Vicende napoletane del sonetto tra manierismo e marinismo
(In margine a una recente antologia)
Da <<Metrica>>, I, 1978, pp. 225-239
di Giovanni Parenti
Col terzo libro della raccolta Giolitina (1552), i signori napoletani si presentarono all'Italia letterata come gruppo non soltanto geograficamente omogeneo, bensì accomunato anche da un'adesione libera e franca al modello petrarchesco, opportunamente temperato da salutari sbandate eclettiche verso esemplari rispetto ad esso eterodossi (magari i lirici prepetrarcheschi della Giuntina del '27).1 Nel 1585, Scipione delli Monti metteva insieme, con gli oboli poetici di professionisti e poeti della domenica, di grandi feudatari e pagliette di provinia, di scrittori affermati e firme nuove, di regnicoli e non, l'imponente raccolta in onore di Giovanna Castriota. Tra queste due date, nella storia della lirica napoletana, si determinarono, con punti di più intensa coagulazione intorno al 1560 (anno di pubblicazine del Nuovo Petrarca di Lodovico Paterno, dei tanto più originali e ricchi di fermenti Sonetti in morte della S. Portia Capece sua moglie e dei Sonetti et canzoni di Bernardino Rota) tendenze abbastanza forti alaaa riduzione delle risorse del'esercizio poetico al solo repertorio retorico del sonetto petrarchesco quale palestra ideale per spericolate esrcitazioni manieristiche. Promossi specialmente da Ferrante Carafa, un gentiluomo affetto da nevrosi etimologica, in verso (<<Carafé>> è, prima del titolo famoso del 1580, il suo emblema fin dal 1552) e in prosa (tra i primi capolavori del'Anonimo manzoniano è l'arguta interpretatio del cognome Giron contenuta nelle sue memorie edite da S. Volpicella nel vol. V, 1880, dell'<<Archivio storico per le province napoletane>>, p 246), e da un petrarchista al quadrato, precoce e incontinente, come il Paterno (siano, questi due nomi, le punte saienti del diagramma di una patologia insidiosamente diffusa più presso i minori e i pusilli che accusata da quanti, il Rota o il Costanzo, potessero ricorrere al contraccettivo della tradizione umanistica sannazariana e propendere piuttosto a certo concettismo), tali esercizi, che sviluppavano talune idicazioni manierose offerte da una figura chiave della poesia meridionale, Marcantonio Epicuro2 (poeta d'unore parodistico e emblematista arguto, egli assomma in sè le due principali componenti del Cinqueceno poetico napoletano, la manieristica e la concettosa), consisterono in una moltiplicazione incontrollata delle strutture cellulari del linguaggio petrarchesco, che finì con l'esaurirne le possiblità combinatorie del codice, saturandone i canali della comunicazione. La degradazione della parola a simbolo algebrico di una realtà conclusa e esaurita nell'universo linguistico del Canzoniere riuscendo all'insignificanza di una poesia de dreyt nien, e la proliferazione sconsiderata di moduli identici alla necrosi del tessuto logico e della struttura metrica del discorso poetico, apparve in piena luce, nelle vicinanze del secondo termine cronologico prodotto qui sopra, la necessità vitale di sottrarre alfine l'esercizio della poesia al cerchio angoscioso del rispecchiamento narcisistico, per reintegrarne il linguaggio nella funzione referenziale, connaturata a ogni classicismo, sia pur quello allucinato e capriccioso dei manieristi. La forma netrica che lo scorcio del secolo trovò maggiormente usurata e prossima già all'incoerenza era, ovviamente, il sonetto: luogo eletto ai deliri nomenclatori dei signori napoletani, per l'originaria sua vocazione all'elenco, al parallelismo e al contrasto, nelle predilette figure in verbis coniunctis dell'anafora e dell'ossimoro, esso esaudiva il desiderio di sterilità ripetitoria dei suoi stralunati manipolatori, senza d'altra parte (causa l'isometria, la controllata varietà degli schemi di rime e la costrizione procustea dei quattordici versi) concedergli la tradizionale compensazione alla perdita di peso semantico: l'evasione melodica nella pura sonorità, resa viceversa possibile dall'estrosa eterometria e dagli aleatori incontri di rime del suo consorte in efficace bravità, il madrigale. E' infatti proprio in soccorso della veneranda e periclitante istituzione metrica, stavolta altresì dagli ardimenti sintattici dei numerosi settatori meridionali dello stile dellacasiano,3 che Vincenzo Toralto si mosse per lanciare ai contemporanei, tra questi tenendo d'occhio specialmente i conterranei, il suo richiamo all'ordine, consegnato a La Veronica o del sonetto, un trattatello accolto, nei passi che immagino più significativi, dall'antologia di documenti teorici e componimenti poetici d'ambiente napoletano, recentemente (Roma 1973) apprestata per le cure rispettive di Giulio Ferroni e Amedeo Quondam, sotto il titolo suggestivo di La <<locuzione artificiosa>>. Teoria ed esperieza della lirica a Napoli nell'età del manierismo. Utile per la ricchezza di materiali, molti dei quali, per essere stati trascurati fin dallo zelo erudito, ma non onnivoro, dei letterati e editori settecenteschi, erano non più editi dal Cinquecento, l'antologia si fa notare anche per l'audacia del taglio critico e per la novità delle proposte, in special modo di quelle avanzate, con piglio provocatorio non privo d'efficacia, dal secondo dei curatori, la cui generosità, dato il carattere abbastanza pioneristico della ricerca e l'accidentato e ingannevole terreno d'indagine, deve essere incondizionatamente ammirata, ma non può, a mio parere, essere assolutamente assecondata. L'impostazione sociologica del saggio introduttivo alla scelta dei lirici (Dall'abstinendum verbis alla <<locuzione artificiosa>>: il petrarchismo come sistema della ripetizione) e dei cappelli imposti a ognuno di essi, senz'altro sollecita, ad apertura, l'interesse del lettore, nel vedere una tale tecnica d'indagine applicata a un campo (la lirica ciquecentesca) per solito riservato, dopo le esecrazioni ottocentesche, agli esercizi trascendentali dei formalisti; ma, a forza d'ascoltare oracoli francofortesi, profferire dietro una cortina fumogena sessantottesca sbrigative sentenze in raffiche di rudi omeoteleuti (un solo esempio da p. 371: Dalle "raccolte" emerge nettamente la proporzione storica del petrarchismo come scrittura di massa - alienata e reificata - e come momento reale di egemonizzazione della produzione di testi che segnala il processo di degradazione in atto nel ruolo dell'intellettuale [...], si comincia ragionevolmente a dubitare che per tal via una legittima critica letteraria d'impostazione sociologica possa restar soddisfatta proprio nella sua ambizione statutaria, l'analisi cioè dei nessi tra politica, società e cultura (e, eventualmente, come qui si tenta, istituti retorici della comunicazione poetica) in un contesto storico determinato. Nessi reali, ma veramente, come lo stesso Quondam (p. 231) è il primo a riconoscere, di non immediato risalto e perciò tanto più difficilmente percepibili al poco lume di categorizzazioni astratte e indifferenziate (<<petrarchismo>>), di spunti interpretativi socioeconomici (p. 212 <<rifeudalizzazione>>) taumaturgicamente invocati per illustrare personalità diverse anche sotto il profilo sociologico, come il Costanzo (nobiltà di seggio) e il Tarsia (feudalità della provincia di Calabria), e di teoremi di filosofia marxista (p. 233 sull'alienazione storica del <<ruolo dell'intellettuale-letterato, del produttore di testi>>) che, addetti a interpretare senza tramiti di schemi intermedi, magari i versi plurimembri del Paterno (p. 341), ma non verificati in un esame concreto della società e dei gruppi di potere, nè quantificati in una ricerca positiva sulla produzione dell'industria culturale cinquecentesca, sembrano rimanere allo stato di brillanti metafore critiche o di aspirazioni programmatiche espresse in modo piuttosto apodittico. Il rischio di tali generalizzazioni, che una più ravvicinata e differenziata analisi dei momenti dell'evoluzione storica e delle vicende delle singole personalità, condizionate dalle caratteristiche sociali (sempre aristocratiche, è vero, ma non per questo omogenee), di stato (clericale o laicale) e culturali (i rapporti, più o meno stretti, con la cultura umanistica o con quella filosofico-scientifica) avrebbe, se non evitato, ridotto, e dal quale il Quondam non sempre si è guardato, magari risolutamente trasformando la storia letteraria in storia civile del Regno di Napoli, è quello, tanto più evitabile quanto più noto, di scadere (o di innalzarsi) dalla storia alla metafisica. Una metafisica conforme a un'antropologia materialistica e ammantata perciò di scientismo, ma neppure immune (in zone peraltro circoscritte) da atti di culto dello spazio letterario, nel gusto un po' cabalistico di certa nouvelle critique (p. 226: la <<situazione strutturale del manierismo, nella sua peculiare ricerca dell'altro nello stesso>>). Naturalmente, di tale metamorfosi della storiografia in metafisica e in ideologia (la <<deideologizzazione della critica idealistica>> di cui quest'antologia si vanta, p. 227, promotrice, si manifesta, sì, nel criterio, non qualitativo ma rappresentativo, di scelta dei testi, senza tuttavia riuscire, sostituendo idoli a idoli, a sbastigliare con ordigni attendibili, nonchè tutta la <<tradizione della storiografia borghese>>, neppure l'ancor nobile castello crociano) risente, prima dei diretti interessati napoletani, l'intera questione della lirica cinquecentesca. Nella considerazione della quale viziano il discorso di Quondam principalmente due difetti: una deformazione specialistica che fa il deserto intorno all'area napoletana e ai settari della <<locuzione artificiosa>>, e un persistente preconcetto anticlassicistico che, portato nello studio della letteratura del nostro Cinquecento, equivale a privare l'indagine di quell'eccipiente di storicismo di cui il più ideologo degli storici non può, pena il suicidio, fare a meno, sostituendo altezzosamente le sue proprie alle misure del passato. La riforma bembiana del linguaggio lirico non poteva, dati i tempi, non aderire in pieno alla logica del principio d'imitazione e se, in sede teorica, giunse a esclusioni recise e a un canone schifiltosissimo d'autorità, lasciò tuttavia nella pratica, garantita dall'esempio stesso del cardinale, un non troppo ristretto margine d'iniziativa all'immaginazione e agli umori personali. L'invito del Bembo alla selezione dei contenuti, al rigore linguistico e all'ascesi dello stile, plebiscitariamente accolto fece sì che (p. 214) <<la storia dell'esperienza lirica>> cinquecentesca non evadesse <<i termini definiti e non valicabili di questo [del Bembo] codice>>, ma il fenomeno della (p. 220) <<lunga durata cronologica [dell'"istituzione petrarchistica"] come protrazione ripetitiva, mimetico-agonistica rispetto al modello>>, non era una conseguenza qualificante il modello stesso, bensì una delle tante conseguenze deducibili da esso e, di fatto, dedotta dai più rigorosi, sterili e si dica pure alienati manieristi napoletani: i Paterno, i Carafa - beninteso, non in tutta la loro produzione - e simili (che il Quondam, per comprensibile fastidio delle pleiadi tradizionalmente costituite, carica del peso davvero eccessivo di rappresentare un'intera situazione storico-letteraria) ma non (o in misura assai limitata), per tacer d'altri e sommi (Costanzo, Tansillo, Tarsia), dal <<regolare>> - come qui (p. 225) si afferma, salvo poi contraddire l'asserto con una scelta di testi stavolta piuttosto tendeziosa - Bernardino Rota,4 capace, come del resto più d'uno dei troppo diffamati 'petrarchisti', di approfittare degli spiragli che il codice bembesco lasciava aperti a un'aemulatio originale, di combinare a proprio piacimento gli ingredienti di una ricetta confezionata da altri. Francamente, riesce difficile incontrare in rerum natura un sistema linguistico e letterario di così soffocante tenuta contro gli influssi esterni come il 'petrarchismo' immaginato in questo saggio del Quondam, mentre è noto che il rilancio di Petrarca da parte del Bembo non mancò di incontrarsi e magari scontrarsi con proposte alternative (non penso tanto all'ancor abbastanza misterioso Antonio Brocardo, quanto a colui che in certo senso può dirsi il suo ideale prosecutore, Bernardo Tasso, un nome ingiustamente bandito da queste pagine), nè di avvantaggiarsi del contributo originale di esperienze innovatrici e progressive come quella del Casa, uno di quei 'petrarchisti off' verso i quali l'autore dimostra (p. 211) tanto ingiustificata insofferenza. Non solo, ma negli ingranaggi stessi del suo marchingegno stilistico-rituale il Bembo non aveva dimenticato d'inserire qualche rotella eccentrica capace di comprometterne a lung'andare la lubrificata e unidirezionale efficienza: dico il tasso rilevante di lessico non-petrarchesco (segnatamente dantesco) del suo linguaggio lirico, che significa apertura 'poliglotta' del sistema linguistico di base verso sistemi limitrofi, e le suggestioni della poesia classica e neolatina, per esempio di certi sonetti di familiare commercio con amici che ampliano sensibilmente l'orizzonte culturale e fantastico offerto dal Petrarca.5 Affermare insomma, come qui (p. 221) si fa, che il <<sistema [petrarchistico] non contempla possibilità di variazioni sul piano nè dell'inventio, nè della dispositio>> o è una battuta, e allora non è nuova, ma è invenzione di Niccolò Franco quando, nell'ottavo dei Dialoghi piacevoli, beffardamente parlava dell'imitare Petrarca <<da la chierica, fino a i pantofali>>, o, se vuol essere un giudizio, non mi pare colga nel segno, nè per ciò che è di un'epoca della lirica italiana, nè per ciò che è dello specifico ambiente letterario napoletano, intenzionalmente epurato, in sede antologica, di talune componenti culturalmente assai notevoli (si veda l'esclusione del caratteristico tratto umanistico sannazariano: di certuni sonetti pastorali del Costanzo e, soprattutto, delle Piscatorie del Rota, alcune delle quali, come la III, preludono a certo 'realismo', magari dialettale, del secolo seguente). Un'eccessiva tendenza all'astrazione induce, direi, il critico a sottovalutare i meriti della funzione riformatrice avuta dal Bembo nella letteratura cinquecentesca. Una funzione che, fin nelle sue esclusioni che possono oggi apparirci troppo rigide, fu quanto mai apportuna, soddisfacendo alla domanda urgente della contemporanea letteratura volgare, di raggiungere una dignità pari a quella della latina e di ottenere, con essa, una forza di espansione, italiana, e quindi europea, che non avrebbe mai potuto possedere altrimenti. Se la sua dittatura fu liberamente accettata, non dirò dal gregge, folto come non mai in quel secolo, dei sonettanti, ma, fra i molti, da uno spirito spregiudicato e fantasioso come l'Ariosto (e la temperanza di elementi petrarcheschi e danteschi, tutelata da Bembo, è caratteristica saliente anche della lingua del Furioso), ciò accadde perchè il riconoscimento del valore esemplare del Canzoniere non comportò e non poteva comportare l'imposizione di un deterrente e onniscente decalogo (del resto, nessun codice di leggi ambisce a esaurire la multiforme casistica del reale) ma fu il suggerimento di un ideale regolativo della prassi poetica e consigliò l'impegno a scelte aristocratiche, che iniziassero i poeti volgari all'ardua scienza della variazione sopra temi illustri, in nobile gara con l'avvantaggiatissima poesia neolatina. La società letteraria cinquecentesca veniva dal Bembo <<invitata all'esercizio della ripetizione, della variazione sottile, degli spostamenti appena percepibili>>, come bene spiega il Ferroni nella sorvegliata e ragionevolissima sua Introduzione alla scelta di testi teorici (La teoria della lirica: difficoltà e tendenze, p. 14). E fu un esercizio quanto mai felice. Gli scarti dalla norma, infinitesimi a distanza ravvicinata e, singolarmente presi, quasi irrilevanti, si dimostrarono, nel loro insieme e sui tempi lunghi, tali da porre in crisi il sistema stesso che li aveva resi possibili, essendo tutt'altro che impermeabile alle intrusioni allotrie (di res come di verba), che insensibilmente lo venivano trasformando in qualcosa d'insolito e di nuovo. Senza la subdola virtù corrosiva di tali giudiziose alchimie, durate circa un ventennio dal fatale 1530, non si spiegherebbe lo scandalo della famigerata canzone del Caro, dalla parte del quale, nella memoranda polemica che ne seguì, la cultura napoletana, altro che soffocare sotto la cappa petrarchistica, immediatamente si schierò quasi anticipando la consacrazione ufficiale della sua lezione di franchezza stilistica, operata dal Marino.6 L'evento rappresentato da Venite all'ombra de' gran gigli d'oro fu tanto più traumatico quanto meno era inaspettato e gratuito. Non si trattava infatti di un velleitario gesto d'insubordinazione alla disciplina bembiana, ma del clamoroso risultato finale del lento lavorio sperimentale dei lirici della prima metà del secolo. C'era voluta tutta e non meno della loro opera, spesso oscura e talvolta di per sè inconcludente, perchè al Caro fosse finalmente possibile allentare le briglie stilistiche, e alterare e spezzare l'equilibrio originario di un sistema, addetto sì ancora, per servirsi di uno dei passe-partout quondamiani, a un <<uso alto-feudale del fatto poetico>>,7 ma, dal punto di vista linguistico che solo ci sentiamo di valutare, emancipato dal fedecommesso petrarchesco, premessa all'abbattimento dei tabù da parte della generazione della crisi petrarchistica, da parte, mettiamo, del Tasso, che, come diceva Camillo Pellegrino (p. 104) <<fa sempre scelta di parole gravissime di sentimento, e purchè sieno significanti, non ha riguardo che sieno latine, o nuove, o composte>>. Questo è, a un dì presso, ciò che sta alle spalle dell'operetta del Toralto, alla quale, ne supra crepidam, converrà tornare. Apparsa nel 1589 a Genova, essa consiste nel resoconto della discussione sul sonetto avuta in quella città così, a fine secolo, stimolante (a pensare all'influenza di un Grillo o di un Imperiali sulla poesia mariniana), da Genovino e da Partenopeo sul corpus vile di un esemplare di quel genere metrico (Se in fronte al nome vostro impresso è il vero)8 composto, in lode di una Veronica Grimaldi, dal <<nostro Risvegliato>> (forse lo stesso Toralto) e, per concettosità un pò ingenua e impacciata, non indegno di stare accanto a un sonetto come Uopo fia che pietoso stenda il cielo (in Mausoleo di poesie volgari, et latine, in morte del Sig. Giuliano Gosellini, Milano 1589, p. 112) del poligrafo vercellese Francesco Maria Vialardi,9 la cui sentenza destinata, via Veronica, a larga fortuna nella trattatistica secentesca, dallo Stigliani al Meninni (<<il far sonetti>> esser <<simile al letto di Procuste tiranno>>) è riferita con consenso (p. 170) da Partenopeo. Puntando tutto sull'unità di concezione del sonetto e sulla logica chiarezza dell'elocuzione (p. 169: il sonetto deve <<richiudere [...] un concetto finito senza oscurità>>; p. 177: <<bisogna ch'il sonetto sia intelligibile, ma pieno però di parole significanti, in modo che gli intendenti possano da quelle capire tutta l'intenzione del poeta>>), il Toralto, corroborato dalle esperienze contemporanee del Manso, del Cortese, del giovane Marino, ripropone, ribaltandoli a favore dell'Ariosto (i cui <<concetti>>, secondo l'Attendolo interlocutore del Carrafa, sono <<facili e vestiti per lo più di voci chiarissime e dolci>>) i termini della polemica divampata cinque anni prima a Napoli e conclusa dal Pellegrino a favore del Tasso, con una scelta di cui il Quondam ha illustrato tutta la portata nel capitolo I dell'importante suo volume La parola nel labirinto (Bari 1975). Ristabilito il primato della <<sentenza>> (o <<concetto>>) sulla <<locuzione>>, cioè sull'artificiosità delle ingegnose conversiones del Tasso (nella sua scrittura, p. 173, <<i concetti sono più presto vaghi per la elocuzione, che per essere nuovi e peregrini, essendo stati tutti cavati da altri autori>>), il Toralto si accosta sensibilmente alle posizioni espresse nell'altro dialogo pellegriniano, il Concetto poetico, che in certo modo può considerarsi palinodia del precedente Carrafa, e alla soluzione scientistica data dal Cortese al problema dell'imitazione e dell'espressione. Se perciò, da una parte, la lezione del Tasso (che tuttavia per il Toralto, p. 172, resta sempre il <<Tasso [...] mio Napoletano>>) è ridimensionata da queste pregiudiziali e dall'ossequio al magistero normativo della Crusca (pp. 172 sg), stata già, in persona dell'Infarinato, antagonista del Pellegrino, dall'altra, sottolineando l'importanza della novità dei concetti poetici, si pone in crisi, per il rilievo dato all'ingenium (p. 173: <<il poeta nasce>>), il principio stesso dell'imitazione (intesa ora, anticlassicisticamente, come imitazione, non delle autorità, ma delle realtà, e come congruenza di <<materia>> e <<stile>>) che, proprio in quegli anni, il Cortese veniva risolutamente scalzando, vilipendendo con furia iconoclastica l'immagine paterna del Bembo, e che, volendo imitare il Petrarca, ne divenne scimia sfacciata, ch'induce l'uomo al riso mentre vuole imitarlo>> (Regole per fuggire i vizi dell'elocuzione, p. 188). Dal principale teorema del Toralto, dei due livelli di concettosità, quello esplicito e letterale dei significanti (devoluti allo scopo tradizionalmente galante della lirica) e quello implicito e recondito dei significati (il sonetto per Veronica è, p. 168, <<in quanto appartiene al Risvegliato, d'essere ben inteso dalla sua donna, [...] facilissimo [...]; ma d'altra parte è misterioso in quanto alle cose ch'egli vuol dimostrare e i dotti ed intendenti>>),10 discende il corollario, inedito, a quanto consta, nella trattatistica cinquecentesca, dell'articolazione entimematica dell'argomento del sonetto (nel testo-cavia, data per presupposta la maggiore, il Risvegliato <<nel primo quaternario espone solamente la minore, e nel secondo conchiude l'argomento [...]. E perchè la maggiore è manifesta, e la minore l'aveva già espressa nel secondo quaternario, fa solamente nel primo terzetto la conclusione; al fine ne gli ultimi tre versi, chiudendo il sonetto, epiloga il tutto [...]>>, p. 175). Col che si limitano, a favore delle oratorie, le prerogative poetiche del testo, se, a rigore aristotelico, <<del logico è il silogismo, così come dell'oratore si è l'entimema e del poeta l'esempio>> (Ammirato, Il Dedalione, p. 85). I riflessi di un così drastico recupero della funzione referenziale del discorso poetico, sulla sintassi della forma-sonetto, consistono nella restaurata linearità sintattica del componimento e nel risarcimento delle sue scansioni ragionative. Contro l'usuale (trissiniana) suddivisione meramente metrica del sonetto in 'base' e 'volte', il Toralto ne propone una sempre binaria ma di tipo contenutistico (p. 173: <<farò pure del sonetto due parti, cioè una che contenga il primo quaternario, l'altra tutto il rimanente>>, laddove, p. 174, <<il primo quaternario è in un certo modo come proemio del sonetto>>11 e, all'interno di essa, suggerisce, mediante l'esempio del Risvegliato, l'esibizione dei trapassi logici del discorso e delle articolazioni strutturali del componimento (<<I <<Se>>, 5 <<qual meraviglia [...] [6] se>>, 9 <<adunque>>). Ne consegue implicitamente la rivalutazione delle tendenze a una razionale discorsività, tranquillamente convissute, nella lirica meridionale, accanto alle più chiassose manifestazioni di autismo manieristico: e dunque non sorprenderà che il sonetto per Veronica possa affiancarsi a uno addirittura del Carafa - il cui passaggio <<da una sostanziale adesione al codice>> alla <<disarticolazione dei congegni rituali della tradizione petrarchistica consegnato all'Austria>> è giustamente avvertito dal Quondam (p. 355) -, risalente ai suoi esordi nell'antologia <<napoletana>> del Dolce (è il VII della presente) e impostato sopra un medesimo schema di rigorosa argomentazione deduttiva (I <<Se>>, 3 <<meraviglia non è s'un>>, 7 <<ma>>, 9 <<e se>>, 12 <<Dunque>>). Se pertanto cotesta sottolineatura dei passaggi ragionativi non è di per sè nuova (anzi, è già petrarchesca), nuova è bensì l'astrazione esemplare di cui il Toralto la fa oggetto. Quando, con sollecitudine di pedante, egli accompagna per mano il lettore fino alla non troppo esaltante sorpresa finale del suo sonetto, non fa che mostrare, in un modello di esasperata funzionalità, la natura eminentemente intellettuale e l'esito eventualmente spiritoso dell'operazione poetica. Basterà allora sollecitare le virtualità argute del pensiero e far precipitare lo svolgimento di un concetto verso l'imprevedibilità della clausola, perchè l'assennata mutria del Toralto possa incresparsi negli ammiccamenti un pò luciferini del Marino. Infatti, appunto nell'arguzia intesa come speciale risorsa psicagogica della persuazione mediante metafore, quale Aristotele l'aveva descritta nel terzo della Retorica (1410 b-1413 b), si spese parte della produzione, per quantità e per qualità così varia, dello stesso Toralto (ad esempio nel sonetto al Marino, Fur le favole prime un'ombra, un velo), del Tansillo, dell'Attendolo, del Pellegrino, del Pignatelli, persino del controllato, saputo e telesiano Giulio Cortese, quello specialmente (e non senza ragione) dei sonetti sacri:12 infine, dei partigiani del concetto. Nel Toralto il predominio del contenuto concettuale sugli artifici dell'espressione (della perspicuitas sull'ornatus verborum) si risolve, sul piano delle istituzioni letterarie, in blando conservatorismo linguistico, improntato al rispetto classicistico dei generi (il sonetto accolga sì parole di nuovo conio, ma mantenga, rispetto alle altre forme metriche, l'illustre sua schifiltà verso le <<voci dannate>> in esso <<da poeti eccellenti>>, pp. 171 sg.) e in aperta reazione metrico-stilistica, volta, con coerente e polemicissimo ossequio alla partizione in strofe del sonetto (la <<regola dei punti>> di Girolamo Muzio),13 alla restaurazione del triplice discrimine interstrofico violato dalle gravissime e ampie arcate sintattiche del Casa. In materia di enjambement, il Toralto risente del clima, saturo di certo, dirò così, naturalismo linguistico d'ascendenza cratilea doppiata di tecnicismo ermogeniano, che nel Cinquecento caratterizza la riflessione sul linguaggio dei letterati meridionali, dal simbolismo acustico di un naturalista come Bartolomeo Maranta (il quale, se ho ben visto, in tutti e cinque i libri delle Lucullianae quaestiones, pur trattando spesso argomenti affini, significativamente non degna di citazione un lavoro precritico e empirico, sbilanciato com'è dalla parte del produttore di testi, quale l'Actius pontaniano), all'interpretazione fisiologica e scientifica dei fonemi e delle lingue, nella giovanile Poetica campanelliana. Da tali speculazioni, in cui la competenza letteraria si avvaleva della consequenziarietà di un abito scientifico, uomini come il Toralto impegnati, più che in qualità di teorici, come letterati militanti, derivavano la nozione dell'autonomo valore referenziale di ciascun livello del significante (dal fonologico al sintattico), donde per conto proprio trassero la conseguenza, tutt'altro che aberrante, di una stilistica simbolica e allegorica. Così, mentre l'istituto dell'enjambement è interpretato dal Toralto (pp. 165 sg.) come correlativo metrico-stilistico dell'umano desiderio d'eternità, secondo una simbologia delle strutture frequente presso la trattatistica contemporanea (la quadripartizione, a sua volta tripartita, della propria canzone in morte del gran marchese di Pescara è spiegata dal Minturno, p. 67, con precise ragioni di numerologia mistica), anche il ricorso all'enjambement strofico può essere giustificato solo dalle esigenze mimetiche di una sintassi iconica (p. 175: <<è dannatissima questa usanza [del "far passaggio d'un quaternario in un altro, o d'un terzetto in un altro"], se non quando questo è fatto a sommo studio, per dimostrar qualche furia o qualche altra cosa simile>>). Di quì, la censura (pp.176 sg.) dell'uso immotivato, e irrelato a un preciso contenuto coscienziale, che del giro sintattico continuato per tutto o per una parte cospicua di sonetto (<<quel continuamento [...] di parlare>>) aveva fatto il Casa. Certo, il campo d'applicazione dello sperimentalismo tardocinquecentesco non era davvero più (anche per il venir meno di un certo senso d'inferiorità verso la cultura umanistica) la gravità latineggiante di un periodare lirico avvolgente, e un sonetto come O del Silenzio figlio e de la Notte del Marino è, forse prima che un obbligatorio cimento su un tradizionale pezzo di bravura, una sottile parodia stilistica ove la superbia sintattica del famoso modello dellacasiano viene umiliata, saldati i rompimenti più traumatici, attutiti o aboliti i trapassi d'uno in altro quaternario. Preoccupati di rifondare l'inventio del sonetto su basi diverse da quelle petrarchesche ormai da tempo consunte, si venne annullando ogni rigida separazione dei generi e degli stili, e si schiusero le barriere tematiche che fino allora avevano fasciato quel reverendo organismo metrico di un'aura immobile di contemplazione, proteggendolo dalle irrequietezze di forme più agili e spigliate. Ciò che allora ne risultò modificata fu la sua dinamica interna (per il madrigalistico convergere della tensione concettosa verso la pointe finale)14 e l'ampiezza delle scelte lessicali divenuta, dietro l'esempio della canzone (Caro insegni) e dell'ottava, quasi illimitata (non per nulla Toralto, p. 177, deprecava la povertà lessicale del Casa), piuttosto che la struttura sintattica, la cui espressività subisce anzi un azzeramento, con il ritorno a moduli di semplicità talora estrema (i sonetti, mettiamo, della Lira risultano in tal senso piuttosto indicativi). Tuttavia, attenendosi più da vicino alla problematica specificamente dibattuta dal Toralto, interesserà rilevare ancora la totale e pervasiva semantizzazione dei fatti stilistici, rispondente all'esigenza concettosa di un linguaggio come spazio figurativo organizzato in forme simboliche, e dell'immaginazione linguistica come suprema stilizzazione (anche grafica e ideogrammatica) del reale, che annuncia il connubio barocco di lettere e arti del disegno e tra l'altro fornisce d'avallo teorico i risultati figurativamente più stupefacenti della scrittura mariniana, come la dislocazione calligrammatica di strutture allitteranti e paronomastiche, manifesta più <<a livello grafematico che non fonematico>> (cfr. G. Pozzi, Ludicra Mariniana, in <<Studi e problemi di critica testuale>>, VI, 1973, pp. 134 sgg.) e mirante a una visualizzazione addirittura feticistica del concetto. Nello specchio deformante del gretto scolasticismo del Toralto può altresì contemplarsi esaltato uno dei vizi d'origine della pesia mariniana, pur tanto superba per prodigiosa dovizia d'immgini e sovrano dominio di una tradizione, classica e volgare, sterminata: il loico raziocinio. La lucida e imperterrita cavillazione del Marino sembra infatti, con un gioco continuo di reciprocità, di giudiziosi ribaltamenti d'equazioni risapute, di scambi incrociati, di regolati inganni, non far altro che trasferire in un mondo capovolto nella sua immagine speculare la stessa logica applicata da Aristotele al mondo reale dei fenomeni. L'illusionismo delle premesse non compromette il rigore del processo deduttivo e l'irragionevolezza elevata a sistema non gli concede troppo spesso gli oblii, le illuminazioni, le ambiguità di remote correlazioni metaforiche, le forti tensioni analogiche che (per insistere su un dittico un pò appannato dagli anni ma, almeno pedagogicamente, ancora efficace) hanno conciliato a Gòngora le simpatie della poesia novecentesca e dato in Ungheretti un traduttore complice. Insomma, se all'ergotante cavaliere è mancato l'incondizionato suffragio della sensibilità (non però dell'intelligenza) moderna, toccato invece al collega spagnolo (o ai metafisici inglesi), ciò potrebbe essere almeno in parte imputato al fatto che egli restò più degli altri impigliato (oltre che negli impacci di una tradizione troppo aulica) appunto nel conformismo ideologico di certo razionalismo di fine Cinquecento, del quale il Toralto è esponente tanto modesto in sè quanto sintomaticamente non trascurabile. Non per nulla chi, a Seicento ormai inoltrato, si volse a ripercorrere, sotto le specie metriche del sonetto e della canzone, l'ascesa inarrestabile della lirica italiana, dall'esemplare petrarchesco alla gloriosa culminazione dell'astro mariniano, dovette ricordarsi del lontano predecessore, non per casuale conformità tematica, ma per affinità di gusto e di problemi (non escluso l'orfismo dell'interpretazione allegorica dell'enjambement), e addurne, con assenso, l'autorità. Il ritratto del sonetto, e della canzone di Federigo Meninni15 è un felice rilancio di Raimondi (Il petrarchismo nell'Italia meridionale, in Atti del convegno internazionale sul tema: premarinismo e pregongorismo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1973 [ma il convegno è del '71], pp. 95 sg.) e può, sulle sue tracce, prestare un viatico abbastanza fidato all'intelligenza di alcuni fatti della lirica cinque-seicentesca, segnatamente napoletana. In particolare, la sua visione tecnicistica e tollerante del fenomeno petrarchistico potrebbe contribuire utilmente a correggere certe unilateralità del quadro offerto da questa <<Locuzione artificiosa>> e, direi, a ribaltarne l'intero progetto storiografico. Spendendo ogni sua cura nel registrare con compiacimento i successivi scarti dalla norma bembesca, il Meninni intende invalidare, nel modello principe di Petrarca, la necessità stessa dell'adozione di modelli e l'intero momento imitativo dell'attività poetica, per porre viceversa in risalto i fattori innovativi via via introdotti nel sistema della lirica italiana dei poeti di più spregiudicata e originale inventiva. Di contro a un petrarchismo come sisstema della ripetizione, si delinea nelle sue pagine non prive di un certo teleologismo trionfalistico (implicito forse in ogni indagine autonoma delle tecniche cortigiane e formalistiche della nostra lirica classica), un petrarchismo come sistema della trasgressione che, già manieristico nel suo assunto, venne tuttavia evolvendosi nel senso di una concettosità sempre più peregrina, per approdare infine, dopo le faticose approssimazioni dei precursori, al <<tempo fiorito e concettoso>> del Marino, cui dalle soglie dell'immediatamente precendente <<secondo tempo>>, preludia il copostipite Tansillo. In quello stesso 1560, così fatidico per le muse napoletane, usciva a Venezia la prima redazione, in 42 ottave (dunque nel metro giudicato dal Toralto pervio più del sonetto agli ardimenti), delle Lagrime di S. Pietro,16 pubblicate, con l'errata attribuzione al cardinale de' Pucci, a seguito del secondo libro dell'Eneide tradotto in ottava rima da Giovan Mario Verdizzotti, sotto la cui supervisione il Tasso sedicenne stava giusto allora (maggio 1559-novembre 1560) attendendo al primo getto della Gerusalemme. Nel medesimo anno in cui produceva in pubblico un manierista intransigente come il Paterno, la cultura napoletana era dunque in grado di esprimere anche un poemetto contenente in nuce indicazioni alternative alla stagnante coniugazione di formule petrarchesche o alla culta ricercatezza espressiva che, venti e più anni dopo, nel vivo del dibattito sul poema tassiano, il Pellegrino battezzò col nome di <<locuzione artificiosa>>. Espressione così complessa da abbracciare la elocutio nella sua totalità, dall'ornatus in verbis coniunctis alle traslazioni metaforiche della sentenza. In stanze quali la VII delle Lagrime (<<Ogni occhio del Signor lingua veloce / parea che fusse, e ogni occhio de' suoi / orecchia intenta ad ascoltar sua voce [...]>>), la metafora che, secondo il Pellegrino (p. 106), costituisce il pregio di alcune locuzioni tassesche, si camuffa di paragone per poter compiere, protetta da un prudenziale <<parea>>, un decisivo passo avanti verso l'attualizzazione dei traslati e verso la sinestesia: manifestazioni di ostentata arguzia che converremo di qualificare per barocche e che l'eccezione riduttiva dell'etichetta e l'impostazione (si dica l'eccessivo rilievo dato alla produzione in sonetti e di certi sonetti) della pur meritoria antologia di Ferroni e Quondam rischiano talvolta di lasciare in ombra, deprimendo il manierismo napoletano proprio in ciò che di letterariamente più avanzato esso seppe offrire alla cultura europea.
NOTE 1 Dell'accoglienza ricevuta nel Regno dagli antichi autori toscani non lascia, documentariamente, dubitare la canzone di B. ROTA, Tacquimi un tempo, et hor mi spinge Amore (per la prima volta nei Sonetti et canzoni, Napoli, Scotto, 1560), ove, dovendosi citare, a conclusione della terza strofa, un incipit dantesco a norma di Petrarca, Rime, LXX di cui la canzone segue rigorosamente lo schema metrico) si ricorre a Morte, poi ch'io non trovo a cui mi doglia, falsamente attribuita a Dante proprio dalla Giuntina. Tra i poeti ivi raccolti, la maggiore attrazione sui poeti meridionali dovette esercitarla, per le virtualità patetiche della sua dolcezza, Cino, cui già nelle Prose il Bembo aveva riservato una posizione di preminenza tra i minori. Del resto, a metà secolo, dietro i risultati conseguiti in generi di ascendenza classica (odi e elegie volgari di Bernardo Tasso) e in generi non lirici (poema cavalleresco) erano maturate le condizioni favorevoli a soluzioni tonali complementari alla dominante petrarchesca: così nei <<signori napoletani>> (almeno nella riedizione ampliata del 1555 che ho avuto presente) risultano già ben delineati il pindarismo di un Minturno o l'eclettismo (sonetti amorosi e pastorali, elegia, egloga) di un Fabio Galeota. 2 Si vedano particolarmente, nell'antologia di cui appresso, i numeri II, III, IV. 3 Cfr. B. CROCE, Letterati e poeti in Napoli sul cadere del Cinquecento e al sorgere del Marinismo, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari 1958, II, pp. 234 sg. 4 Il Salon des Refusés allestito, nella sezione conclusiva (XXII-XXX) della scelta (condotta sulla ristampa Muzio 1726 del tutto Rota), coi pezzi che la vigile autocensura del poeta volle esclusi dall'edizione definitiva del canzoniere (1572), sembra alterare sensibilmente, a vantaggio della componente manieristica, in definitiva non troppo rilevante nel ragguardevole corpus poetico del Rota, l'equilibrio della sua produzione. Sui nove componimenti della seconda parte, gli ossimori e le antitesi parallelisticamente protratti per tutto il sonetto ne situano ben due (XXII e XXVI) nella categoria di una quasi canzonatoria artificiosità, alla quale uno solo dei ventuno della prima è, a rigore, riconducibile: il VI (Orribil verno in sen di primavera), di cui il fosco parossismo nomenclatorio delle quartine piacque, si noti, a Scipione delli Monti (vedi il sonetto quì antologizzato come XV dalla raccolta Castriota). Mentre la percentuale di bizzarria risulta quindi aumentata col soccorso di testi equiparabili a varianti d'autore, l'assenza di un'adeguata discrezione diacronica priva il lettore di un interessante scorcio su un aspetto dello sviluppo poetico del Rota, giunto a sconfessare, al termine della carriera, le prove di un grottesco virtuosismo parodico. 5 Per quanto si afferma del Bembo si veda, naturalmante, il commento di Dionisotti alle Rime. In area napoletana un notevole esempio di disponibilità stilistica può essere, intanto, fornito dal canzoniere del Tarsia. Su un totale di 831 versi, le unità lessicali non petrarchesche sono ben 85: 48 sicuramente dantesche (14 delle quali ricevute per il tramite di Bembo) e 7 di autorizzazione bembesca. Restano, dunque, a carico del Tarsia (o di altri a lui anteriori) 30 lemmi. La media, già molto alta stante la selettività del genere, è destinata a salire integrando al catalogo le accezioni non petrarchesche di lessemi petrarcheschi, come (basti l'esempio forse più memorabile), <<lagrimosa>> con valore causativo di XVII I (<<lagrimosa pianta>>, la cipolla, il cui odore Plinio, Nat. hist. 19, 101, definì <<lacrimosus>> e che l'Alemanni chiamò <<piangente>>). 6 Appunto al Caro l'Ammirato dedicò i Sonetti in morte della moglie del Rota, che significativamente dotò, oltre che di annotazioni, di un Discorso dintorno alle voci nuove. Interesssante è pure la Prefazione A i lettori del Nuovo Petrarca del Paterno, scritta da Mario degli Andini in difesa dell'uso e dei vocaboli nuovi, e dove spiccano, col <<padre Bembo>>, i <<duo lumi della nostra lingua, Monsignor dalla Casa e Annibal Caro>>. Per ciò che riguarda Marino, il Caro è notoriamente tra i punti di più sicuro riferimento, nei prodotti del prosatore burlesco, del poeta eroico e del lugubre: qui, la concitata trascrizione in modi interrogativi e esclamativi di un senso d'improvviso smarrimento, ad apertura di sonetti come Dunque, morto è il Costanzo? or chi più vostro o Ascanio, Ascanio è morto: in piccol vaso, in morte del Pignatelli, rinvia agli analoghi del Caro, Guidiccion, tu sei morto? tu che solo, e Il Varchi, il Varchi è morto. E chi di vita. 7 L'espressione vuol significare il riflesso letterario (cfr. pp. 258 e 294) del fenomeno della rifeudalizzazione (p. 212). 8 La banale interpretatio del nome della destinataria sembra ricordarsi dell'incipit quasi identico (Se 'l vero, ond'ha principio il nome vostro) di un sonetto di Giulio Camillo verisimilmente indirizzato alla Gambara (in Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo con nuova additione ristampato, Venezia, Giolito, 1549, p. 69). 9 Non dunque personagio, come si afferma (p. 170, nota 3), di impossibile identificazione, anzi ben noto agli storici locali piemontesi (vedine i rinvii nell'Onomasticon del Ferrari) e non sfuggito agli annali sonettistici del Vaganay. 10 Stringente mi sembra il rinvio a Aristotele, Rhet. 1410 b: <<Bisogna che tanto l'elocuzione quanto gli entimemi siano spiritosi, se vogliono renderci rapido l'apprendimento. Perciò neppure quelli ovvi tra gli entimemi hanno successo: intendo per ovvi quelli che sono evidenti a chiunque e non richiedono alcuna investigazione; e neppure quelli che sono detti in modo incomprensibile>> (trad. di A. Plebe, Bari 1961, p. 194). 11 Cfr. Aristotele, Rhet. 1414 a (trad. cit., p. 207): <<Due sono le parti del discorso: è infatti necessario prima esporre l'argomento intorno a cui si parla, quindi dimostrarlo>>. 12 Si consideri, al v. 2 del brillantissimo campione qui trascelto come XIV, il sintagma <<abbreviato Verbo>> (trattandosi di Circoncisione vorrà forse dire della mutilazione inferta al corpo divino piuttosto che semplicemente, come spiega la nota, del <<corpo di uomo>>), in cui l'aggiunto concreto del traslato evangelico crea tra i componenti una tensione abbastanza witty, suscettibile com'è, prendendo i due termini nella loro accezione grammaticale, di faceta interpretazione letterale. 13 Cfr. E. TADDEO, Il manierismo letterario e i lirici veneziani del tardo Cinquecento, Roma 1974, pp. 196-8, 235. 14 Cfr. G. CERBONI BAIARDI, Storia e strutture della prima lirica mariniana, in <<Studi secenteschi>>, VI (1965), pp. 21 sg. 15 Nell'edizione di Napoli, Giacinto Passaro, 1677, le citazioni della Veronica sono alle pp. 13, 20, 76, 85 e altre possono essermi sfuggite. Evidente è comunque, su diversi punti (capitale quello, pp. 29 sg. della purità e chiarezza necessarie alla locuzione), la perfetta concordia di vedute dei due critici. 16 Che il poema fosse edito postumo (p. 272), è dunque vero soltanto per le sue relazioni maggiori: quella in 13 pianti curata dall'Attendolo (Vico Equense 1585) e quella in 15 canti edita da Tomaso Costo (Venezia 1606). Cfr. l'esauriente notizia bibliografica delle Lagrime, in L. TANSILLO, L'egloga e i poemetti, a cura di F. FLAMINI, Napoli 1893, pp. CXLI-CXLIX.