della chiesa di san Giorgio. Nobili vergini erano le figlie dei patrizi che dovevano farsi monache,vergini nobili erano le figlie degli onorati con lo stesso destino. La chiesa di santa Chiara fu rovinata con adattamenti stravolgenti, segno di disprezzo per la storia e l’arte. Dopo un altro palazzo di recente restaurato segue la chiesa della Madonna della pietà e dei sette dolori divenuta S.Giacomo dopo la demolizione di questa in largo Calzerano. Il convento annesso fu oggetto di maneggi infiniti tra Ottocento e Novecento per come risulta dagli atti comunali: finchè finì in appartamenti per vacanze. Da quel momento credo che la Madonna abbia non Sette ma Settantasette dolori. Le grate in ferro sulla via Abate Sergio indicano che lì c’era il carcere della Pietà per i reati civili,distinto da quello per i reati criminali.Prima c’è un obbrobrio post moderno di fronte all’isola: si controlli che cosa è stato occupato di suolo pubblico e di ripa e se con diritto da parte di coloro che hanno l’onore del titolo di una via.Già nel 1846 il Decurionato si era occupato dell’occupazione abusiva di tale ripa e della Pietà da parte di privati per ristabilire i diritti pubblici di ventilazione ed affaccio qui come altrove usurpati. Tutto da rifare, anche la toponomastica. Dopo la casa di Carità rimane intatto un vero gioiello della Tropea antica: l’unico forno sopravvissuto nella struttura originale. In effetti dentro la fabbrica vi sono tre forni in linea con l’aspirazione unificata dei fumi verso un unico fumaiolo ancora eretto sul tetto. Non credo sia facile in Calabria ed anche fuori trovarne uno eguale. Un intervento di consolidamento e restauro non dovrebbe tardare. C’è il rischio di implosione e deterioramento irreversibile. E’ un monumento di tecnica e di vita cittadina: vedremo dopo dove erano gli altri forni. Da questi paraggi con una corda tesa fino al sagrato della chiesa dell’Isola veniva fatto arrivare agli eremiti il necessario a cominciare dal cibo. Una –sceneggiata- che ripeta la scena con il forno acceso ed il fumaiolo –fumante- potrebbe diventare una –rivisitazione- interessante con lo svolgimento dei riti in costumi d’epoca sul sagrato stesso magari in occasione del XVII° secolo anniversario del martirio di S. Domenica. Nel 1903 il vescovo Taccone-Gallucci,di origine militese e cultore di studi sulla santa, promosse a Tropea una grande manifestazione civile e religiosa. Al momento non pare che in questo paese si muova qualcosa: si ricorda che il turismo religioso in Italia è quello che non conosce crisi. Dopo il forno si apre la villetta grande un tempo postazione a difesa di Porta Vaticana. In essa confluisce via Indipendenza lasciando a sinistra Palazzo Gabrielli al quale è unito un fabbricato più basso che, lato ovest con finestre, continua le mura fino alla via stessa. Esso non è altro che l’antico carcere criminale della Bardura che stava appunto dietro le mura ad occidente.-La Curia Vescovile di Tropea ha avuto tutte quelle vicende che hanno avuto le altre Curie.Ha avuto le sue cause criminali,le civili,le miste.Ha dei de’Vassalli ha le carceri criminali fatte da Bordura, ha le carceri civili dette la Carità. Di più nelle catacombe (dice il Campesi) del palazzo Vescovile vi era un luogo di carcere detto la Flemma. In questo egli si ricordava di essere stata posta una certa donna per maleficii veneficii e superstizioni; dopo molti anni costei fu trovata gravida, e fu finto che fosse fuggita. Ad un certo punto i ruderi del carcere Bardura ,accanto a palazzo Gabrielli, ed entro la cerchia delle mura da poco demolite, furono richieste,con regolare istanza,dalla stessa famiglia che espresse in Tropea, e per tante volte ,il sindaco. Inutile dire quanto oggi quello spazio sarebbe stato utile alla città con le altre aree che fecero la stessa fine. Insisto su questo perché tale vocazione di regalare –per il pubblico bene – i suoli pubblici preziosi non è mai venuta meno. Alla fine dell’Ottocento risultava in condizioni precarie e fu ceduto al conte Pasquale Gabrielli che appunto era confinante. Nelle deliberazioni del nostro consiglio comunale un’operazione del genere viene sempre presentata in forma melodrammatica con una ouverture degna di miglior causa e non di speculazione immobiliare. Verbale del consiglio comunale n.44 del 1892: Ordine del giorno: Istanza Conte Pasquale Gabrielli per acquisto ruderi carcere Bardura. Un Gabrielli era stato sindaco dal 1844 preceduto da Annibale Teotino i cui eredi abitano ancora nello stesso disastrato palazzo(come tanti) all’inzio di via Boiano verso largo Galluppi. Ad illustrare l’istanza ci pensa l’assessore Tranfo essendo il sindaco impedito.Ognuno di voi signori consiglieri che si reca al sito di questa città,detto la villetta,e tutti noi ci andiamo, per volgere lo lo sguardo alla sua diritta e mira qull’incantevole orizzonteche si presenta, solleva per fermo l’animo del Cielo, per rendere grazia a Dio che l’ha fatta nascere con la natura sì maestra bella e maravigliosa ma se poi si guarda a sinistra, mortificato conviene che l’arte per quanto riguarda la parte estetica, lascia a desiderare. Infatti che si vede? Dei ruderi di un carcere da dieci anni demolito, i quali deturpano la vista non solo, ma fonte di reale pericolo per coloro che transitano quella località essendo la maggior parte sospesi,senza pedamento. Presto il Municipio sarebbe nell’obbligo di riparare tanta sconcezza con l’onere di centinaia di lire,come più volte ha deliberato. Ora siccome questi avanzi di fabbrica crolladoda loro verrebbero a danneggiare il palazzo del conte P. Gabrielli ,poiché la strapiomberebbero con essi l’angolo della facciata prospiciente a mezzogiorno, come di già si veggono delle lesioni non piccole,….- Dal cielo alla terra ,anzi, alle pietre il passo fu breve: Quanto richiesto fu ceduto gratis con una partita doppia: le pietre di risulta, le spese di demolizione ed il suolo eguagliavano in valore quanto il Municipio avrebbe dovuto spendere per provvedere alla rimozione dei –ruderi-. Nel secolo XX° si passò alla pratica del prezzo simbolico continuando a costipare la Città ed a concessioni che di fatto sono alienazioni. Il terremoto del 1783 devastò la Calabria Ultra: le conseguenze si ebbero non solo non solo all’ìntensità del sisma, ma anche per il sito dei centri abitati in pendii scoscesi, costruzioni con criteri e materiali non adatti e talmente accostate da cadere una sull’altra, precludendo le vie di scampo per mancanza di strade e piazze. Fu una catastrofe che si appalesò meglio col tempo. I soccorsi da Napoli furono lenti e simbolici di fronte all’apocalisse. Non c’erano strade e porti per muoversi. A Tropea i danni furono relativi in rapporto al numero di abitanti ed alla struttura del tessuto urbano. Per rendersi conto basta osservare la pianta della città al 1783: viuzze e vicoli senza larghi o piazze. Sarebbe potuta verificarsi una ecatombe. Ci furono venti morti ma solo come conseguenza indiretta. Ma i danni non mancarono, diversi edifici pericolanti ed una città a gravissimo rischio anche per la sua costituzione. Molti palazzi progettati a due o tre piani fuori terra, erano stati, prima del terremoto, sopraelevati –abusivamente – senza verifica di carico o stabilità. Quali di essi è facile distinguere con attenta osservazione. Il problema è che tanti manufatti e per la forma del loro appoggio, stretto e lungo, e perché prospicienti da tutti i lati su angusti vicoli, costituiscono oggi maggiormente una trappola pericolosa che può bloccare la via di salvezza in caso di pericolo. C’è una emergenza in via Aragona: un alto muro di edificio dirupato sta per crollare con grave danno a persone e cose. Per problemi di prestigio le famiglie patrizie non volevano uscire dalla casa degli antenati, mentre nei bassi tuguri si ammassavano migliaia di persone. I larghi rimasti erano stati occupati da corpi posticci o da piccole chiese divenute parrocchie. Nelle sole mura urbiche erano costipate oltre 5000 persone: il numero di abitanti della sola Tropea era stato sempre di un terzo rispetto al numero complessivo con i Casali. La scampata catastrofe umana costrinse a pensare al riparo con una verifica della stabilità ed un’opera di profilassi urbanistica. Non sarebbe stato quello l’ultimo terremoto. A Tropea arrivò l’ingegnere Ermenegildo Sintes e preparò un piano di intervento sulla struttura della città ai fini di un minimo di vivibilità e per metterla in sicurezza di fronte ad altre ipotesi di emergenze, fornendo una valida via di fuga: Portanova con tutta la piazza derivata dallo spiano del castello e dall’area antistante,sventramento sud –nord, demolizione degli edifici pericolanti già prima del terremoto, sbassamento di quelli troppo alti rispetto alla larghezza delle strade o che ingombravano inutilmente piazze di fatto prima usurpate. A parte il terremoto, in caso di incendio neanche oggi sarebbe possibile intervenire in tempi e modi efficaci. Tanti erano i problemi gravi e secolari sotto ogni aspetto ed il terremoto li aveva solo evidenziati, aggravandoli. Uno li riassume tutti in quel momento: come e dove dare la possibilità di riedificare le città da spostare assolutamente, come tecnicamente creare condizioni di sicurezza minime in quelle da conservare anche per valore artistico. Tropea era in particolare uno dei centri da salvaguardare. Il Sintes si rendeva conto che le demolizioni erano necessarie in Tropea e che metà degli abitanti doveva uscire verso sud –ovest. Ma tutti respingevano l’idea ed anche chi stava in condizioni - immonde nei tuguri con animali sotto il letto- riteneva per plagio di mentalità, disdicevole una casa extra moenia. Ma vedremo che la mentalità su tutto la fanno soltanto i soldi: quando a Tropea ci furono causarono una rapida mutazione di pensiero ed aspirazioni a lungo represse dalla situazione politica-economica interna. Nell’Ottocento si continuò ad operare sui suoli interni e su ciò che aveva offerto la Cassa Sacra di edifici da riattare. In tale direzione avvennero gli investimenti oltre che qualche risalita dal tugurio al piano ammezzato. Tropea era sempre sovraffollata come un quartiere spagnolo a Napoli o Palermo. Tali aspetti in generale per tutta la Calabria sono stati affrontati da studiosi con impegno civile da pionieri in archivi disastrati che, ordinati, andrebbero tutti in generale messi in rete: sarebbe questo una enorme spinta alla ricerca, è assurdo ormai per vedere una carta doversi recare lontano con difficoltà di ogni genere. A Tropea le carte delle famiglie sono disperse per l’Italia o qui chiuse in casse per le carie dei libri: si nega la visione quasi temendo la rivelazione di segreti pericolosi o vergognosi. Il finanziamento per le necessità del terremoto doveva avvenire tramite la Cassa Sacra. Il primo compito fu affidato in larga prevalenza a tecnici venuti da Napoli (per Tropea diretti dal Sintes). La Cassa Sacra doveva finanziare le opere attraverso la vendita dei beni di tutti gli ordini religiosi della Calabria Ultra delimitata a nord poco più avanti di capo Suvero alla foce del Neto. I Gesuiti erano stati espulsi già dieci anni prima da Tanucci sotto il pensiero di Giannone e per questo il Vescovo di Tropea tra Ottocento e Novecento lo definisce -famigerato-. Tutta l’emergenza era coordinata dal principe Pignatelli da Monteleone, Vicario Generale, con poteri assoluti. Primo grave errore. Come i commissari nominati di recente per il Belice, l’Irpinia ed il Friuli. Per abbreviare, in questi fogli almeno, si anticipò lo scandalo -o la normalità- di quanto avvenne nei terremoti del Belice e dell’Irpinia, per sentirci ripetere dal Friuli: = Qui le cose si sono fatte bene =. La ricognizione del territorio fu per i tecnici un compito difficile per mancanza di strade (di fronte alla carta stradale della Calabria anche dopo i terremoti del 1905-8 si rimane increduli), ma i progetti redatti con sollecitudine. Il censimento dei beni spettanti alla Cassa Sacra e la sua gestione di fatto finì, quasi sempre, nelle mani dei notabili locali tra infiniti liti e favoritismi. Tra infiniti raggiri truffaldini i beni finirono svenduti nelle mani di profittatori che risposero al disastro controllando le aste di fronte alla candela -accensa-, anche con la violenza. L’amministrazione della Cassa Sacra si profilava più gravosa degli incassi e fu sciolta. Le alterne ripercussioni della rivoluzione francese nel Regno di Napoli segnarono anche il destino alterno di quei beni, almeno quelli ecclesiastici. Il tema sarà ripreso dopo l’Unità d’Italia ed il concordato. La mancanza di fondi condizionò gli interventi sul territorio. Per comprendere il piano della = Pianta di riforma della città = di Tropea preparato ed in parte eseguito dal Sintes, per il fine accennato, basta esaminare la pianta topografica prima del 1783, quella preparata dallo stesso, e quella conseguente ai suoi interventi di fatto, prima di essere defenestrato dai nobili e dagli onorati di Tropea. La sua opera di demolizioni e risanamento aveva scatenato i loro appetiti sui beni immobili dei religiosi e sugli edifici dismessi del Comune, con annessa area, che di fatto con poca spesa passarono a loro. Essi pretendevano, in cambio di edifici da demolire e fatiscenti già prima ,i fondi ed i beni della Cassa sacra accusando il Sintes di sopravvalutarli rispetto a quello che essi perdevano. Con le demolizioni si creavano ampi spazi entro le mura che il Sintes riteneva indispensabili restassero a suolo pubblico, per la messa in sicurezza della città. Se poi si controllano i componenti del consiglio comunale ed i benefattori di turno ed i vari sindaci non c’è bisogno del decoder, ma si vede in chiaro il gioco. Tra le carte della Suprema Giunta di Corrispondenza (SGC) 11/171 di Napoli tra l’altro vi sono le istanze dei patrizi e degli onorati della città (1788), per liquidare Sintes. Era appunto considerato disdicevole, per nobili ed onorati, trasferire la loro dimora fuori dalle sacre mura ed i suoli dentro erano preziosi. Di fatto il Sintes fu in parte bloccato. Venendo in contrasto con Diego Pignatelli, fratello del Vicario Generale (Commissario Straordinario) ed altri, fu definito pazzo: titolo ancora generoso dato da sempre in Calabria a chi vede il male e cerca di riparare. Finita l’esperienza francese si andò alla conquista dei suoli liberi per avvenuta demolizione e degli edifici religiosi da -ridurre a casa particolare-. La caccia è ancora aperta anche negli spazi che erano stati previsti fuori delle mura. Ancora oggi con vari trucchi si continua a sopraelevare dentro il centro sfigurando e chi chiede dove vuol dire che è cieco o gli hanno tappato gli occhi. Chi ha paura del lupo non attraversi la foresta. Il Sintes è il primo progettista di una nuova -forma- della città ed il -Principe- lo neutralizza ed allontana perché non piega il capo ai suoi voleri che guardano al profitto e non all’uso del territorio per l’uomo che deve convivere con tutti gli eventi naturali e tragici prevedibili. La sua azione fu in gran parte vanificata: tutta l’area annessa al castello, a destra di Porta Nova fu chiusa e riedificata: anche se ad essa si pervenne non con –dubbio-ma anche eventualmente certo diritto formale, i luoghi non dovevano essere modificati. Ma chi parlò per tale circostanza di -dubbio diritto- non si comportò meglio con i suoli pubblici. A sinistra di Porta Nova verso il 1870 cominciò un’altra opera ancora assurda sempre condotta -per il bene del paese-. Coloro che per secoli si erano appropriati delle ripe pubbliche chiudendole, togliendo la ventilazione ad una città costipata, ora scoprono che le porte e le mura a sud tolgono la ventilazione alla città. Affermazione che sa di malafede, ignoranza, spregio della storia civile ed urbanistica e della cultura di Tropea alla quale fino a quel momento si erano richiamati. Ritengono, con animo angosciato, che la visione del ponte levatoio col suo bastione, della torre bassa aragonese, le stesse mura e la porte turbavano come mostri i sogni dei loro pargoli. Alla loro vista venivano i brividi -un patir d’antico e di retrivo- per ciò che era stato il vanto e l’attrazione che avevano costituito la potenza di Tropea e per la quale i loro antenati avevano scelto di stabilirvisi quasi da turisti pionieri. Con questa visione onirica si dovrebbero dovunque demolire gran parte dei monumenti e delle antiche mura superstiti in Italia. Per avere un’idea del danno architettonico,storico,culturale scientifico, d’immagine arrecato a Tropea da costoro, si guardino le antiche stampe che presentano tale visione in un sol colpo d’occhio dalla villetta del cannone a sud est del Castello. Anche se le mura ed il resto non servivano più per la difesa non era necessario abbattere. Si vanificò anche qui l’opera di bonifica del Sintes costipando con nuovi manufatti la città. Attraverso il riempimento operato a Porta Vaticana si avviò regina Margherita fino a Porta Nova che, colmando il terrapieno, fu collegata alla strada per Pizzo a sinistra e per Monteleone verso la collina. Al loro incrocio sorse la chiesa di S. Michele (Purgatorio), quando quella del Rosario divenne parrocchia. La conseguenza di tanto non è stata ben messa in rilievo. A Tropea -le nuove case adiacenti- a sud sorsero in numero limitato e senza ordine urbano e nell’area da lui disegnata per l’espansione solo negli ultimi cinquant’anni ci fu uno sviluppo avvilente. Tanto risulta dai pochi atti del consiglio comunale che si sono lasciati sopravvivere, la maggior parte scomparsi per incuria senza escludere il dolo. In particolare il Sintes aprì una breccia nelle mura a sud e abbassò in quel punto la cresta rocciosa, separando fino a palazzo Fazzari ed alla sede dei Domenicani i resti del castello dalla zona del rivellino a sinistra. Questi officiavano nella loro chiesa attualmente divisa tra S. Caterina e S. Giuseppe, confraternita). Nacque la -Porta nova-, ma non fino al livello di calpestio attuale raggiunto durante il periodo francese che diede il nome alla calata della marina. Tale area risulta libera in modo continuo fino alla villetta del Vescovato, occupata dalla Munizione che presidiava porta marina. Nella legenda si precisa: = Tropea con nuovi larghi e piazze, spiano di Castello ed apertura di nuova porta di città con nuove case adiacenti. D’ordine regio eseguito =. Si notino pure nella piantina tutte le altre aree libere create allora. Come e perché si è arrivati alla situazione attuale non si capisce, senza voler dire che senz’altro sia nata da illegittimità. Penetrando dal sud chiuso dalle mura ed isolato dal vallo profondo che andava da Porta Marina a Porta Vaticana, ad arco sul collegamento interno, bisognava sventrare in linea retta. Superando palazzo Fazzari, a destra fu demolito un manufatto tra lo stesso ed il Sedile ora felicemente ritornato alla comunità di TUTTI i cittadini. Ne riparleremo estesamente. Le attuali tre fontane sono un assemblaggio: i tritoni vengono dalla fontana monumento a Galluppi nello stesso largo sopra il sito di s. Demetrio demolito, mentre le conchiglie di granito raccoglievano l’acqua dei tre putti entro le tre nicchie al piano terra all’ingresso della Casa Comunale di piazza Ercole che aveva altre due fontane sui fianchi. Le tre conchiglie furono commissionate nel 1893 (Consiglio comunale del. n. 20). Il Sintes intendeva spianò tutta l’area del castello diroccato ed ormai inutile per farne una grande piazza senza demolire i resti del castello:non era un vandalo ed aveva risparmiato tutta la cinta muraria. Fuori dalle mura non si uscì fino a cinquant’anni fa. Verso il 1870, forse improbabilmente eccitati dalla breccia di Porta Pia, si riprese il prolungamento del corso con demolizioni fino all’attuale villetta di Eliano dove fu posta la ringhiera (che non è quella attuale) nel 1893. I dolori ed i contorcimenti di tale operazione si intravedono negli atti del consiglio comunale che operava, suo malgrado, in nome di V.E. Re d’Italia per Grazia di Dio e Volontà della Nazione. Suo malgrado: fino all’ultimo giorno l’Augusta Maestà di Ferdinando II ricevette elogi e lodi da parte dei nostri Affaticati. Nella delibera (1861) che nomina la delegazione da mandare a Napoli per rendere omaggio al nuovo re d’Italia si sente che è un atto dovuto, come quando fu accolto nella stessa Casa Comunale antica Giacchino Murat. Il cuore di alcuni nostri patrizi batte ancora oggi per i gigli borbonici quando li assale in delirio -dei dì che furono….il sovvenir!- Non ci fu un Cardinale Ruffo al quale i nostri baroni avevano mandato rinforzi ed aiuti, ma molti sperarono in un rientro borbonico date le esperienze secolari. Porta Pia li convinse che non era più possibile e metà dell’esercito nazionale inviato contro il -brigantaggio- li aveva assicurati che i loro privilegi erano intatti ed accresciuti dalla nuova vendita di beni comunali ed ecclesiastici sui quali si buttarono nobili e borghesi come ai tempi della Cassa Sacra. Tornando alle demolizioni si tagliò il monastero e la chiesa di S. Domenica fino all’attuale profilo est di palazzo Naso. Questo prospetta su piazza Ercole nella forma architettonica rifatta: furono congiunti i due tronconi con in mezzo il portone che immette in un irregolare pozzo luce con elementi di fabbrica originali. Arrivare all’affaccio fu un’operazione dirompente all’interno delle famiglie toccate: amministratori e proprietari erano spesso parenti e affini e ci furono strascichi da poco sopiti. Ognuno voleva allontanare da sé la linea di taglio a spese del palazzo di fronte. Ma il punto fisso erano gli spigoli di Porta Nova e la possibile oscillazione del pendolo era minima. Ci fu solo il completamento del corso: per il resto danni irreparabili. Da questa trappola non si voleva uscire e l’area nuova a sud ovest prospettata dal Sintes fu utilizzata lentamente sfigurandola. Nel corso dell’Ottocento ci fu a Tropea un fermo prolungato dell’attività edilizia ridotta al minimo per la stagnazione economica. La mancanza di denaro era determinata da vari fattori: gli investimenti della borghesia nei beni demaniali ed ecclesiastici, calo in verticale della rendita agraria. Questa ricevette un grave colpo dalla grave crisi della industria del vino che per le cause e conseguenze merita in seguito attenzione. A fine Ottocento il Comune di Tropea mise all’asta cinque lotti edificabili fuori Portanova lungo l’asse per la ferrovia che stava per arrivare. Si stabilì il prezzo di base nella speranza che -il calore dell’asta- a lume di candela, ne aumentasse il prezzo. La candela non scaldò il cuore dei compratori anche consumandosi tutta:l’asta andò deserta e si cominciò a vendere con trattativa privata e prezzo ridotto di un terzo. Tale stasi durò di fatto fino alla metà del novecento, mentre a Tropea migliaia di persone vivevano in condizioni spaventose che molti possono ricordare. Gli episodi edilizi degni di nota furono quello che si trova piazza su piazza Vittorio Veneto ed i palazzi Cesareo e Toraldo. Sul sito di quest’ultimo c’era il convento degli eremiti di S. Agostino Scalzi sotto il titolo di S.M. della Libertà nel 1616,(dai Ruffo ai quali è intitolato viale Stazione).A proposito di questo questo convento: -Privo di Padri come tutti gli altri,dopo il terremoto del 1783 fu poi dato ai Carmelitani,perché il proprio era in gran parte ruinato. restato infine soppresso,e ruinato,fu dato in censo a Don Antonio Toraldo,che, riducendolo a palazzo,occupò buona parte della strada-. Nel 1926 fu redatto un piano regolatore che interessava l’area a sud –ovest compresa tra via Libertà e viale Tondo fino all’incrocio con viale Stazione. Esso non determinò una ripresa edilizia per alleggerire la città. Oltre i motivi economici, dagli atti del podestà viene documentata l’opposizione irriducibile dei proprietari delle aree interessate ed i suoi appelli disperati al Governo perché intervenga a far uscire dal centro un popolo chiuso nell’angustia di una città sovraffollata e senza respiro. Fu di nuovo bloccato ogni intervento pubblico per avviare lo sviluppo fuori le mura nella Contura. In questi casi si misura la qualità del -Principe e dell’Architetto-. La res publica prima di tutto, la deontologia professionale prima di tutto: rara temporum felicitas! Fin oltre la metà del Novecento nel -Piano regolatore- che non ha regolato niente, pascolavano le pecore che facevano dal Poro un weekend di transumanza. Nel dopoguerra si verificò la situazione attuale. Edifici con ogni forma e dimensione senza decoro e funzionalità riversano sulle strade i servizi, i costi e disagi che tutti lamentiamo. Buona parte di tale area fu destinata ad edifici scolastici senza parcheggio, con sviluppo orizzontale ripetitivo che deprime la zona meritevole di migliore aspetto in rapporto alla sua posizione come diretto prolungamento del centro storico. Nel 1965 fu redatto un piano regolatore e portato all’esame del consiglio comunale. La vicenda di questo -piano- che, si precisa, non fu mai approvato, è la dimostrazione elementare per tutti di che cosa c’è in gioco quando si tratta di dare, in base a scelte determinate da molti fattori, una destinazione vincolante al territorio a misura d’uomo.Quanto riferito corrisponde esattamente alla verità dei fatti riscontrabile negli atti del Consiglio comunale e delle planimetrie allegate e tutti possono prenderne visione. I progettisti erano due e redassero un piano regolatore che sarebbe stato era il terzo dopo quello del 1926. La sua presentazione al consiglio fu accolta con plauso per la valenza delle previsioni di sviluppo civile ed ordinato della città, valide per un lungo periodo. Alcuni consiglieri si espressero con lodi sperticate. Brutto presagio. La maggioranza si riservò -qualche ritocco- da suggerire (leggi imporre) per l’approvazione in Consiglio comunale. I ritocchi operati dietro le quinte dal Principe avevano stravolto le previsioni ed al consiglio comunale, da esso controllato, arrivò un mostro di vergogna che si voleva approvare. I responsabili presenti in Consiglio stavano a testa bassa tentando una difesa d’ufficio, essi erano i manutengoli del Principe che stava fuori. La redazione originale era partita dall’idea di un piano che prevedeva la realizzazione di un lungomare dal Carmine al Campo per farne un panorama continuo. Poi cominciarono i contorcimenti che si trascinarono per cinque anni durante i quali tutto fu stravolto. Si faceva finta di portare avanti il PRG e si introducevano soluzioni provvisorie che lo vanificavano. Smentivano oggi quello che avevano approvato e difeso ieri. Lasciavano deliberatamente ferma la procedura del piano per continuamente adattarlo ai desideri degli amici elettori o proprietari dei suoli o dei committenti che operavano sempre -per il bene del paese-. Si discusse per cinque anni in consiglio comunale durante le alterne maggioranze e forse non mancò la malafede di arrivare al fallimento del piano, proprio per avere sempre le mani libere. Eravamo all’Opera: si intonavano le cantate alla -Casta diva Tropea-, come nel 1892, che pur meritava uno sviluppo che salvaguardasse per tutti le naturali prerogative di bellezza. Per una storia urbanistica di Tropea si prepari, in modo ordinato, una esposizione di tutti gli atti elaborati dal dopoguerra ad oggi e si verifichi come hanno contribuito al disastro proprio coloro che in consiglio facevano le cantate. Alla fine fu mandato al Ministero competente un mostro di PRG, rifiutato da uno dei progettisti che in esso non volle riconoscersi. Dopo il Sintes egli fu il secondo che di fronte al Principe difese col rifiuto di avallo la propria dignità professionale di Architetto. Aspettiamo il Terzo se sarà necessario. Il PRG così stravolto fu bocciato dal Ministero dei LLPP. Poi seguì la legge ponte e più tardi un piano di fabbricazione che fu un altro disastro. La giurisprudenza locale decretò che esso era soltanto indicativo e non vincolante ai fini delle sua operatività. Allora le aree degli amici e della corte del Principe divennero tutte edificabili anche ai fini elettorali, ignorando strade, piazze, pargheggi, scuole, e tutto ciò di cui oggi sentiamo la mancanza. Si controllino le tavole di quel piano con la loro destinazione ed il loro destino effettivo. La loro edificabilità era aleatoria e legata al possesso e non ad una norma vincolante generale. Si esasperarono i cittadini non legati al Principe spingendoli spesso all’abusivismo per necessità. Quando nelle cronache italiane sentiamo di atti inconsulti consumati dentro la sacre mura della Curia da cittadini esasperati, la condanna non cambia la situazione, se non si ha intelligenza di che cosa sta a monte. Il ricorso per via giudiziaria in queste cose lascia il - tempo- che trova. Si sovrapponga il piano di fabbricazione del 1976 alla situazione di fatto ai primi del 1990 e tutto diventa chiaro. L’amministrazione di Tropea si era specializzata nella costruzione di autodromi per la formula 1: da viale stazione per arrivare al Carmine in meno di cinquecento metri ci sono sette curve pericolose, niente impediva poco tempo fa una uscita agevole in quella direzione in più di un punto. Gli autori di tali scempi hanno ancora il coraggio di esibirsi candidati -per il bene del paese-. Da dieci anni a questa parte segue un periodo di quasi stasi almeno nelle aree non governate da una norma certa. Ma questo può provocare un’altra esplosione incontrollata . I tentativi di redigere un piano regolatore fallirono tutti perhè la situazione di fatto vanificava ogni ipotesi. Scaduti i termini previsti dalla legge il nostro glorioso Comune, sempre geloso della sua indipendenza, vide affidare il compito ad un commissario regionale in una situazione amministrativa di fallimento che ognuno scarica sull’altro. Dopo molti travagli nella sala di disegno e con parto cesareo nel 1998 venne fuori il nuovo Piano Regolatore Generale del Comune di Tropea. Non restano ormai che 100.000 mq. di superficie da gestire. Dal loro uso o abuso dipende il destino di Tropea. Basta guardare il territorio dall’alto e ricordarsi che la esile striscia dall’appicco al tracciato della nuova strada all’inizio della collina, dovrà reggere tutto il traffico di una zona costiera da Pizzo a Nicotera sempre più in aumento. Tale striscia è in gran parte satura di edifici a scacchiera per cui è assolutamente necessario salvaguardare tutti i possibili nuovi tracciati paralleli alla strada ricordata ed alla provinciale Tropea –Spilinga. Per entrambe è urgente predisporre una distanza adeguata alle eventuali nuove costruzioni. E’ meglio cercare sviluppo in una media altezza degli edifici che nella limitazione della loro distanza: questa si traduce in angustia degli spazi di servizio: strade, verde, piazze e parcheggi. Bisogna produrre norme precise per cui ogni insediamento abbia autonomia interna a tali esigenze. La prima strada deve restare a scorrimento veloce senza essere menomata da attività che la trasformino in parcheggio. La seconda deve sopportare l’enorme traffico turistico locale per agevolare la prima ed ha bisogno delle stesse salvaguardie. Allo stato dei fatti non è impossibile raddoppiarla per evitare che diventi un vicolo come Viale Tondo. L’esperienza orrenda della antica via Popilia nell’attrversare Pizzo e Vibo Valentia deve indurre Tropea a non cadere nello stesso errore urbanistico. Dal riguardo dovuto a queste due strade deriva la necessità di realizzare le altre di piano ad entrambe parallele, salvo lievi modifiche per la situazione dei luoghi che cambiavano di fatto mentre lo stesso PRG veniva con travaglio redatto. Bisogna evitare che per muoversi dentro il futuro sviluppo urbano si impegnino le strade di scorrimento. Chi dovrà decidere tenga almeno presente tale aspetto. Una strada panoramica sull’appicco, esclusivamente pedonale, deve offrire la fruizione a tutta la zona intorno a Tropea. Essa deve cominciare dalla provinciale per Ricadi alla sinistra del torrente Vicce lungo tutto il bordo fino a Riaci, senza soluzione di continuità. Da Riaci seguendo il lato sinistro dello stesso torrente verso monte e passando sotto il ponte ferroviario, alto e largo, può innestarsi alla 522 chiudendo un territorio con alternative di percorso. I terreni prospicienti il mare debbono avere destinazione turistica e tipologia adeguata alla strada di bordo. Si possono introdurre le procedure per liberare il territorio dal vincolo della lottizzazione imposta dal comparto. Entro ognuno di essi c’è una proprietà talmente parcellizzata e compromessa che difficilmente si arriverà alla conclusione. Non tenerne conto è demagogia giuridica. L’ intervento del Comune per sostituirsi ai privati inadempienti è auspicabile solo con sicurezza di tempi veloci che per vari motivi non si intravedono. Il cittadino si lamenta per mancanza di infrastrutture ma queste le auspica sulla proprietà altrui per valorizzare la propria. Quanto auspicato ferme sempre restando le aree da cedere al Comune evitando al massimo la monetizzazione. Le volumetrie esistenti non possono gravare sul terreno di chi è estraneo di diritto e di fatto alla loro consistenza comunque realizzata. Da via del Soccorso alla Grazia è ancora possibile migliorare la strada che porta a Parghelia ed alla 522. E’ un’opera essenziale per alleggerire il raccordo sopra la ferrovia. La presenza di una ferrovia a tal fine è un ulteriore problema per l’alleggerimento di strade alternative. Può darsi che che quanto auspicato sia definito utopia, allora è inutile redigere previsioni urbanistiche se ad esse non si crede o se si cede alle pressioni varie che le stravolgono . Qui il problema consiste, partendo purtroppo dal consolidato, di definire una Tropea che riacquisti caratteristiche di POSSANZA per un lungo periodo. Essa può essere ripristinata soltanto usando a tal fine l’antico centro ed il territorio ancora non compromesso. Quei fattori naturali che segnarono il prestigio e l’attrazione di Tropea per oltre mille anni, oggi, ai fini di un’attività turistica prolungata, non hanno più valore se non vengono inseriti in un contesto adeguato che possa e sappia rifuggire dalla speculazione immediata (mordi e fuggi). La rocca consolidata in fortezza, il porto esclusivo quando mancavano completamente le strade, il Vescovato con enormi rendite qui impiegate, la presenza di tutti gli ordini religiosi, una produzione agricola variegata che soddisfava la città, la piccola industria e l’esportazione, oltre cinquanta mulini dalla Ruffa al Potame, i privilegi demaniali e commerciali avevano fatto di Tropea quasi una città-stato indipendente. Di questo se ne accorsero i cronisti tropeani (Crescenti-Sergio-Campesi) tra Seicento e Settecento, pur non analizzando la vita dei ceti poveri dentro le mura ed i Casali di Tropea. Solo che essi attribuirono in modo enfatico la POSSANZA ai nobili di Tropea sottovalutando che alla base di tutto c’era l’opera della natura efficacemente assecondata e valida fino a quando non cambiarono le condizioni politiche generali e la natura dei luoghi. Tante delibere negli atti del nostro Comune lungo l’Ottocento ed il Novecento, hanno per oggetto la banda musicale che si esibiva in piazza Ercole dove esisteva un palco fisso che si vede nelle foto dell’epoca. Un’altra rotonda simile era al lato sud di viale Tondo ridotto a vicolo. Essa era -a rota o tundu- ed a quella strada lasciò il nome .Ma tante delibere sono dedicate all’orologio della città, oggetto di culto e di devota cura. Quando non funzionava bisognava far venire da Napoli o da Messina il –maestro –per ripararlo. Non poteva restare -ozioso- o segnare e battere le ore in anticipo o ritardo. Lo reclamavano i -Trabagliatori- (non gli Alloborantes) per regolare la giornata del loro lavoro. Tanti a Tropea con le sue ore ed i suoi quarti regolarono i tempi e ritmi della loro vita. non sembri esagerato. Molti analfabeti non sapevano leggere l’orario ma riconoscevano l’ora dal tocco delle campane. Non potevano permettersi un orologio. Il maestro partendo da Reggio o Messina si fermava per manutenzione in ogni centro che avesse l’orologio di piazza. Si spostava con tutto l’occorrente (officina e ricambi) con la soma o carrozza e poi con la ferrovia. Poteva venire anche da Napoli ed in questo caso arrivava a Messina col vapore e risaliva come già detto. Alla fine, stanchi di riparazioni, fu fatta la torre campanaria attuale, quando era già sede della cultura tropeana, e si decise di acquistarlo nuovo, l’orologio. Eravano nel 1894. Si pubblicò la gara di appalto ed alla fine con motivazioni discutibili la vinse la ditta De Vita di Napoli e l’opera costò 2000 lire. Il De Vita era oriundo tropeano: l’amore per la sua patria di origine lo doveva indurre a -presentare un lavoro con cura e non smentì le attese. Il contratto in particolare prevedeva che il tempo venisse scandito in ore e quarti proprio per la sua funzione di servizio pubblico. Esiodo l’avrebbe inserito come elemento necessario per -Le opere e i giorni-. Si precisa anche il tono che dovevano avere le campane sotto il colpo dei magli per essere udito in tutta la città ed altri particolari: una delle campane pesa da 50 chili è fornita dalla ditta e scandisce le ore, l’altra più piccola scandisce i quarti ed apparteneva già al Comune. Forse era del precedente orologio o recuperata da qualche chiesa demolita o dimessa dal culto. L’organo-strumento di tale orologio è ancora sotto il campanile anche se di recente spostato. Dopo di che per ovviare alla ordinaria manutenzione con apposita delibera si diede l’incarico al sig. Gregorio Del Duce, altri seguirono fino a Caraia. Ora l’orologio è di nuovo ozioso da tempo e non si intravede soluzione.Segna sempre le sette e cinquantacingue: non sappiamo se si fermò di mattina o di sera. In altri tempi il suo fermo prolungato avrebbe sfasato la vita dei cittadini. Nella stessa condizione si trova a Tropea da tempo l’attività edilizia: si sviluppa malamente oppure è oziosa. Il Principe ha chiamato (speriamo per correggerla ed avviarla) un consiliarius aedilicius perché la metta all’altezza dei tempi e dell’urgenza. Ognuno è normale che abbia le proprie idee, anormalo sarebbe non poterle esprimere. A mio avviso, se il consiliarius aedilicius, come maestro orologiaio dell’edilizia tropeana, se non si muove con urgenza per ovviare al problema con gli obiettivi indicati, finisce col rendere l’orologio -ozioso- oppure gli fa segnare le ore sbagliate e bisogna allora comprare l’orologio nuovo e nominare un nuovo curatore. Detto chiaramente se deve continuare il disastro o l’ozio, bisogna cambiare Principe ed Architetto. Il buongiorno si vede dal mattino (in Italia), non lodare mai il giorno avanti la sera (in Germania). Preferisco in questo caso la Germania. Ma alla fine di una ragionevole giornata, non per lungo tempo. Poi si vedrà cosa pensano i cittadini cui spetta sempre l’ultima parola. Per avviare un nuovo lungo periodo di POSSANZA di Tropea bisogna aggiornarsi con la mente e con i fatti in tutto, tutto conservando nello stesso tempo. Primo: il centro storico non è fruibile se per raggiungere le spiagge bisogna usare l’auto. Esso deve diventare tutto un’attività ricettiva anche parcellizzata e specializzata nell’offerta non di un mese ma di lungo periodo per diluire le presenze. Se queste si concentrano in estate mettono in difficoltà tutti i servizi pubblici e privati. Due ascensori, per la Marina del porto e dell’Isola, potrebbero consentire a migliaia di persone di raggiungere il mare senza l’uso della macchina. Naturalmente bisogna entrare nell’ordine di idee che a tal fine la città è integrata con la spiaggia che si può raggiungere considerando a tutti effetti la stessa città un suo stabilimento balneare. Ciò consente ad una vasta utenza di arrivare a Tropea senza auto nel centro storico che potrebbe ravvivarsi per tutto l’anno ed essere recuperato alleggerendo la richiesta sul rimanente esiguo territorio che è necessario non per seconde case, ma impianti ricettivi nuovi come concezione uso. Qui si deve costituire un altro elemento di rilancio qualitativo. Le nuove attività ricettive devono all’interno essere autonome in rapporto alla loro capacità senza pesare sui servizi generali con lagnanze continue per problemi dovuti alla miopia iniziale. Dovunque possibile aprire un pubblico accesso al mare senza riverenza per alcuno. Su tutta la costa -degli dei- i semidei hanno chiuso o ridotto al minimo non utilizzabile gli accessi sempre praticati ed ha difficoltà di accesso al mare proprio il cittadino qui residente, per se o per gli ospiti della sua attività. Solo così, con la garanzia diffusa di fruizione delle spiagge, possono sorgere iniziative nel retroterra che non deturpano la costa. Questa non può essere chiusa da una teoria ininterrotta di cemento che il mare certamente sta inghiottendo. Questo aspetto continua ad essere sottovalutato dai Comuni, committenti e progettisti non so se per ignoranza scientifica o malafede, per lucrare sui contributi prima e dopo dei danni. E’ la realtà: è inutile fare stupida ironia! La costituzione in luogo idoneo di una biblioteca che partendo da tutto quello che si può reperire su Tropea, sulla Calabria ed il Mediterraneo antico, medievale e moderno in rapporto ad ogni aspetto, potrebbe essere un centro autonomo di interesse non solo per il turismo culturale, ma anche per tantissimi studenti della zona dai quali certamente si spera che emergano figure motivate e preparate ad una gestione del territorio e di tutte le sue risorse rivolte verso una qualità che corregga quanto avvenuto.
CONTINUA.......