Parghelia. Terremoto del 1905. Ciò che rimane della
Chiesa di Maria SS. di Portosalvo

TERREMOTO E SOCCORSI
(Breve relazione dei fatti di Calabria)

di Quasimodo
(dic. 1905)


Non è dato sapere chi sia l'autore di questa breve relazione pubblicata a Napoli nel 1905 dalla tipografia Vitale e nel 1991 ristampata in anastatica dall'editore Brenner. Nell'OPAC del Polo Bibliotecario della Regione Calabria l'opuscolo viene assegnato erroneamente a Salvatore Quasimodo che in quel periodo poteva avere quattro anni.
Invece si tratta sicuramente dell'articolista Quasimodo (pseudonimo?) citato nel lavoro on line di Michele Aiello "Riviste e giornali pubblicati in Monteleone Calabro (1862 – 1945)" quando si parla a proposito del periodico monteleonese "La Risposta" pubblicato intorno al 1892  e dove si trovano due suoi scritti.
 
 
Ai poveri morti del terremoto
perchè non invidiino i vivi.


 La Calabria, per chi non lo sapesse, è geograficamente e politicamente una regione d'Italia: la terra di essa è fertilissima e gli abitanti, come dai più si crede, non sono Cannibali, nè Esquimesi, ma uomini come lo sono i lombardi, i toscani e i romagnoli, con questa differenza soltanto, che i calabresi sono più leali, più intelligenti ed hanno più buon cuore di essi.
E' una terra però senza alcuna industria, e la ragione di ciò è nella mancanza di strade ruotabili e ferrate, nella deficienza di porti, nella malaria, che infesta buona parte del territorio e nelle tasse che superano spesso le entrate; non già nell'inerzia degli uomini e nella degenerazione della razza. E' poi ricchissima di messi, di vino e di oliveti; ma cessa di esser tale, quando per placare l'ira d'un esattore si è costretti a vendere il vino mosto al primo arrivato, o a dar le fruta ai porci, perchè mancano i mezzi di portarle altrove. Nè manca il Capitale, perchè i milionarii si contano a decine; ma a che servono i loro milioni quando eglino non han fiducia di sè medesimi e li tengono nascosti, o compran titoli anzicchè metterli a frutto e far vivere gli altri?
Queste son le condizioni generali della Calabria, che non ho creduto fuor di proposito dire.
Ma senza altro preambolo incominciamo subito a dire del terremoto e dei suoi effetti, e per darne un'idea chiara e precisa credo bene esaminare minutamente un paesello prima e dopo del disastro. E a tale intento scelgo Parghelia, perchè è il paese dove mi fermai di più nel mio giro.

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Questo piccolo borgo d'un paio di migliaia di uomini era situato in un incantevole sito fra la montagna e il mare; ma molto più vicino a questo che a quella: l'aria che vi si respirava era salubre abbastanza, la gente laboriosa, generalmente onesta e di gran cuore. Era privo però di buon'acqua, di una fognatura igienica e di strade sicure, ma solo per incuria degli amministratori locali, perchè la natura dal canto suo vi aveva provveduto in parte.
Il mare vicino poi chiamava a sè la maggior parte degli uomini, e si può dir tutti i giovani indistintamente e li portava lontani a farsi ricchi. E per la vicinanza di questo poi e della stazione ferroviaria, che si poteva dire la prima casa che s'incontrava entrando nel borgo da Portosalvo (viale bellissimo ombreggiato da due file di acacie, e così detto dalla bella chiesetta dei marinai, che sorgeva là, dove il viale termina per formar strade) non mancava un pò di traffico di aranci in autunno, e in tutto l'anno del caolino che si scavava sul vicino colle e facea viver tanti. Non vi erano poi che pochi contadini, perchè l'oro di America aveva richiamati a sè la maggior parte, e pochi proprietari destinati in quei luoghi a morir di fame facendo conti. Il paese quindi non era abitato costantemente che da questi ultimi, dai pochi contadini rimasti e dalle donne, coi loro bambini, e neppur dai vecchi, chè la maggior parte dei giorni e delle notti dell'anno li passavano pescando.
Questo era Parghelia quando c'era.

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La notte del terremoto quindi a Parghelia non vi erano che i pochi proprietarii, le donne coi bambini ed i malati, poichè i contadini erano a guardar le vigne.
Era la notte dell'otto settembre, giorno in cui in Calabria si fa lo sgombero da chi non ha casa.
Ed ecco come mi fu descritta la scena da un giovane, che non dagli abiti, poichè vestiva male come tutti gli altri, ma dai modi urbani e dalle parole ho riconosciuto per un benestante che aveva studiato, o stava studiando ancora - << Si ebbe a cominciare da Giugno un caldo soffocante; il sole bruciava maledettamente ed alla sera andava giù nell'acqua rosso, rosso come una brace, ed a quell'ora nei primi di settembre si notava fumar Stromboli fuor dall'ordinario. Le prime ore della notte poi erano caldissime, l'aria pesantissima e uggiosa che faceva passar la voglia persino di fumare, e in essa, stando in luogo solitario si ripercuoteva qualche rumor sordo lontano, ma di questo non si faceva caso. La sera del terremoto però i rumori furono più frequenti, la noia maggiore e le stelle cadenti si notarono a decine: però niente si previde e si andò a letto come di solito, ma sicuri di non dormire per il caldo.

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<<Erano le due ore e 45' dopo la mezzanotte, quando d'un tratto ci vedemmo svegliati da un turbine tremendo; pareva che tutto l'inferno si fosse scatenato contro le nostre povere case. E per averne una piccola idea basta forse immaginarsi di essere in treno velocissimo in discesa, sotto una galleria e all'oscuro, e in questa fra tuoni e rombi spaventosi giù da ogni lato pietre, mattoni, pezzi di muro, tavole, tegole, travi, vetri, quadri, bottiglie, lumi e quanto altro vi può essere in una casa: e tutto questo inferno durar quaranta lunghissimi secondi!.... Finito appena però, saltar giù dal letto, cader parecchie volte fra i rottami in quel buio d'inferno e rialzarsi, aprir le porte con sforzi enormi, pure avendo contusioni, scalfiture, piaghe in tutto il corpo, e via per le scale gridando, chiamando aiuto e invocando santi, fu affare d'un minuto.
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<< Fuori non si vedeva più nulla tanto era fitto il polverio che saliva dalle macerie, ma questo a poco a poco diradandosi permise che l'un l'altro ci potessimo vedere in viso. Tutti eravamo in istrada, chi in camicia, chi coi soli calzoni, chi avvolto in un lenzuolo e qualcuno interamente nudo, chè forse per il gran caldo era costretto a dormire in quel modo, rincantucciato cercava covrirsi con le mani le vergogne. Si udivano intanto pianti disperati, singhiozzi e grida di pietà. Era poi un domandarsi scambievole, un comune abbracciarsi, un correr frettoloso in cerca di parenti, un andirivieni di gente che piangeva...
<< E in questo mentre si sentiva lontano il rumor sordo di case che crollavano a cui seguivano gridi angosciosi.... e si parlava di morti e di feriti, e si correva sul luogo frettolosamente, ma non si giungeva neppure che si udivano altre case crollare, e sempre nuovi gridi. Una voce robusta tuonava lontano, una donna strillava tanto che assordava, un povero prete correva come matto da un luogo all'altro scalzo e con la sola veste. E qui si ascoltavano fiochi lamenti e non si sapea donde venissero, là si scorgeva un braccio agitarsi fra le pietre; in un canto una donna quasi nuda gridava disperatamente, e si era sciolte le trecce e con esse si nascondeva il seno del tutto nudo; un'altra, curva al suolo tenendo con una mano un lumicino (e non si sa come abbia fatto ad averlo ed accenderlo), scavava con l'altra fra un monte di macerie, donde diceva di aver sentito venir fuori la voce di sua figlia, che in realtà fu poi trovata viva e con altri parenti, i quali, incontratala per via, se l'erano portata seco fuor dell'abitato; un'altra ancora nel buio d'un tugurio si stringeva al petto il corpicino freddo d'una sua creatura, e lei medesima non sapeva quale delle sue fosse, chè nella sua casetta si era sprofondato il pavimento e i figli li avea perduto tutti, dato il pavimento e i figli li avea perduto tutti, restando lei miracolosamente salva; un giovane, sposo da poco, gridava perchè gli si togliesse di dosso il cadavere della moglie; un povero vecchio rimasto con le gambe dentro pensolava da un muro, gridando, che lo si liberasse dalla morte, e morì di fatto; e così via via altri cento casi più pietosi ancora. Come Dio volle però dopo tre ore di angoscia fece alba finalmente, ed allora ognuno potè contare i suoi morti ed abbracciare i vivi. Settanta furono le vittime e più di cento i feriti: due famiglie finirono completamente.
<< All'alba seguì il sole che di mezzo ad un cielo di zaffiro illuminò quell'ecatombe di martiri avvolti fra le pietre. Amara ironia !
<< Ma beati loro, quelli che morirono, perchè non videro lo strazio che gli uomini avrebbero fatto di loro se fossero rimasti vivi !

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<<Quel mattino il paese era solo dei morti, perchè i vivi erravano per la campagna o sulla via ferrata e di là contemplavano con occhio impietrito il loro paesello distrutto, la casetta dirupata, i loro arredi, le loro piccole economie, tutto irremissibilmente perduto.
<< I feriti poi erano anch'essi in campagna distesi per terra, chi sotto un albero, chi in prossimità d'un muro per riparare dal sole. Non vi era che un sol medico in principio, poi giunse l'altro; ma come medicare? Senza ferri chirurgici, senza medicinali? Le ferite furono lavate con acqua fresca e si fasciarono con stracci, qualche impacco per mancanza di ovatta si fece con foglie di fico e qualche sutura con l'ago comune. Ma la carità della vicina Tropea ci venne subito in soccorso, e fu allora, che, venuti molti medici e molto materiale per medicare si sfasciarono le ferite e si rimedicarono regolarmente. E fu poi la stessa Tropea che fornì il pane per quella sera.
<< Si telegrafò intanto a destra e a sinistra, ma non giunse risposta da alcun luogo, e si seppe poi che la linea telegrafica era interrotta; malgrado questo però non si disperò della Provvidenza. E non sperammo invano, perchè non erano ancora le 10 ore antim. quando si vide giungere una compagnia di soldati. E il fatto andò così: la compagnia era diretta a Perugia e il comandante di essa, il Capitano B. saputo del disastro lungo il viaggio, perchè veniva da Reggio, s'intese in dovere (forse in quel momento ricordò di essere uomo oltre che militare) di trasgredire l'ordine e di fermarsi sul luogo del disastro per darci aiuto. Si pensò subito allora ai poveri morti, nella speranza ancora di salvare qualcuno (e qualcuno si sarebbe potuto davvero salvare, perchè morì di fame, come poi fu visto) e si era già cercato per vanghe e zappe quando si sente squillare la tromba - la compagnia parte perchè il Capitano non ha avuto risposta a un telegramma, ed è per giungere il secondo treno - E allora i mortii ed i sepolti vivi rimasero al loro posto e non si potè fare altro che augurare buon viaggio al Capitano, che si pentì di essersi mostrato uomo e preferì di restar militare ! Si aspettò poi lunga pezza la nave ospedale per i feriti; ma che nave d'Egitto, se non si pensò neppure di mandare una barca di calce, per una qualsiasi provvisoria disinfezione ! Pochi feriti, i più gravi, furono però accettati nell'ospedale di Tropea, e a quel paese dobbiamo esser sempre grati di quel che fece.
<< Intanto mancava il pane: questo però non si fece tanto aspettare, e con esso tornò di nuovo lo stesso Capitano B. con la medesima compagnia, e sotto il suo comando si distribuì il pane per la prima volta. E fu allora che un graduato addetto alla distribuzione, per far presto, ebbe la felice idea di rompere la testa a qualche affamato, che insisteva di più nella folla, scaraventandogli contro qualche pagnotta. Ecco quel che fanno in simili circostanze gli uomini di cuore, dalle molte giubbe, che tengon su alta la nostra gloria !
<< E i morti intanto dormivano sotterra e per qualche giorno ancora avrebbero dovuto pazientare in attesa del Genio. E il Genio infatti passò solo da noi quattro giorni dopo il disastro; ma esso era diretto a Pizzo, dove non vi fu che qualche vittima soltanto, e di là poi sarebbe ritornato a Parghelia.
<< Saputosi questo si corse alla stazione ferroviaria, si supplicò, si pianse; ma a nulla valsero le nostre lacrime, nè valse a persuadere quel comandante il puzzo nauseabondo che centinaia di carogne di uomini e di animali esalavano di sotto alle macerie. Ed il Genio andò così a Pizzo, e parte di esso il giorno dopo rifece i suoi passi e venne a Parghelia.
L'uomo macchina non può deviare d'un centimetro ! >>

A questo punto erano le cose quando io giunsi colà.

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Si attendeva intanto riparo dal governo e si sperava molto nella venuta del ministro Ferraris dei lavori pubblici. Però si era sempre con poco pane e si stimava fortunato qualche povero diavolo, che aveva potuto avere un carro ferroviario da abitare con la famiglia, e dove poi per carità doveva ammettere per lo meno una dozzina di parenti, chi acciaccato dagli anni, quale ammalato, e chi ferito, per non lasciarli morire su la strada: basta dire che in un carro capace solo di 10 tonnellate si passava la notte in ventidue persone.
Tolti questi fortunatissimi mortali, il resto della popolazione vagava per la campagna tutto il giorno dando la caccia ai fichi, e in parte cercando di vendemmiar le vigne innanzi tempo, ed alla sera poi si ricoverava in qualche pagliaia o sotto una coperta messa a guisa di tenda, come fanno gli zingari.

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Quel che però fece sperare non poco e fa sperare sempre fu la venuta del Re.
Si sapeva da tutti che il Re era in Calabria e che in automobile girava su per le montagne; ma a Parghelia si aspettava che arrivasse col treno per la mancanza assoluta di strade che quivi si deplora. Si vide però verso sera da qualcuno una nave ancorata fra la riva e Stromboli, e con sconforto si pensò alla partenza del Sovrano il giorno dopo. Ma invece fu tutto il contrario.
Erano le 5 ore del mattino, ed a quell'ora in settembre è alba appena, quando si videro passare a piedi lungo la via ferrata un gruppo di generali. Allora si pensò subito al Re. Ma era mai possibile? Il re a piedi per quella strada come un borghese qualsiasi?... Tuttavia si uscì dalle capanne e si andò loro incontro tutti piangenti ed invocanti soccorso. Che grata sorpresa ! Era davvero il Re accompagnato dal suo ministro Ponzio Vaglia e da Brusati. Fu allora che sul volto di tutti si dipinse un non so che di giubilo, e con tutta l'effusione dell'animo si gridò: Viva Savoia !
Il giovane Re commosso sino alle lacrime passò in mezzo alla folla che più commossa di lui gli benediceva di cuore e gli chiedea soccorso. Egli poi guardò con pietà i poveri feriti, che, seduti in vicinanza dei carri ferroviarii, o stesi su la paglia, con una cera bianca che faceano pietà e col cappello in mano facevano ogni sforzo per vederlo; e tutti ebbero da lui un saluto, una parola d'amore, una carezza. Tutto vide il Sovrano, tutto volle osservare attentamente, e benignamente accolse anche qualche supplica scritta col lapis forse, e chi sa come. Egli poi sempre a piedi saltellando fra i rottami percorse il paese da un capo all'altro: passò sotto un campanile, che minacciava di cadere da un momento all'altro, passò sotto case crollanti e fece sentieri accessibili alle capre soltanto. Il popolo intanto lo ammirava commosso e colmandolo di benedizione lo accompagnò sino al mare: Quivi giunti il re ed i generali montarono in una barchetta ed il popolo schierato sulla spiaggia non si stancava mai di benedirlo e di gridargli: Evviva !, di domandargli pane ed un tetto per passar la notte. E quando la barchetta si mosse dal lido un ultimo grido di evviva echeggiò forte nell'aria, e cento fazzoletti con altrettanti cappelli si agitarono in essa. Così il Sovrano si allontanò da noi salutandoci con la mano finchè potè.
Il mare era calmo, e la barchetta correva leggera su di esso in direzione del piroscafo, che si era di molto avvicinato alla riva e incominciava a fumare in un cielo opalino e bello più del mare. Presto però la barca si nascose dietro di esso e non si vide più.

Si attese poscia lungamente Fortis, perchè dopo la venuta del Re, quella del Presidente i Calabresi la ritenevano un dovere addirittura, senza sapere, poverini, che Fortis più che terremoti ci vogliono banchetti ! La Calabria però non sarà certo grata a lui del suo modo di procedere verso di essa, terra di martiri e di briganti onesti; mi si permetta la frase.
Ma sarà sempre devota al suo Re, che lasciato il soggiorno di Racconigi e le sue gioie domestiche andò a piangere con i suoi figli, abbandonati al proprio destino nell'estremo canto d'Italia.
Ricordino però i rappresentanti meridionali, che l'abbandono in cui sino a oggi è vissuta quella buona gente, e il Re l'ha visto, pesa sulle loro teste come la spada di Damocle, e che guai se i Calabresi ridiventano briganti !

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Il popolo, dopo la venuta del Re, incominciò a vivere di speranza e compiacevasi grandemente delle notizie lusinghiere dei giornali, dei telegrammi di condoglianza che giungevano all'Italia da ogni dove, e si ringraziavano di cuore tutti i benefattori delle loro offerte. La miglior manifestazione di affetto ed i maggiori applausi li riscosse però il Mattino, quando si lesse il primo articolo molto energico di Tartarin: di quegli articoli se ne lessero poi altri due e nel leggerli si maledisse con Scarfoglio al governo infingardo, si bestemmiò maledettamente il nome di Lamberti, il disorganizzatore, e si applaudì al Sindaco di Monteleone.
Ma Don Edoardo con << La razza >> credette bene di finir la campagna, e non volle più saper nulla delle miserie dei suoi paesani. E fu proprio allora che s'incominciò a dubitare di lui e si dissero cose che tacere è bello.
Venne però intanto il legname e s'incominciò a far baracche. E qui tralascio di parlare della camorra, degli incettatori, degli appalti, dei ladroneggi e di tutte le porcherie che si commisero, prima perchè non la finirei più, e poi perchè qualche mio lettore di stomaco un pò delicato potrebbe rovinarselo forse del tutto. A me poi preme massimamente di far vedere come si andò in soccorso di quei poveri danneggiati, e quindi in che modo si costruirono le baracche, e quel che quivi giunse di tanta roba. Incominciamo per ciò a dare uno sguardo alle baracche.
Per il genio civile fare una baracca vuol dire nè più, nè meno che chiudere alla meglio con tavole un rettangolo di una settantina di mq. di terreno e dividerlo in quattro o cinque stanzucce, senza pavimento di legno, senza zinco, nè cartoni impermeabili e senza conette di scolo attorno. E detto così in parentesi ognuno di questi riposti da carbone costa allo stato 1200 lire, pagandone 500 di sola manifattura, Ed è proprio in una di quelle divisioni che devono abitare 7 persone in media, e là dormire, cucinare, mangiare e soddisfare a tutti gli altri loro bisogni fisiologici. E' solo per un pò d'igiene quando il tempo è bello qualche persona ragionevole di buon mattino preferisce andare a vuotarsi dietro una siepe o dietro un muro in campagna. Che sacrifizio per quella gente onesta !
Povere contadinelle calabresi, e, quel che fa più dispetto, povere signorine perbene, perchè anch'esse si vedono là abbandonate la maggior parte e smunte in volto che fan pietà ! La decenza però avrebbe voluto almeno che ogni vano fosse isolato, perchè non è per nulla regolare che una famiglia perbene debba essere separata solo da una tavola da quella d'un ubbriaco, che riempie, fra un rutto e l'altro, l'aria di parole oscene e di bestemmie, o che l'orecchio casto di una innocente creatura debba raccogliere nel silenzio della notte il rumore dei baci ed il sospiro affannato di due freschi sposi che si struggono di libidine. Povere famiglie oneste, povera Calabria! Se il terremoto l'ha distrutta materialmente, pare che il governo voglia distruggerla anche moralmente, e per far questo in uno di quei borghi basta una compagnia di soldati e due o tre squadre di uomini che vengan di lassù, dai paesi civili !
Tornando alle baracche. Quando è bel tempo però, vi si può stare; ma quando di notte tutta l'ira di Dio si scatena contro quelle povere tavole, e l'acqua vien giù dirottamente fra tuoni e lampi, ed un vento impetuoso, che gela persino le ossa, fischia fra le tavole mal connesse? quando quella povera gente vi vede venir dentro acqua da ogni lato e si trova all'oscuro col letto, con gli abiti bagnati, in camicia, tremante di freddo coi bambini che gridano!... Oh allora!... Povera gente, povere madri ! Bisogna non aver cuore in petto per non piangere.
E a tutti questi guai se ne aggiunge ora anche un altro: un'epidemia: il tifo. Quindi che fare? Convien scappare fuggire per salvar la pelle, quel che il terremoto forse per ironia lasciò a parecchi. Ed ecco quindi qualche benestante andar via da quel luogo e cercare altro paese; ecco i marinai tornar dai loro porti e menar seco la moglie e i figli; ecco gli emigrati che tornano in patria e portan via i loro superstiti a New Jork o in siti più lontani ancora; ecco non pochi benestanti emigrare in cerca di ricovero e di pane nelle lontane Americhe, poichè è certo miglior cosa andar quivi a lustrar scarpe agli inglesi, anzicchè morir di fame, o vivere abbandonati sotto il bellissimo cielo d'Italia.
E così il governo d'Italia un pò per volta si toglierà di dosso quella regione di zotici e di babuini, che oggi gli dà tanta noia, e potrà aver agio di badare con più interesse alla simpaticissima nostra Eritrea, che vale tanto sangue quanto pesa ! Se ha poi questa felice idea che metta almeno a disposizione dei parenti un qualsiasi legno, perchè quei poveretti non abbiano a ricorrere per il viaggio agli strozzini, che sono la più straziante piaga di quelle terre.

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Chi amministra poi e come si amministra Parghelia?
Chi lo amministra? Non si sa. Non vi è sindaco perchè è di residenza stabile in una frazione del Comune e pensa solo a quella, e fa tutto a suo modo; il vice sindaco, un simpatico vecchietto, curvo dalla persona, uomo onesto a tutta prova e dabbene, lavora, poverino, da cane tutto il giorno; ma il suo lavoro è di ben molto poca utilità per il suo poco contegno e non molto ingegno; è niente ubbidito, e spesso messo alla berlina dagli stessi usceri; un commissario prefettizio comanda anch'egli la sua parte, ed ha la facoltà di farlo; il comitato locale vuol tutto dirigere e ne avrebbe ragione, al contrario dei militari, che di tutto invece dispongono a loro modo. Ma non si tratta in fin dei conti di governare il celeste impero de la Cina ! Ma si può benissimo poi dire: il prefetto ed il sottoprefetto da cui quel borgo dipende non san poi nulla di tutto questo caos, dei tanti diversi piloti che governano si picciol legno? Nulla dunque sanno i superiori dell'anarchia che regna in quel paese?
Della lotta che si fanno i diversi e molteplici amministratori, dei dissidi che vi sono nel Consiglio Comunale, della lotta fra comitato e militari nella divisione dei soccorsi che giungono continuamente da ogni dove?
Ho detto soccorsi; ma vediamo che s'intende laggiù per soccorsi. Che giunge in aiuto di quel paese? Si ebbe per più d'un mese, e forse se ne ha ancora, roba in abbondanza e tutta roba buona: giacchè sudice, calzoni rattoppati, soprabiti verdi, ma che anche a un poco fine osservatore davan segno di essere stati neri un giorno, vestiti da donna del secolo di madame Angot per lo meno, sottane lacere, due code di rondine che sarebbe stato forse meglio mandare al museo di San Martino a Napoli, perchè da molti si dubita che li abbia indossati Poerio, pochi cappelli unti e bisunti, tanto che con essi si sarebbe potuto benissimo fare il rancio a un reggimento intiero, sottane da donna e camicie foracchiate da topi se non da ratti addirittura, a volerne giudicare dai fori, un cilindro scassato e cento altre antichità preziose di simil genere. Questo ebbero i poveri, e se in tanto vecchiume si trovò qualche indumento nuovo, o qualche utensile, o coperta, o stoffa di valore non mancò certo un ladro che li sapesse carpire impunemente.
Questo è quel che giunse in Calabria fin ora dei milioni che si son raccolti; questo laggiù pervenne delle vostre robe, o caritatevoli commercianti, dei vostri abiti di seta, dei vostri doni, o pietosissime signore, o nobili uomini di Napoli specialmente, che vi siete spogliati per vestir quei miseri ! Però i Calabresi sanno i vostri sacrifizii e le vostre offerte e vi saranno parimenti grati, ed i magnanimi ladri d'Italia pensino che hanno commesso il maggior dei delitti.
I benefizii che si videro furono solo quelli della città di Milano, e le quaranta baracche fatte, a Parghelia, da essa con intendimento umano resteranno ad imperituro ricordo della città, che forma il nostro vanto presso le nazionii civili.

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Ora se queste sono le condizioni di un paese fortunato che prima del terremoto aveva tutti i vantaggi d'uno di quei grandi borghi che in Calabria si dicono città, figurarsi in che condizione disastrosa debbono oggi trovarsi le piccole borgate di montagna in cui gli uomini facevan vita comune con le bestie, e vedevano un sol giorno alla settimana il medico condotto, che tutto imbacuccato non vedea l'ora di sbrigarsi! Figurarsi quelle povere cure di Daffinà, Fitili, San Leo, Zaccanopoli, Brattirò ecc. nascosti in una sola gola di montagna o messi in cima ad essa, senza strade, dove non giunge passeggier se non smarrito, e di cui non si seppe mai l'esistenza! Adesso però che il governo li ha scoperti, adesso che sa che il governo li ha scoperti, adesso che sa che fra quei monti si annidano degli uomini (i quali benchè ignorati pagarono sempre le tasse come gli altri), vedremo che si benigherà da fare per essi.
Certo è, tanto per concludere, che fino a oggi niente il governo ha voluto fare.
In un disastro simile forse non sarebbe stato inopportuno convocare la Camera d'urgenza, a deliberare tanto quanto basta per far due corazzate solamente, per sollevare tre provincie intiere di poveri infelici, che son nostri fratelli in fin dei conti. Ma dove trovarne i fondi? Dove? ! Dove si troverebbero forse altri cento milioni per la marina. Nè sarebbe stato forse fuor di proposito dare un occhio alle baracche - furto; provvedere subito alla sicurezza di tanti infelici inviando qualche reggimento del Genio militare, togliendolo anche dalle grandi manovre, poichè più importante di esse era la vita d'una regione intiera, e mandare sul luogo soldati a far pane, come si fa in tutte le città quando scioperano i fornai. E per tutto questo avrebbero dovuto prender parte attiva i deputati locali e non lasciarsi sfuggire un momento tanto propizio, ad ottener tutto, poichè si era tutti convinti allora delle condizioni miserrime di tanta gente italiana, abbandonata al proprio destino in mezzo ai monti, e non aspettare che si raffreddassero le cose e la questione di Calabria passasse di second'ordine.
Nè mai essi però, se avessero avuto cuore, avrebbero dovuto permettere che alla Calabria, a quella terra di forti, che non tanto pensarono quanto fecero nella formazione d'Italia, si facesse la carità in quel modo, così barbaramente, così meschinamente. Che se i Calabresi non fossero stati gente asservita, inerte, senza ideale, e per l'incuria del governo sfiduciata di ogni probabile risorsa, avrebbero certo sdegnosamente respinto non l'aiuto, ma l'elemosina del mondo intiero, quando come regione d'Italia aveva diritto di essere aiutata in tutto dal suo governo direttamente.