Un'antica stampa che riproduce il ritovamento dello scheletro di un gigante
Gli scheletri dei giganti di Tiriolo
di Luciana Loprete *
Nell'anno 1663 la cittadina di Tiriolo (in provincia di Catanzaro), già nota per alcuni rinvenimenti archeologici, s'impose ancora una volta all'attenzione degli studiosi per un avvenimento che sembrò avere del favoloso.
Si procedeva nel territorio ad alcuni scavi: gli operai addetti al lavoro si trovarono alla presenza di una tomba antica. La scoperchiarono ed una macabra visione si presentò ai loro occhi: nella tomba spalancata "innante in una notevole quantità di cerume" adagiato sul dorso stava uno scheletro di proporzioni enormi. Lunghe erano le gambe e le braccia, largo e poderoso il bacino, grosse le costole, voluminoso il teschio. Ne rimasero atterriti. La notizia del rinvenimento si propagò; non c'erano allora giornali e gazzette o altri fogli d'informazione, non c'erano reporter o inviati speciali che curassero un servizio stampa come ai nostri giorni, ma la notizia si diffuse ugualmente dal paese alla cittò, dalla città agli altri centri grandi o piccoli che fossero. L'avvenimento, come spesso succede, nel passare da una bocca all'altra fu esagerato ed anche in qualche modo travisato, ma non dovette essere certamente lontana dal vero la relazione che dell'accaduto il medico Giovanbattista Cappucci, residente a Crotone, fece per lettera il 24 giugno dell'anno 1663 a Marcello Malpighi, grande medico bolognese. Chi fosse Marcello Malpighi è ben risaputo da coloro che possiedono dimestichezza, anche modesta, con la storia della medicina. Questo medico vissuto nel '600 per la sua grande dottrina fu chiamato ad insegnare nelle università di Pisa, Messina, Bologna, risiedette anche a Roma e fu archiatra del pontefice Innocenzo XII, fu membro delle più rinomate accademie dell'epoca, anche straniere, il suo nome è ancora legato ad interessanti scoperte fatte nel campo della medicina. Giovanni Battista Cappucci fu anche medico, e di lui null'altro conosciamo se non che era di origine napoletana e che risiedeva a Crotone; non dovette tuttavia appartenere alla categoria dei medici mestieranti se aveva familiarità ed era inoltre in corrispondenza col Malpighi, di cui forse fu discepolo. Ed ecco quanto scriveva il grande maestro bolognese a proposito del rinvenimento dello scheletro gigante di Tiriolo: "... Sperai nell'Aprile prossimo aver materia di scrivere a V. S. E. una lunga lettera sopra il ritrovamento d'un sepolcro antichissimo aperto nella campagna di Tiriolo terra di questa Provincia, et in esso d'una ossatura di cadavere gigantesco innatante in una notabile quantità di cerume, la mostra del quale è stata portata anche fin a Napoli al Sr. Tommaso Cornelio sotto nome di balsamo, et io ne ho visto qualche minuzia, ch'esaminata al di fuori pareva una pece bruna addensata, et invecchiata, ma nel fuoco spirava un odor migliore della pace comune. Onde ho preso a sospettare che sia mistura di pece e d'altra raggia di miglior fumo. Un dente anche mi fu promesso dal medesimo cadavere, che corre voce sia stato quindici palmi di statura... Il nostro Sig. Giovanni Battista Abati, che da Catanzaro è più di me vicino a Tiriolo, avrebbe meglio informarsi, ma egli incarparbito a tener il riporto menzogna et il cerume e l'ossa imposture o favolosi, non ha voluto impicciarsi... per separare dal falso il vero, se di quello, come è solito in tutte le novità, vi è misura notabile nella storia". Questa lettera, che fu trovata nel carteggio del Malpighi, ha bisogno di una qualche chiosa per poter vederci chiaro su questo scheletro gigante il cui rinvenimento può sembrare una favola, e non è. Esaminiamola particolareggiatamente. Cappucci afferma "in un sepolcro antichissimo aperto nella campagna di Tiriolo... innatante in una notabile quantità di ceruma" fu trovata "l'ossatura di un cadavere gigantesco; corre voce che sia stato di quindici palmi di statura". La notizia non può essere ritenuta un'invenzione, ex nihilo nihil dicevano i Latini, cioè dal niente non si ha che niente; chi scrive è un medico quindi una persona dotata di cultura e non un allocco che da credito a qualsivoglia famfaluca, e deve ritenersi ancora per certo che questo medico non si sarebbe indotto a riferire insulsaggini ad un rappresentante illustre della scienza dei tempi quale era il Malpighi dal quale aspettava lumi e chiarimenti. Quindi nella lettera ci deve essere un fondamento di verità, ci deve essere ed effettivamente c'è per il fatto che il rinvenimento di scheletri giganti nei sepolcri di Tiriolo è confermato da altri scrittori, e, primo fra tutti, lo storico cappuccino Giovanni Fiore, il quale, sulle braccia del Barrio e del Marefioti, nella sua "Calabria illustrata" definisce Tiriolo abitazione antichissima; ed, a conferma di queste origini remote, non solo parla di "rotture di muraglie che si cavano fuori con dentro molti tesori di monete antichissime", ma altresì fa esplicito e chiaro riferimento ai "molti sepolcri degli antichi giganti che giornalmente vengono fuori". A padre Fiore bisogna dare credenza perchè non solo è uno storico del luogo, ma sopratutto perchè visse nel periodo stesso in cui si verificò il rinvenimento di cui stiamo parlando: nacque, a Cropani il 1622 e vi morì il 1686; oltre che provinciale dei conventi di Calabria fu per diversi anni padre guardiano del convento dei Cappuccini di Catanzaro. A lui le notizie dei vari rinvenimenti degli scheletri giganti dovettero pervenire per linea diretta; anche a Tiriolo infatti, esistevano conventi, la distanza fra le due località è molto piccola, e non è quindi azzardato supporre che tali notizie gli furono riferite dai frati del luogo. Ma quel che più interessa puntualizzare è il fatto che lo storico cappuccino parla di "molti sepolcri" e quindi ciò che per il Cappucci residente a Crotone era stato un avvenimento unico, per padre Fiore invece più vicino alla località del rinvenimento e meglio informato è un avvenimento che si è verificato diverse volte; in altre parole molti sepolcri con scheletri di proporzioni gigantesche erano stati rinvenuti a Tiriolo, la qual cosa fa supporre che si doveva trattare di una necropoli antica che veniva alla luce casualmente di volta in volta, essendo certo che in quel tempo non si facevano scavi argheologici. E' vero che il Signor G. B. Abati di Catanzaro "che haverebbe potuto meglio informare... si era incaparbito a ritenere il riporto menzogna et il cerume e l'ossa in postura o favolosi e non volle impicciarsi", ma agli effetti dell'attendibilità di quanto stiamo parlando nessun peso può avere la posizione di scetticismo di questo signor Abati che, sebbene pregato dal Cappucci, non vuole fare nessuna indagine per "separare dal falso il vero"; evidentemente la sua è una forma di prevenzione non giustificata. Ma padre Fiore non è l'unico a parlare degli scheletri giganti, di essi fa menzione in una piccola cronaca inedita dal titolo "Breve descrizione della terra di Tiriolo" uno scrittore del tempo e del luogo, il sacerdote Giovambattista Ursano. Data l'importanza di questa cronaca, è necessario spendere su di essa qualche parola. E' composta di otto pagine manoscritte, l'originale non esiste più, è datata 1668; sull'autenticità di essa non vi è da dubitare, si è tramandata di generazione in generazione tra le persone colte del luogo e curiose delle patrie vicende, la ebbe tra le mani nel 1828 il francese Craufurd Tait Ramage quando visitò Tiriolo. A proposito di essa egli scrisse nel suo libro "Viaggio nel Regno delle due Sicilie" che, mentre era nella locanda, "un signore ebbe la gentilezza di mostrargli un manoscritto della storia di Tiriolo che dava la notizia di tutte le antichità scoperte in questa zona. Il manoscritto era opera del parroco ed era un esempio di diligenza... " Di questa piccola cronaca per la verità dobbiamo dire che non tutto si può accettare, che è alquanto disordinata nella esposizione, ma che si rivela preziosa quando parla delle "antichità scoperte nella zona" in quanto, essendo stata scritta da un contemporaneo, è veritiera al cento per cento. Giovambattista Ursano, in detta cronaca, scrivendo del ritrovamento del Senatus Consultum de Baccanalibus, avvenuto a Tiriolo nel 1660 durante gli scavi di fondazione per il costruendo palazzo Cigala, afferma che fu trovata "un'armeria d'innumerevoli ferri arrugginiti e di varie sorti ed ivi vicino un sepolcro grandioso, dentro l'ossa incenerite era uno smisurato cranio d'uomo con aste e lance e certi vasetti pieni di cera, nei quali vasetti mandati a Napoli si scoprì che dette ceneri confirmavano alla salute di diversi mali, come disse il signor Francesco Conelio, medico eccellentissimo nel giornale dei letterati... " Di quanto dice l'Ursano a noi preme sottolineare che anch'egli afferma essere stato trovato a Tiriolo nel 1640 cioè 23 anni prima del rinvenimento di cui parla il Cappucci, un sepolcro grandissimo dentro il quale erano ossa incenerite con "uno smisurato cranio di uomo". All'Ursano bisogna prestare fede in maggior misura che a padre Fiore: egli infatti è del luogo. La sua cronaca, come abbiamo detto, è datata 1688, gli scavi per le fondamenta di palazzo Cigala nel cui corso fu trovato il sepolcro grandioso sono del 1640, cioè di 48 anni prima; di conseguenza, anche ad ammettere che il cronista tiriolese non vide di persona il cranio smisurato, è necessario ritenere che ne sentì parlare come di un fatto straordinario dai suoi concittadini che l'avevano visto. Ma le testimonianze sui rinvenimenti di scheletri giganti nel territorio di Tiriolo si sprecano. Elia D'Amato nella sua "Pantapologia Calabra" pubblicata nel 1725, sebbene ignori l'Ursano, ribadisce quanto questi dice quando scrive che Tiriolo "gigantum reliquiis frustulisque per colonos effossis antiquitate celebre", e cioè che la cittadina è rinomata per le reliquie ed i resti di uomini giganti esumati dai concittadini e per la sua antichità. Tommaso Aceti nel 1737, curando la ristampa della opera storica del Barrio "De antiquitate et situ Calabriae" in una delle tante annotazioni che vi fece afferma quanto segue "hic quoque passim in ruderibus inveniuntur monumenta atque ossa gigantum". Ed a rafforzare maggiormente l'attendibilità di quello che scrisse il Cappucci e che gli storici e cronisti in diversa maniera poi confermarono, dobbiamo dire che il ritrovamento di sepolcri con scheletri ed ossa umane nel territorio di Tiriolo non è stato un fatto sporadico, ma un fatto che si è ripetuto nei secoli che seguirono. L'abate dott. Francesco Sacco nel suo "Dizionario Geografico-Istorico-Fisico del regno di Napoli", pubblicato nel 1796 nella voce Tiriolo scrive che "... questa terra è antichissima siccome lo dimostrano molti sepolcri antichi che giornalmente vengono fuori"; sottolineamo quel "giornalmente" che sta a significare come anche nel '700, in varie occasioni, vennero alla luce sepolcri e scheletri. Ed anche due valenti paleontologi, il Foderaro ed il Lovisato, nei loro lavori di ricerca, di esplorazione e di scavi, si trovarono spesso alla presenza di sepolcri contenenti carcasse umane. Il Foderaro fu ingegnere, costruttore di ponti e di strade, ma la sua passione fu l'archeologia; nelle numerose ricerche e scavi che eseguì nella provincia di Catanzaro con vera passione di studioso raccolse un'importante collezione di oggetti dell'età della pietra, quali asce, martelli, cunei, ed anche dell'età dei metalli, quali coltelli, lance, fibule, anelli, catenelle: questo prezioso materiale fu lasciato per testamento al Museo Provinciale di Catanzaro ed ivi si trova. Orbene in quest'importante collezione del Foderaro, molti oggetti dell'età della pietra e dei metalli furono ritrovati a Tiriolo nelle località Campomonaci e Donnopietro unitamente ad ossa ed a scheletri in alcune tombe di cui forse costituivano il corredo funerario. Il Lovisato non fu calabrese, fu istriano, amò tuttavia la Calabria come la sua seconda patria ed in essa soggiornò lungamente per ragioni di studi, esplorò numerose caverne ed anfrattuosità nell'intento di trovare qualche traccia dell'uomo preistorico, raccolse nella nostra regione una notevole quantità di oggetti litici e dell'età dei metalli che morendo donò al Museo Nazionale di Napoli. Intorno al 1878 esplorò le caverne del monte Tiriolo e varie altre località limitrofe: anch'egli trovò tracce di tombe ed ossa appartenenti alla specie umana.
Ritenuto allora per vero il rinvenimento dello scheletro gigante, non vi è dubbio che quanto fu scritto dal Cappucci deve essere ridimensionato perchè è della natura umana riportare i fatti ingrandendoli e trasformandoli, e certamente quanto fu riferito al medico crotonese fu ingrandito e trasformato almeno un pò. Prima di ogni altra cosa quello che va ridimensionato sono le proporzioni dello scheletro; si parla di "quindici palmi di statuta", il che tradotto nella misura metrica decimale adoperata oggi, considerando che il palmo è di venticinque centimetri, significa una lunghezza di ben tre metri e settantacinque centimetri. Evidentemente questa è un'enormità poco credibile, si tratta di proporzioni talmente esagerate che non sono attribuibili nemmeno agli uomini primitivi, a quei bestioni cioè di cui parla il Vico nella "Scienza Nuova" che erano tutto senso e perciò sentivano senza avvertire. E per la verità di questa esagerazione macroscopica aveva avuto certezza anche il Cappucci se invitava l'Abati a <<separare il falso da vero>>. Si sarà quindi trattato di uno scheletro veramente gigantesco, ma forse non di tali inverosimili proporzioni. Forse... Altro punto da chiarire è quello del cerume; che lo scheletro fosse ricoperto di cerume è detto esplicitamente, nella lettera, infatti, si afferma che "una mostra" di esso, cioè un campione, era stato mandato al Sig. Tommaso Cornelio di Napoli illustre medico e matematico calabrese, ed ancora che qualche "minuzia" era stata osservata ed esaminata da Luigi Marsico (autore del libro "Catanzaro nella storia", Ed. 1973, da cui è tratto il presente articolo), si trattava, a suo dire, di una specie di "pece bruna ed addensata" che non dava cattivo odore. Come classificare questa materia? Non è possibile dare una risposta soddisfacente, le notizie al riguardo sono molte vaghe, si accenna, infatti, ad una certa somiglianza con la pece, è da supporre quindi che si sarà trattato di un qualche unguento o di un qualche altro intruglio denso che noi non conosciamo. A questo punto non ci resta che concludere sullo scheletro, tentando cioè, se possibile, di stabilire una sua qualche generica identità. Chi fu? Fu un guerriero, un sacerdote, un nobile oppure uno dei tanti paria della vita nati a soffrire e pensare? Non sappiamo. Appartenne all'età preistorica, alla magno-greca, alla romana, o si deve ancora scendere nei secoli? Nulla possiamo dire. Se nella lettera del Cappucci vi fosse stato un qualche accenno al corredo funerario trovato nella tomba (se vi fu trovato), o se per lo meno fosse stata descritta la tomba stessa, di esso si sarebbe potuto determinare l'età, ma dalla notizia nuda e povera del solo rinvenimento nulla si può dedurre. Possiamo dire soltanto che, trattandosi di uno scheletro, si deve pensare ad un cadavere inumato, e che questo genere di sepoltura, l'inumazione, era praticato in età preistorica dalle popolazioni indigene calabresi, mentre l'incinerazione, ossia la cremazione, era in uso presso i Greci e i Latini. Ma all'infuori di questo null'altro si può dire; troppo poco per la verità.
* Titolare del sito Calabria Mistery