Storia di un paese nato dal duro sacrificio dei massari dei Casali di Tropea
di Bruno Polimeni
Nel 1818 re Ferdinando I autorizzò un progetto di bonifica delle terre paludose di Rosarno, proposto dal Generale Vito Nunziante, finanziatore dell'impresa. Dopo che le campagne furono prosciugate e rese adatte alla coltivazione, accorsero in massa dai Casali di Tropea e dai villaggi del Monte Poro i contadini con le proprie famiglie divenendo i primi coloni di quella "Terra Promessa". Anche questa grossa trasmigrazione contadina fu favorita dal Nunziante, che a quei tempi teneva a Tropea il quartiere generale. Il Generale, che conosceva bene i contadini del luogo, esperti nella coltivazione della canapa, dei cereali, del lino e nell'allevamento del baco da seta, fu molto aiutato nell'intento dalla grave crisi che nel periodo 1815-1820 colpì la popolazione agricola di Tropea e di Capo Vaticano. A Rosarno, intanto il Nunziante aveva individuato, vicino al mare, la zona di residenza dei primi vanghieri, facendovi costruire 6 "casette". Di lì a poco, non lontano, realizzò per i massari che arrivavano numerosi un lotto di case con la Chiesa e poi un altro ancora. Altra brillante idea del Generale, che volle incrementare la mano d'opera, è stata quella di potersi servire, con il benestare del Governo borbonico, dell'opera dei condannati al confine nelle isole per delitti comuni o politici. E così nacque sulle terre risanate di Rosarno un vero e proprio villaggio, una vera e propria comunità. Ci furono i primi matrimoni, le prime nascite. Sorsero negozi e botteghe artigiane, scuole. Col tempo il villaggio diede il posto ad una grossa frazione e finalmente ai primi del novecento la trasformazione a Comune autonomo. Questa è la storia di San Ferdinando, che Bruno Polimeni nato in quella terra, giornalista e saggista di storia calabrese, ha voluto raccontare nelle varie fasi evolutive nel libro "San Ferdinando e i Nunziante", Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli, 1988, parlando dei suoi "antenati <<fondatori>>, i quali di un terreno coperto di laghi, gore e stagni, resero, a prezzo di duri sacrifici, così fertile una vasta pianura che sarà denominata la plaga d'oro per i suoi lussureggianti giardini". TropeaMagazine ha voluto pubblicare, con il consenso dell'Autore, qualche sezione del libro, ricorrendo all'aiuto di alcuni dei tantissimi documenti fotografici che vi si trovano, per segnalare, a quanti non ne fossero a conoscenza, questo importante segmento di storia patria che accomuna in modo straordinario la comunità di San Ferdinando a quella di Tropea e dei Comuni vicini, luoghi di origine degli antenati di Bruno Polimeni. E rimarrà profondamente sorpreso di come la storia non vuole essere solo un episodio trascorso o un evento lontano chi avrà voglia di sfogliare le pagine dell'elenco telefonico del Comune di San Ferdinando (RC). Si accorgerà in quale misura i cognomi delle famiglie Sanferdinandesi siano in pratica quelli che vengono riportati sulle pagine di Tropea e dei Comuni vicini. Un documento questo dei tempi nostri che sta a testimoniare come la storia del passato e dei nostri antenati continua ancora nel presente e vive assieme a noi.
LA MALARIA NELLA PIANA DI ROSARNO La malaria era nota fin dai tempi antichissimi della Magna Grecia, tanto che Ippocrate nella sua opera intitolata <<Aria, acqua e luoghi>> dà una strana descrizione degli abitanti delle plaghe malariche. Egli sostiene che <<quei che vivono in luoghi bassi e paludosi sono di bassa statura, hanno capelli neri e volto bruno, sono lascivi, e per natura non sono dotati di molta forza di restistenza alle fatiche>>. Di questa malattia, chiamata in gergo dialettale <<frevi a friddu>>, <<terzana>>, <<quartana>>, ebbe a soffrirne tutta la Piana di Rosarno e di Gioia Tauro, soprattutto a causa dei corsi irregolari dei fiumi Mesima, Mammella, Budello e Petrace. Gli antichi cronisti narrano che Rosarno nel 1561 era tassata per 606 <<fuochi>>1, mentre nel 1691 il padre Fiore ne assegnava a questo Comune soltanto 374, dicendo che <<altri più ve ne sarebbero se alcune paludi all'intorno non rendessero alquanto cattiva l'aria>>. Infatti, mentre nel 1750 Rosarno contava circa 4000 abitanti, alla fine del secolo, il loro numero si era dimezzato, per ridursi ulteriormente a sole 780 anime nel 1818, l'anno in cui il marchese Vito Nunziante iniziò i lavori di bonifica2. Da quanto sopra si evince che la popolazione si spostava dal paese per sfuggire alla malaria e si rifugiava in luoghi montani, stanca di dover combattere contro quel terribile nemico, che, inesorabilmente, conduceva alla morte. Il terribile terremoto del 5 e 7 febbraio 1783 rese ancora più precaria la situazione. A causa dello sconvolgimento tellurico la vallata del Mesima si abbassò più di un metro, con la conseguenza che si vide <<il terreno, fesso in più parti, formare voragini e poco presso alzarsi a poggio; l'acqua raccolta in bacino o fuggente mutare corso o stato. I fiumi adunarsi a lago o distendersi a paludi o, scomparendo, sgorgare a fiumi nuovi, tra nuovi borri, o correre senza argini ad inondare ed isterilire fertilissimi campi. Nulla restò delle antiche forme; le terre, le città, le strade, i segni svanirono>>3. A causa di questo <<Flagello>> che <<fu il più immane cataclisma e il più dannoso fra i tanti che si vennero a verificare in questa parte di Calabria>>4, tutta la Piana, in breve tempo, diventò una distesa di malsani acquitrini.
PROGETTI DI BONIFICA In seguito a queste calamità naturali, si rendeva necessario ed urgente che il Governo desse inizio a lavori di pubblica utilità, quali la bonifica dei terreni malsani e la costruzione di ponti e strade, al fine di alleviare anche la disoccupazione, la miseria e l'arretratezza che regnavano nelle province meridionali. Da più parti si affermava l'esigenza di modificare la distribuzione della proprietà, di stimolare l'investimento della rendita fondiaria in opere di miglioramento della produzione agricola e di valorizzazione della terra, di realizzare le condizioni per una più uniforme circolazione della ricchezza attraverso una maggiore libertà di commercio interno e una maggiore facilità di esportazione dai luoghi di produzione. Si sentiva, quindi, la necessità di aprire nuove vie di comunicazione e di migliorare quelle esistenti. Perciò la bonifica delle terre era divenuto uno dei principali problemi che la società meridionale era costretta ad affrontare, essendo l'ostacolo maggiore che si frapponeva al miglioramento dell'economia rurale. Secondo Afan De Rivera circa tre mila miglia quadrate di terreno, nel Regno di Napoli, avevano bisogno di essere bonificate con urgenza5, mentre le stime del Genovese, le terre sommerse e paludose, in provincia di Reggio Calabria, agli inizi dell'Ottocento, si valutavano a circa 4.448 ettari e a ben 36.789 in tutta la Calabria6. Ciò era il risultato di tanti secoli d'incuria da parte dei governi, a causa dei quali numerosi fiumi di montagna e torrenti erano stati abbandonati a sè stessi e, di conseguenza, avevano ridotto le campagne del Mezzogiorno d'Italia ad una palude incoltivabile. Nonostante le relazioni dell'economista Giuseppe Maria Galanti (inviato in Calabria dopo il terremoto del 1783) ed i preziosi suggerimenti di Afan De Rivera7, il governo borbonico, benchè avesse preso coscienza dei danni derivanti da tanta trascuratezza, pochi progetti elaborò e ben pochi ne realizzò, a causa dei moltissimi problemi tecnici emergenti e anche per gli alti costi dei lavori di drenaggio. Tra i pochi progetti portati a termine vi fu quello che interessò l'agro di Rosarno, nel 1818, ad opera del generale Vito Nunziante, considerato da tutti, in quell'epoca, come <<uno dei principali finanziatori privati nei progetti di bonifica>>8.
LA BONIFICA DI ROSARNO Il generale Vito Nunziante, conoscendo le tristi condizioni in cui versavano, a causa della malaria, gli abitanti di Rosarno, si rese interprete presso il Re e chiese l'autorizzazione ad affrontare personalmente l'impresa, dato che il Governo, per le note difficoltà finanziarie, non poteva assumersi direttamente l'onere. La sua istanza fu esaminata dalla Seconda Camera del Supremo Consiglio di Cancelleria nella riunione del 26 agosto 1817, nella quale il consigliere, marchese Avena, riferì sulla domanda dello stesso Generale tendente a: 1. Prendere a censo i boschi appartenenti al Comune di Rosarno, denominati Sant'Opolo e Lamia dell'estensione di circa 3.600 moggia (pari a 1.217 ettari), con la corresponsione di un annuo canone, facendo salvo ai cittadini l'uso di legnare a legna morte; 2. Bonificare tutte le terre paludose dello stesso Comune, dell'estensione di circa altrettanti ettari, obbligandosi di consegnare in compenso a Rosarno, a bonifica ultimata, la quarta parte di circa 900 moggia (pari ad ettari 304). La Camera respinse la proposta di censuazione dei boschi però riconobbe l'utilità della bonificazione delle altre terre perchè <<con questa operazione si promuoveva l'industria nazionale e l'aumento della popolazione e si avvantaggiavano gli interessi della finanza>> locale9. Il re Ferdinando I con decreto n. 1197 del 27 maggio 1818 autorizzò il marchese Vito Nunziante ad intraprendere sotto prescritte condizioni il bonificamento delle terre paludose. L'11 settembre del 1818 hanno così inizio, si può dire, la storia della bonifica del Comune di Rosarno e le origini del villaggio di San Ferdinando.
I PRIMI COLONI Allorchè furono create le necessarie premesse per un ulteriore sviluppo sociale ed economico del territorio, e man mano che le campagne vennero prosciugate e rese adatte alle colture, accorsero dai Casali di Tropea10 e dai villaggi del Monte Poro i primi contadini, i quali, avendo intuito i grandi vantaggi che potevano trarre da queste vaste terre <<vergini>>, accettarono ben volentieri di trasferirsi con le proprie famiglie e divennero, così, i primi coloni. La scelta cadde sui contadini di quel Circondario perchè il Nunziante, avendo in quegli anni il suo quartiere generale a Tropea, conosceva bene la popolazione di quelle contrade, la quale era esperta nella coltivazione della canapa, dei cereali, del lino e nell'allevamento del baco da seta. Questo esodo massiccio avvenne anche per altri motivi: il principale è da ricercarsi in una grave crisi che si verificò nel circondario di Tropea intorno agli anni 1815/20. Era avvenuto che le terre di Capo Vaticano - tanto rinomate per la loro fertilità - erano state abbandonate dalla maggior parte degli abitanti per il forte ribasso dei cereali, unico prodotto della zona, dal momento che i contadini avevano tagliati gli alberi di gelso e di ulivo perchè allettati dal prezzo vantaggioso della legna per costruzione. Cosicchè gli abitanti dei Casali, non potendo far fronte agli esosi tributi e ai canoni gravosi dei fitti dei terreni, furono costretti a vendere i propri animali domestici, la propria casa e quant'altro possedevano e trasferirsi <<nel sacro asilo delle casette>>. Da una relazione statistica delle acque fluenti compilata dal Cavalier Alessandro Pelliccia di Tropea, pubblicata nel 1836 e riportata da SAVERIO DI BELLA in: Grano, mulini e baroni nella Calabria moderna e contemporanea, Cosenza, 1979, pag.264. Venne per primo, nel 1823, il tretacinquenne Pasquale Barbalace da Carciadi con la moglie Antonia Punturiero e i figli Francesco, Pietro, Carlo, Giacomo e Antonio. Lo seguiranno, poi, altri otto fratelli. Non sappiamo se costui fosse stato veramente spinto dal miraggio della fertilità dei terreni, oppure per espiare una pena, avendo commesso (si dice) un omicidio nel suo paese. Con certezza, però, sappiamo che presto si rivelò un uomo laborioso, che si distinse per il suo dinamismo nelle varie attività in favore del primo insediamento urbano, tanto da essere denominato il <<Romolo del villaggio>>11. Si spegnerà il 21 aprile 1853 alla venerabile età di 96 anni, mentre la moglie lo precederà il 6 maggio 185112. Nella nuova dimora vennero pure, nello stesso anno, Francesco Pantano e Agostino Tavella da S. Nicolò di Ricadi; l'anno successivo arrivarono le famiglie di Giuseppe Lojacono e Domenico Celi da S. Nicolò, Michele Petracca da Lampazone, Tommaso Rizzo da Spilinga. Nel 1825 vennero i massari: Bruno e Antonio Polimeni da S. Nicolò; Giuseppe, Francesco e Sergio Tripodi da Brivadi; Antonio Lojacono da Orsigliadi, Domenico Punturiero da Carciadi; Benedetto e Silvestro Celi da S. Nicolò, Falduti da Caroniti, Giacomo Taccone da Spilinga, Naso, pure, da Spilinga13. Negli anni successivi arrivarono i Pulella da Ricadi, gli Zungri e i Mumoli da Lampazone, i Bagnato da Comerconi e i Rombolà da Brattirò: tutta gente che era venuta in questa nuova borgata per migliorare il suo status sociale di cui era insoddisfatta nel proprio paese d'origine. Poichè nel frattempo il primo ricovero dei vanghieri, sito in prossimità del Mesima, si era rivelato meno adatto all'esistenza per le malsane paludi che ivi albergavano, il Generale Nunziante ritenne conveniente scegliere una zona più salubre distante dal fiume. E a <<due trar di pietra>>14 dalla spiaggia, corrispondente oggi all'attuale area tra via Bologna e Via Como feve costruire 6 casette (ricordate ancora oggi come <<case del Principe>>) per quei primi lavoratori e anche un modesto palazzo per lui stesso (oggi casa degli eredi di Pasquale Loiacono). In seguito, con la venuta dei primi massari, lo stesso Marchese giudicò opportuno far costruire per i medesimi un lotto di case che si estese dalla Via Bologna - Via Salerno - Chiesa del Perdono - Via Rosarno e fino all'angolo di Via Magazzini. Le suddette venivano fabbricate con pietra vulcanica mandata con le barche dalle isole Eolie dal marchese di Lipari, don Francesco Barresi, suocero del generale Nunziante. Le casette erano tutte a pianterreno, disposte in quadrato, con un piccolo cortile interno e composte di una sola stanza di pochi metri quadrati che fungeva - come scive il Porretti - <<per camera da letto, per cucina, dispensa e gabinetto>>. Qualcuna di queste ancora è rimasta in piedi, malgrado l'imperversare del progresso edilizio. Noi l'abbiamo immortalata in una fotografia prima di una probabile demolizione. Fu edificato così il primo agglomerato di case, che, assieme ad un consistente numero di pagliaia, sorti più a sud del paese (nell'attuale Rione Case Nuove) come dimora di famiglie bracciantili e di servi di pena, formarono il villaggio. Esso, a poco a poco, andò sempre più ingrandendosi ed in omaggio al Re fu denominato San Ferdinando, ma per le sue piccole abitazioni, di uguale dimensione, fu chiamato per molto tempo <<Casette>>. Anche se dalle carte d'archivio, da noi esaminate, non è stato possibile rintracciare la pianta planimetrica del primo nucleo urbano per risalire all'anno di costruzione, riteniamo, comunque, che le casette siano sorte: le prime, cioè quelle dei vanghieri, nel 1820; le seconde, dove alloggiarono i massari, verso il 1823, e un altro lotto dopo il 1832, unitamente alla chiesetta del Perdono15. Di certo sappiamo, però, che le prime abitazioni furono costruite prima del 1840, in quanto in un contratto di fitto di fondi rustici, stipulato il 30 agosto 1840, troviamo la prima menzione. Infatti, in una clausola dello stesso contratto è riportato che era ad arbitrio del locatore del fondo (Nunziante) <<rescindere il contratto, espellendoli (i massari) non solo dai rispettivi fondi, ma pure dalle case e pagliai che al presente abitano>>16. Ma il primo contratto registrato, relativo all'affitto delle case, risulta stipulato il 1° settembre 1842. E' l'anno in cui viene costruito il secondo e più importante lotto ed il palazzo residenziale dei Nunziante, esistente ancora oggi al centro del paese. Nel suddetto anno, don Paolo De Lauretis - amministratore dei beni degli eredi Nunziante di <<secondo letto>> - concede in fitto, per la durata di anni due, le case e alcuni bassi a Nicola Pantano, ad Antonio Lojacono e ad altri. Il canone pattuito, o meglio imposto, è di ducati 4 per i bassi e di ducati 6 <<per quelli che hanno le stanze>>. Oltre al canone da pagare, gli inquilini erano obbligati a disboscare e <<rendere aratorie le terre da loro tenute in fitto>>, in particolare il fondo Pietrantonio17.
I SERVI DI PENA Il generale Nunziante, non ritenendo ancora sufficiente la manodopera reclutata, e dovendo provvedere alla costruzione di altre case, per le quali occorrevano maestranze qualificate, chiese ed ottenne dal governo borbonico di potersi servire dell'opera di uomini condannati al confine nelle isole per delitti comuni o politici, i quali avessero tenuto buona condotta e fosse rimasto loro da espiare meno di quattro anni di pena18. Da parte sua il marchese Nunziante s'impegnava a corrispondere a questi ultimi un salario (anche se misero per quei tempi), ad assicurar loro un alloggio, e, nel contempo, facendosi garante di fronte al Governo, si obbligava a pagare una penale per ogni evaso. Approfittando di questa circostanza molti servi di pena, per non scontare le proprie colpe, o alcuni, con l'intenzione di riabilitarsi, si rifugiarono in queste terre godendo di un diritto d'asilo e così si misero a lavorare duramente reinserendosi con gli altri coloni. <<E' interessante notare - scrive Alfredo Diana - che, benchè fossero lasciati liberi e con scarsa sorveglianza, in tutto il periodo di tempo che durò questa operazione...e cioè sino al 1862, uno solo, avendo commesso un omicidio, fuggì su un peschereccio in Algeria>>19. Si narra ancora che un uomo proveniente dal cosentino, di cognome Mandarino, fuggito dal suo domicilio, perchè braccato dalla polizia, per avere, con un colpo di scure, decapitato la matrigna, fosse stato trovato dal marchese Nunziante nel fondo Malapezza intento a prosciugare fossi assieme ad altri vanghieri: Il generale lo prese in consegna, gli fece assumere il cognome di <<Monteforte>> e lo lasciò libero di lavorare insieme con gli altri servi dipena. Pochi anni dopo, il Monteforte, alias Mandarino, contrasse matrimonio con una contadina di Nicotera e risiedette a San Ferdinando, dove diede inizio alla sua discendenza. Dalle scarse notizie attinte dai registri parrocchiali di quegli anni20 e dai processi della Gran Corte Criminale abbiamo riscontrato alcuni cognomi di galeotti. Essi sono: Del Vecchio da Ioppolo, Contartese da Ricadi, Tambaro da Scafati, Vito Naccarato da Cosenza, Pantano da Brivadi, megna da Coccorino, Russo da S. Maria Capua Vetere, Michele Baglivo da Potenza, Michele Bovolo da Torre del Greco, Pasquale Zavaglia da Polistina, Giovanni Falcone da S. Maria C. V., Porretti da Monteleone, e infine Nicola Faggiano, Bruno Ferraro, Bernardo Pignatelli, Cusano21. La maggior parte erano individui che provenivano dalla Campania, dalla Sicilia e dalla Basilicata. Infatti, ancora oggi esistono in quelle regioni i predetti cognomi. E' opera loro la costruzione, nel 1832, della prima chiesetta del Villaggio, denominata <<Chiesa del Perdono>>, oggi adibita a Cappella gentilizia della famiglia Nunziante. Accanto ad essa, sulla Via Salerno, fu edificato il secondo palazzo che servì da dimora al generale Vito Nunziante e alla sua famiglia. Oggi questo palazzo non esiste e sullo stesso posto sorge il fabbricato di Mimì Loiacono. Sono pure opera di quei <<servi di pena>> le lamiozze, cioè quel gruppo di case caratteristiche, con la facciata a volta, fatte di pietra vulcanica portata dalle isole Eolie, site in parte sulla via Salerno e in parte sulla via Rosarno. In queste ultime si distinse l'opera del <<mastro>> muratore Gregorio Russo, il quale aveva anche costruito, nel 1818, <<il quadrato>> e la <<volta a lamia>> della prima fontana in Rosarno22.
I PRIMI MATRIMONI I primi matrimoni che si celebrarono in San Ferdinando avvennero tra immigrati e tra persone provenienti dalla vicina Nicotera e dai Casali di Tropea. Sicuramente tali unioni si verificarono perchè fra gli stessi nuclei familiari esistevano affinità di carattere, analoghe usanze, medesimi costumi e spesso legami di parentela. Infatti dai registri parrocchiali, che iniziano dal 1828, rileviamo molti matrimoni tra Pulella e i Puntoriero, tra Pantano e i Tripodi, tra i Naso e i Polimeni, tra i Lo Jacono e i Tripodi, tra i Rombiolà e i Tavella, ed ancora tra i Barbalace e i Pantano e i Tripodi. Persone tutte provenienti dai casali di Monte Poro e di Capo Vaticano. Il primo matrimonio registrato dall'economo curato Pietro Arecchi porta la data del 23 ottobre 1828 e si riferisce all'unione di Antonio Pantano, figlio di Francesco e di Isabella Russo, con Caterina Rizzo, figlia di Tommaso e di Domenica Laria. Testimoni don Francesco Romeo e Pietro Barbalace. Il secondo matrimonio, che è celebrato il 23 ottobre 1829, avviene tra Francesco Barbalace, figlio di Pasquale (il capostipite venuto da Carciadi) e di Antonia Punturiero, con Eleonora Pantano, figlia di Antonio e di Maria Stella Contartese. Testimoni Agostino Tavella e Giuseppe Lo Jacono. Altri matrimoni avverranno negli anni successivi tra <<servi di pena>> e giovanissime ragazze (dai sedici ai 18 anni), fglie di coloni. Incomincia, così, un rapido processo di inserimento di questi uomini (originari di altre regioni), che, riabilitatisi col duro lavoro, si riscattano mercè la loro buona condotta. Tipico esempio è quello del <<galeotto>> Vito Naccarato che il 13 dicembre 1839 sposerà Saveria Rizzo, figlia di Tommaso e Domenica Laria, ragazza appartenente ad una discreta famiglia di massari. Quasi tutti i matrimoni vengono celebrati nei mesi di giugno ed ottobre, cioè nel periodo in cui sono stati terminati i raccolti dei prodotti agricoli. Tale usanza derivava, forse, dall'esigenza per i genitori dei novelli sposi di dover affrontare le spese per la dote dei rispettivi figli col ricavato della vendita dei frutti della terra, e anche perchè minori erano gli impegni di lavoro.
LE PRIME NASCITE Le prime nascite nel villaggio sono riportate nei libri dei battezzati della locale Parrocchia e iniziano dal 1828. Pertanto non si hanno ulteriori notizie anteriori a questa data e quindi non conosciamo il numero dei bambini nati entro il primo decennio dall'inizio dei lavori di bonifica. Dai dati in nostro possesso possiamo solo affermare che il primo nato di San Ferdinando, giuridicamente riconosciuto, è Antonio Pulella, figlio di Giuseppe e di Antonia Lo Jacono, nato in <<anno Domini>> 1828 e precisamente il 22 settembre. Segue, poi, un'altra nascita in data 9 luglio 1829 e si riferisce a Costantino Celi, figlio di Silvestro e di Eleonora Punturiero. Il 21 agosto dello stesso anno vede la luce Domenico Arena di Giuseppe e di Domenica Loiacono, mentre il 12 settembre chiude l'anno Antonio Punturiero di Domenico e di Domenica Barbalace. Padrini di quest'ultimo sono: Domenica Minnà e Francesco Tripodi. Notiamo che nei primi anni le nascite avvengono ad un ritmo di tre o cinque l'anno, mentre, in seguito, il loro numero crescerà sensibilmente, man mano che il flusso migratorio aumenterà, dal momento che si era diffusa la notizia che nelle terre, ormai produttive, del Nunziante vi era pane per tutti. Tale incremento demografico si rileverà soprattutto dal 1854 in poi, anche se negli stessi anni si verificherà parimenti un notevole aumento del tasso di mortalità.
LE PRIME OSTETRICHE Ad aiutare i primi nati a vedere la luce provvedevano le <<mammane>> o <<obstretrix provisoria>>, cioè donne praticone senza alcuna cognizione medica. La prima che espletò tale incarico fu Caterina Gabriele, figlia di Ferdinando e di Antonia Polimeni, sposata con Giuseppe Tripodi di Sergio. Svolse l'importante ruolo dal 1828 al 1856 e morì a 98 anni. La seconda fu Eleonora Iellamo, figlia di Domenico e di Domenica Rizzo, che assieme alla prima esercitò l'attività fino al 28 gennaio 186623.
I PRIMI DECESSI E IL RILEVANTE FENOMENO DELLA MORTALITA' E' interessante fare una disamina delle persone decedute nei primi anni dell'insediamento urbano per calarci nella realtà di quell'epoca, al fine di capire l'ambiente in cui tanti fatti ed eventi maturarono ed anche per seguire il processo evolutivo di questa popolazione. I decessi erano numerosi e riguardavano all'età di 12 anni, di 20, di 35 e di 50. La durata media della vita rimaneva al di sotto dei quarant'anni fino agli anni 1839/42. Il fenomeno rilevante e preoccupante era quello dei bambini che morivano a distanza di pochi giorni dalla nascita o all'età di uno o due anni. Il primo decesso registrato nel liber mortuorum porta la data del 20 marzo 1828 e si riferisce ad Antonio Punturiero, figlio di Domenica Barbalace, morto all'età di un anno; nello stesso periodo muore Giacomo Zungari di 12 anni e Isabella Arena di un anno, per continuare nel 11829 con Pasquale Zungari all'età di 35 anni <<circa>>, e con Antonia Loiacono a 22 anni. Ancora nel 1831 muore Marianna Tripodi fu Pasquale a 21 anni <<circa>>, Francesco Petracca a 50 anni e nel 1833 Nicola Vizzone a 26 anni. L'altro tasso di mortalità infantile è un indice costante per moltissimi anni fra gli abitanti del villaggio e tale fenomeno è soiegabile in un ambiente privo degli elementari servizi igienici24, sprovvisto di assistenza medica e farmaceutica; in una zona dove, malgrado i continui lavori di bonifica, imperversava ancora la malaria, il colera e le altre malattie endemiche, come il tifo e l'anemia.
ELENCO DEI PARROCI DAL 1828 1828 - Don Pietro Arecchi da Salice (Catona) 1854 - Don Nicola Sollazzo da Galatro 1880 - Don Pietro Vallone da Tropea 1892 - Don Girolamo Calogero da Palmi 1906 - Don Carmelo Albanese da Cittanova 1908 - Don Michele Giunta 1909 - Don Giuseppe Vicari da Radicena 1933 - Don Francesco Mercuri da Rosarno 28/8/1933 - Don Girolamo Sgambetterra da Cittanova
EENCO DEGLI ECONOMI CURATI Don Nicola Sollazzo da Galatro Padre Salvatore da Tropea dell'Ordine dei Riformati Abate Antonino Martino da Galatro Don Giuseppe Galloro da Cinquefrondi (1868) Padre Salvatore da Tropea (dal 1878 al 7/8/1880) Don Michele Matina da Cosoleto Don Giuseppe Galloro (1889) Don Giuseppe Lentini da Mandaradoni (1891-1897) Don Antonio Naso (1898-1906) Don Serafino Schiariti da Ricadi Don Giuseppe Auteliano Don Giuseppe Casini Don Pasquale De Simone (1928)
PRIMI NUCLEI FAMILIARI PROVENIENTI DAI CASALI DI NICOTERA E DI TROPEA Arena da Orsigliadi; Aricò da S. Domenica di Ricadi; Artese da Spilinga; Bagnato da Comerconi; Barbalace da Carciadi di Spilinga; Barbieri da Barbalaconi; Bertone da Limbadi; Campannì da Nicotera; Capria da Nicotera; Celi da S. Nicolò; Cimato da S. Nicolò e Coccorino; Condurso da Nicotera; Contartese da Ricadi; Corigliano da Spilinga; Crai da S. Domenica di Ricadi; Cuppari da Panaja; De Luca da Spilinga e da Ricadi; Devita da Spilinga; Di Giaccio da Ricadi; Falduti da Caroniti; Forchì da Ciaramiti; Gaudioso da Caria; Iellamo da Spilinga; Lamonaca da S. Nicolò di Ricadi; Landro da Parghelia; Laruffa da Caria; Lentini da Mandaradoni; Locane da Caroniti; Lo Jacono da Ciaramiti; Loria o Laria da S. Domenica e da Caria; Mandaglio da Limbadi (e anche da Oppido); Marturano da Filandari; Mazzitelli da Spilinga; Mazzotta da Ciaramiti; Morano da Preitoni; Mumoli da Lamapazzone; Naso da Spilinga e da Caria; Pantano da Brivadi; Papaianni da Spilinga; Petracca da Ricadi; Polimeni da S. Domenica di Ricadi; Pontoriero da Spilinga; Preiti da Coccorino; Pugliese da Panaia; Pulella da Orsigliadi; Rizzo da Lampazzone; Rombolà da Brattirò; Saragò da S. Domenica di Ricadi; Scordamaglia da Ricadi; Scrugli da Tropea; Sorbilli da Caroniti; Spagnolo da Ricadi; Spanò da Orsigliadi; Tavella da S. Nicolò di Ricadi; Tripodi da Brivadi; Vecchio da Ioppolo; Vizzone da Brattirò e da Caria; Zungri da Lampazzone e Spilinga.
NOTE 1 Ogni fuoco corrispondeva ad una famiglia. 2 A. DIANA, Storia della bonifica di San Ferdinando, Bologna 1975, p.17. 3 P. COLETTA, Storia del Reame di Napoli, Firenze, 1860. 4 A. DE SALVO, Ricerche e studi storici intorno a Palmi, Seminara e Gioia Tauro, Palmi, 1899, p.266. 5 R. CASCIA, Storia delle bonifiche del Regno di Napoli, Bari, 1928. 6 F. GENOVESE, La malaria in provincia di Reggio Calabria, Firenze, 1924. 7 Per la sua competenza sarà nominato nel 1824 direttore generale dell'Amministrazione Ponti e Strade. 8 J. DAVIS, Società e imprenditori nel Regno borbonico 1815/60, Bari, 1979, p.184. Anche i Francesi durante la loro breve dominazione in Calabria avevano pensato al problema della bonifica. Infatti, era stato emanato il decreto n. 683 del 24 giugno 1810 col quale il Governo si proponeva di prosciufare <<nel più breve tempo possibile i laghi detti di Seminara, Sinopoli, S. Cristina, Terranova e Sitizano, e gli altri formati dal tremuoto nella Provincia di Calabria Ulteriore>> ma era rimasta soltanto una pia intenzione. Dal Bollettino delle leggi del Regno di Napoli in G: VALENTE, La leggi francesi per la Calabria, Chiaravalle C., 1983, p.67. 9 Dal verbale del 26 agosto 1817 estratto del foglio 39 del Registro dei processi verbali della Seconda Camera del Supremo Consiglio di Cancelleria, in ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI. 10 Il territorio di Tropea e Casali è così diviso: Comune di Drapia: Drapia, Gasponi, Alafito Comune di Parghelia: Parghelia, Fitili Comune di Ricadi: Ciaramidi, S. Domenica, S. Nicolò, Brivadi, Orsiglidi, Ricadi, Barbalaconi, Lampazone Comune di Spilinga: Spilinga, Panaia, Carciadi Comune di Zaccanopoli: Zaccanopoli Comune di Zambrone: Zambrone, S. Giovanni, Daffinacello, Daffinà. 11 V. PORRETTI, 12 Dal liber mortuorum 1850. Archivio parrocchiale di San Ferdinando. 13 A.S.R.C. Protocolli Intendenza, inv. 5, fascio 132. Dall'elenco degli eleggibili alle cariche comunali compilato dal sindaco Tommaso Laghani in data 9 marzo 1831. Secondo questo elenco, alla predetta data, i capi famiglia più anziani del villaggio erano 28 con 150 unità familiari a carico. 14 G. GASPARINI, Discorso intorno l'origine del villaggio San Ferdinando e sopra le principali cose che quivi si coltivano, Napoli, 1830, p.9. Erano chiamate <<case del Principe>> perchè trasferite in proprietà a Riccardo Nunziante, Principe di Durazzano. 15 Il Porretti scrive che <<verso il venti, in quell'era, fra il regime d'opre incoate, e al computo imperfette, si pensò edificar le case prime>>. N. PORRETTI, op. cit., p.23. 16 A.S.P. notaio Saladino, busta 1182, atto del 30/8/1840 tra Salvatore Nunziante e alcuni massari. 17 A.S.P. notaio Saladino, busta 1183. 18 Durante il regime borbonico era una prassi consolidata servirsi dei <<galeotti>>, allorchè c'era bisogno di manodopera, sia nell'industria che in altri lavori pesanti, come pure in quelli di bonifica idraulica. Cfr. J. DAVIS, op. cit., p.118. 19 A. DIANA, Storia della bonifica di San Ferdinando, Bologna 1975, p.21. Allude al galeotto Michele Bovolo. A proposito di questi servi di pena il Gasparini scrive <<Costoro posti al lavoro diventarono gente temperata, e fatti confidenti della loro nuova fortuna, molti fra essi tolsero moglie nei paesi circostanti ed accrebbero di se e coi loro figlioli il novero degli abitanti>>. G. Gasparini, op. cit., p.7. 20 I registri della Parrocchia dei nati, dei morti e dei matrimoni iniziano dal 1828. 21 Ignazio Lucchese fu Antonino, Francescantonio Celeste e i fratelli La Malfa erano venuti prima della bonifica, al seguito del Generale. Benchè fossero ex servi di pena, questi avevano dimostrato di essersi riabilitati con l'onesto lavoro, raggiungendo una discreta posizione economica, tanto da meritare la stima del marchese Nunziante ed abitare vicino alla sua residenza provvisoria in Rosarno. In particolare il Lucchese, il quale negli atti notarili compare talvolta come uomo di fiducia di Vito Nunziante, stipulando in nome e per conto. Lo stesso firma come testimone garante in alcuni contratti essendo anche uno dei pochi cittadini <<scribenti>>. Il notaio lo cita con l'appellativo di riguardo di <<Don>> e con la qualifica di <<civile>>. A.S.P. not. SALADINO, busta 1178, atto del 25/3/1829. Francescantonio e i figli Ferdinando e Giuseppe Celeste erano, invece, annoverati fra i <<massari di bovi>> più in vista di Rosarno. Essi detenevano in fitto grandi appezzamenti di terreno del Comune, spesso subaffittandoli ad altri massari, e prendevano in gabella le olive del fondo <<Signore>> di proprietà dei Padri Francescani di Nicotera. Risulta, inoltre, che i Celeste avevano avuto in fitto dal Comune per 6 anni il fondo Stoppa per un canone di 190 ducati e che nel 1830 ne avevano ceduto in subaffitto per metà ad Agostino Tavella fu Pasquale, a Pasquale Barbalace fu Antonio e a Bruno Polimeni fu Girolamo. La famiglia Celeste aveva comprato nel 1829 una <<casa palaziata>> in Rosarno. A.S.P., notaio Saladino, buste 1177 e 1178. Domenico La Malfa era un <<forese>> del Nunziante, però nel 1829 vendeva una casa a Rosarno pervenutagli dopo la morte del fratello Pasquale. A.S.P. ibidem. 22 A.S.R.C. inv. 32/I fascio 1032 <<conti comunali 1818/19>>. Oggi queste case sono state demolite per far posto a nuove abitazioni delle famiglie Lamalfa, Muià, Tripodi. 23 Dai registri parrocchiali delle nascite. 24 La popolazione per bere si serviva di acqua di pozzo e molti erano i servizi igienici all'aperto. Purtroppo questa era la situazione generale dei paesi dove era costretto a vivere il popolo meridionale durante il regno dei Borboni e anche dopo l'Unità d'Italia. Sulle strade vi erano enormi cumuli d'immondizie, che venivano rimossi solo in occasione di qualche ricorrenza o in caso di epidemie.