LA FAMIGLIA
NEI PROVERBI TROPEANI

 

di Franco Aquilino


Come in ogni società di origine rurale che si rispetti, la famiglia quale di delinea nei proverbi calabresi (e quale è ancora oggi nella realtà di questa regione) è strutturata su basi patriarcali, diretta derivazione di quella romana imperniata sul potere assoluto del paterfamilias. A somiglianza della famiglia romana, quella calabrese appare come una cellula sociale autonoma in cui non bisogna ficcare il naso, tanto per cominciare:

           Tra mamma e figghi
           Non ci vo' cunzigghi
          (Quando discutono madre e figli,
           non hanno bisogno dei consigli altrui).

Così pure:

           Fra soru e frati
           No' v'intricati
          (Fra sorelle e fratelli,
           non vi intrufolate).

Anche perchè qualunque cosa succeda, non possono sterminarsi: il vincolo di sangua non lo consente:

           U sangu s'arrusti
            ma no si mangia.

Estranei alla famiglia sono considerati anche i parenti, sia quelli acquisiti che i consanguinei:

           'A nora, cacciala fora
          (La nuora cacciala fuori).
           Cu i parenti
            amaru cu si menti
          (I parenti
            meglio lasciarli perdere).
           I parenti sugnu i denti
          (I parenti sono i denti).
           I parenti su' nt'a cascia
          (I veri parenti sono i soldi).

I parenti sono quelle persone la cui unica ragione di vita sembra essere l'assegnazione dell'eredità, della tua eredità:

           Cu avi robba, a' parenti
          (Chi è ricco, ha parenti).

Nè è sconsigliato il matrimonio (Matrimoniu fra parenti, guai e turmenti).
Verso i forestieri, il trattamento è spartano; ammoniscono cupamente alcuni proverbi:

           A furisteri tagghia mani e pedi
          (Ai forestieri taglia mani e piedi).
           I furisteri frustali
        (I forestieri frustali).

A scanso di equivoci (o di querele) qui è il caso di fare una breve riflessione: nella realtà invece è risaputo lo spiccato senso di rispetto dei Calabresi verso i forestieri, un senso dell'ospitalità di stampo omerico: evidentemente questi ultimi proverbi sono l'eco di tempi molto remoti, quando forestiero equivaleva a nemico, effettivo o potenziale. Soli estranei tollerati sono i vicini che sono accostati... ai parenti (Vicinatu è mortu u parentatu), anche perchè Cu ti vo' beni, ncasa ti veni. Attenzione però: Cu ti sta dintra, o ti ncorna o ti scorna. Diventa arduo insomma regolarsi con i vicini! Ma torniamo più propriamente all'ambito della famiglia, che forse è meglio.
Qual è il ruolo dei genitori?
Intanto.

           A casa avi quattru cantuneri
             Dui o maritu, dui a mugghieri
          (La casa ha quattro cantoni:
             due del marito, due della moglie).

Quindi se ne dovrebbe dedurre che i coniugi esercitano uguali poteri nell'ambito familiare.
Più propriamente, però, la sfera della donna sembra ristretta al buon andamento della casa e alla cura specifica dei bambini.

           Casa stritta, fimmina mastra
           (La massaia dimostra tutta la sua abilità
             quando sa destreggiarsi in una casa piccola).
           A fimmina i bona rrazza,
             A cinquant'anni porta mbrazza
          (La donna di buona razza,
             A cinquant'anni può essere madre e nonna).

Il matrimonio in effetti conferisce un ruolo sociale alla donna, un vero e proprio status prima inesistente:

           A fimmina senza statu
             E' comu u pani senza levàtu.
          (La donna nubile
             è come il pane senza lievito).

Il marito è ritenuto fonte di ogni reddito: u maritu è nu mari. E' una concezione maschilista, si dirà: certo, pur non potendosi parlare di una vera e propria emarginazione della donna sposata (a differenza di quella nubile), non può d'altronde parlarsi di una vera e propria uguaglianza dei coniugi, principio del resto che solo da poco tempo si sta lentamente affermando nel costume dei popoli latini.
La famiglia è bene che sia numerosa (Megghiu riccu 'i sangu ca di dinari), marito e moglie non fanno una buona famiglia (Du' tizzuni non fannu focu) e non godono credito da parte della comunità (A genti senza figghi, no dinari e no cunzigghi).
E i figli? Su di loro c'è il peso della tradizione familiare che grava come una cappa di piombo, bloccando ogni iniziativa personale:

               Cu no ssenti a mamma e a patri
                 mori pi puntunati
                 (Chi non ascolta i genitori
                  muore agli angoli della strada).

S avverte in queste parole il sapore dell'anatema, la minaccia della maledizione per quei figli degeneri che non volessero ascoltare i consigli dei genitori, attentando alla sacralità della famiglia. Guai un tempo (oggi non si usa) ad essere maledetti dalla madre: cu li minni 'i fora, secondo un rituale di origine ellenica che consentiva alle medri di maledire estraendo le poppe alla luce del sole il latte incautamente dato alla prole fedifraga!

Se è vero che c'è un proverbio che dice: "Ammazzami e gettami fra i miei perchè anche da morto voglio restarvi", c'è da credere che siano stati i genitori a coniarlo. I figli hanno invece coniato un imperativo di significato diametralmente opposto:

                  Di toi fuji cchiù chi poi!
                  (Dai tuoi scappa il più lontano possibile).

E non si può dar loro del tutto torto.
L'idea del padre è a volte addirittura collegata a quella del padrone (toh, riecco il "padre-padrone" di leddiana memoria!) con un'associazione fin troppo scontata:

                   Patri e patruni
                     Annu sempri ragiuni
                  (Padre e padrone
                    hanno sempre ragione).

Ma tutto ha un limite e come una maledizione biblica interviene puntualmente il tempo giustiziere, che esautora ed emergina nella solitudine il vecchio patriarca:

                  A santu vecchiu
                    No s'ajuma lampa
                  (A santo vecchio
                    non si accende lume).

Dirà pateticamente il buon vecchio genitor:

                  Finiu pi mia ogni gioia ed alligrizia
                    Ca mi catti di manu la capizza
                  (Ho perso ogni gioia
                     dacchè mi son cadute di mano le redini).

E la morte, che ha già fatto capolino qua e là, interviene a dare il colpo finale, perchè:

                  Oji simu 'nfigura
                    E dumani 'nzipurtura
                  (Oggi in mostra,
                    domani sottoterra).

E sopravviene l'oblio:

                  O mortu requiemeterna
                    E u vivu nt'a taverna
                  e:
                  Cu' mori jaci
                    e cu' resta si da' paci.

Ma alla scomparsa fisica del singolo sopravvive la continuità della stirpe, e la trasmissione dei beni (ma non solo di quelli, anche dell'etica sottesa) si perpetua nel tempo, di generazione in generazione:

                  L'anima a Deu
                    e a rrobba a cu' resta
                  (L'anima a Dio
                    e la roba a chi resta).

E il cerchio si chiude.