La grande defluenza di vino calabrese attraverso Tropea nel Tre-quattrocento
di Federigo Melis
Sul finire del Trecento, una vera e propria rivoluzione - in senso economico - nel campo dei trasporti marittimi ha prodotto i suoi effetti notevoli pure nella circolazione del vino, che, infatti, anche per le qualità meno pregiate, incontriamo su lunghi itinerari e per forti quantitativi, mentre, antecedentemente, il movimento cospicuo era limitato ai prodotti più ricchi (come la malvasia egea e i vini libanesi di Tiro) e, tuttavia, per minori volumi e distanze. E' opportuno riferire attorno a questa <<rivoluzione>>. Nella prima parte del sec. XIV, la navigazione (e, perciò, il commercio su lunghe distanze) era accessibile soltanto ai beni ricchi, che potevano sopportare il considerevole aggravio dei costi di trasporto, piuttosto elevati e soprattutto marcati da una pronunciata rigidità delle tariffe unitarie; e tanto più ciò si verificava negli instradamenti terrestri, per le quali i costi erano, proporzionalmente alla lunghezza del servigio, ancora più alti. Il commercio internazionale, pertanto, era limitato a pochi beni. Quanto al vino, che, se molto pregiato (quali i due esemplari dianzi riferiti), rientrava nelle categorie di medio valore, il suo raggio di movimento era mediterraneo, con addentramenti non profondi; solo eccezionalmente, raggiungeva l'altro mare (il Mare del Nord), per la Fiandra e l'Inghilterra, dove, per giunta, trovava la forte concorrenza dei rinomati vini francesi, che vi provenivano da luoghi assai più vicini e con itinerari totalmente marittimi (da Bordeaux e La Rochelle). D'altronde, come si constata per altri beni (ad esempio, la lana), la viticoltura era diffusa dappertutto, almeno in Italia, sì che il consumo poteva essere soddisfatto normalmente dalle produzioni locali o abbastanza vicine; ma, nel graduale innalzamento del tenore di vita e nell'aumento della popolazione, il consumo di questa bevanda si dilatava notevolmente e in particolare si faceva più intensa la domanda dei tipi di maggior pregio, cui soddisfacevano i vini delle Isole e del Sud in genere. Per una serie di ragioni, che non sto qui a precisare - se non richiamando il decisivo intervento dei grandi mercanti, che, potendo abbinare in loro mani l'atto accessorio della navigazione e quello, principale, dello scambio, riescono a manipolarlo e a modellarlo alle esigenze di quest'ultimo -, nel ventennio finale di quello stesso secolo assistiamo ad un completo rivolgimento delle posizioni: anche i beni più poveri sono messi in condizione di circolare per qualsiasi quantitativo e su tutti gli itinerari, di molto ampliatisi con l'apertura della via di Gibilterra, che permetteva ad uno stesso naviglio di andare da Beirut e da Tana (l'odierna Azov, sulla foce del Don) fino al più importante porto del Mare del Nord, quello di Bruges (oggi Sluis, in territorio olandese). La grande conquista è dovuta alla ristrutturazione dei noli, o meglio, alla struttura, che, dalle fattezze tutte moderne, che, per la prima volta, viene ad essi imposta: quella dei noli differenziati (il termine preciso è discriminati), in funzione del valore dei beni (non arrivando, ovviamente, alle tariffe ad valorem), in modo, cioè, da gravare maggiormente le merci ricche e meno quelle povere. Si pensi che un'osservazione condotta su 11 merci mi ha permesso di appurare che, nel periodo precedente, i relativi noli unitari variavano come in un intervallo da 1 a 2 (cioè, il valore massimo appena doppio del minimo), mentre, nel successivo, tale campo si è esteso come da 1 a 10. Quel che più conta è la constatazione che l'intervallo di variabilità delle percentuali di incidenza del nolo sul valore del bene è disceso dagli estremi, da 1 a 10, a quello da 1 a 2,30 (cioè, manifestandosi la tendenza a zero, che è la posizione limite ideale, raggiungibile soltanto con le tariffe a valore): e se l'indagine, come ho potuto fare per la seconda epoca, viene estesa a tutte le merci sorprese in viaggio, si constata un intervallo di variabilità come da 1 a 500, che felicemente indica l'efficacia dell'applicazione del nuovo principio. Ecco in che senso deve intendersi, e come realmente si è compiuto, in quel tratto di tempo, il progresso della navigazione: aprendosi questo servigio di trasporto a qualità e quantità di merci sempre maggiori. In epoche più vicine a noi, interverrà il fattore tecnico - l'applicazione del motore - ad imprimere alla navigazione un ulteriore, possente balzo. Il principio della discriminazione delle tariffe, dal campo marittimo, si ritrasmetterà presto in quelli interni, della navigazione fluviale e lacuale e del trasporto terrestre. Raccogliendoci nel settore della nostra bevanda, notiamo che le malvasie vanno allora direttamente nei porti del Mare del Nord (anche per l'avvenimento, che ho riferito, dell'apertura della via di Gibilterra) e, seppure esse siano di tipo diverso, si può parlare di loro concorrenza ai vini francesi delle regioni atlantiche, che, essendo più forti (il <<sopravanzare dei vini forti>> scrivono il Pirenne e il Dion) hanno superato le produzioni francesi di più vecchia origine, delle regioni nord-est, più vicine a ricchi centri di consumo della Fiandra e dell'Inghilterra. Ma quello che impressiona è di incontrare nel mediterraneo e oltre grossi carichi di vino di pregio minore, i quali una volta riuscivano a superare soltanto tragitti costieri verso i paesi più abbienti come la Toscana e la Liguria (per rimandare nell'ambito tirrenico). Fra essi, il movimento che più mi ha colpito è quello dei vini calabresi, che principalmente prendono il mare nel porto di Tropea: avendo, di contro, per <<capolinea>> porti ed empori di alto lingnaggio, come il Porto Pisano (o Livorno), Genova, la Provenza, Barcellona, Valenza, Palma di Maiorca, Londra e Bruges (il più grande porto e mercato del Mare del Nord, almeno sino a metà del Quattrocento). Tutto ciò, con servizi diretti (qualche volta con cambio di mezzo a Maiorca, nelle destinazioni per il Mare del Nord); in più, molte operazioni facevano capo a Napoli, a Castellammare di Stabia e Torre del Greco, trasferendovi frequentemente piccoli quantitativi con navigli costieri e coprendo quivi l'accentramento su grosse imbarcazioni, per le medesime destinazioni. Questo considerevole afflusso di vino calabrese nei tre porti del Golfo partenopeo autorizza a ritenere che, in qualche misura, i vini esportati dai porti stessi sotto la generica denominazione di <<vini grechi>> (cioè, senza indicazione dell'origine) fossero, appunto, di parziale provenienza calabrese e di sovente per la via tropeana. Ho parlato di luoghi destinatari di <<alto lignaggio>>, perchè il porto di Pisa vuol dire, anzitutto, il mercato di Pisa, che si è rivelato nell'epoca uno dei più assortiti e riforniti di vini e, in derivazione, il mercato di Firenze (la città allora più popolosa e più ricca d'Italia), che rivaleggiava con quella di Venezia (quest'ultimo essendo anche notevolmente mercato di transito, mentre Firenze era solo di consumo). Il mercato di Genova era pure dotatissimo in materia e introduceva su un vasto e ricco retroterra, comprendente il Piemonte e la Lombardia odierni, senza dire della prosecuzione verso la Svizzera e la Germania. Più impressionante ancora ne è il collocamento (e se ne vedranno, tra breve, i volumi), in Provenza, dato che questa zona, con l'adiacente Linguadoca, erano forti produttori di vini variati, fra l'altro largamente esportati in Liguria e Toscana. Analogamente è rilevante l'aver fatto presa nelle tre piazze iberiche, trattandosi, egualmente, di centri di abbondante produzione, che, tuttavia, non erano pervenuti alle affermazioni qualitative e quantitative che vi si appaleseranno a partire dal Cinquecento. Faccio notare, di inciso, che anche le regioni di Alicante e di Malaga, in quell'epoca, non davano prodotti rinomati: e, infatti, non erano bene accetti nei mercati settentrionali e in Italia. Londra e Bruges sono mercati significativi, sotto il profilo della nostra indagine, perchè, come ho già sottolineato, erano dominate dai vini francesi, il cui costo fondamentale era meno gravato da quello del trasporto. Quale era il pregio di questi vini calabresi? Osservandoli nel mercato - dotatissimo, ripeto - di Firenze, essi avevano un prezzo oscillante tra fiorini d'oro 3,50 e 5, per ogni ettolitro odierno, che è il valore più alto, dopo il vino di Tiro (il quale arriva a f.8 per la stessa unità di misura) e la malvasia di Candia, che tocca f.7,50; l'unico vero vino che si avvicina a tale valore, è quello della Corsica (con prezzi oscillanti tra f.3 e 4,85), mentre la vernaccia di San Gimignano si colloca tra f.3,90 e 6,45 (ma si tratta di un vino speciale, come, del resto, quelli di Tiro e la malvasia). Pertanto, almeno sulla piazza di Firenze (che è un osservatorio validissimo, data l'abbondanza e la qualità dei consumi), il vino normale più costoso e - verosimilmente - più apprezzato è quello della Calabria. La Toscana dava degli eccellenti bianchi (nel Valdarno superiore e a Montecarlo, con prezzi compresi in f.2,40-2,75 e dei <<vermigli>> che arrivavano sino a f.3. Quali erano le località di produzione di questi vini calabresi, così ricercati attorno l'anno 1400? le fonti da me utilizzate (sono fonti dirette, ossia, la voce autentica degli operatori economici tramandataci attraverso le loro lettere e 600 registri) menzionano soltanto Santa Severina, Santo Noceto e Fiumefreddo, dando specialmente risalto al primo (allora chiamato San Soverino); ma è evidente che vi si devono comprendere anche le zone immediatamente vicine a Tropea. Per quanto mi risulta, non possediamo cognizioni dettagliate, su questo tema, anteriori alla metà del XVI secolo, cioè, quando ne troviamo un nutrito elenco, con qualche giudizio sulle qualità, in G. BARRIUS, De antiquitate et situ Calabriae (I ediz, 1571; cit. da A. MARESCALCHI - G. DALMASSO, Storia della vite e del vino in Italia, vol. III, 1937, pag. 514): <<squisito vino bianco a Bianco, Bovolina, Condoiano, Castelvetere, Paganica, Belcastro, Policastro, Santa Severina, Rossano, Terranova, Castrovillari...; buoni a Fiumefreddo...; ottimi a Tropea, Filocastro, Arena, Carida, Preziano, Calatro>>. Ma, come vedremo fra poco, a Santa Severina si producevano anche degli ottimi rossi.
Lascio adesso la parola alla voce viva dei documenti redatti in luoghi differenti (guadagnando, così, in...vivacità), in ordine di tempo, fra il 1385 e il 1408, contemplando via via gli aspetti più importanti. Ecco come si esprime la Compagnia fiorentina di Sandro Mazzetti, da Napoli, il 26 giugno 1385, indirizzandosi a Guido Pilestri, in Pisa:
Voremo v'avissasi chon Istoldo (di Lorenzo) che di qua si mettono in Proenza vini rossi di San Soverino: e suolvene andare gran quantità. E parci si mettano ad Arlli; or questo saprà bene Stoldo, se ad Arlli o Agua Morta o dove e' si vole. Costano, qua, la botte, fiorini 4,50. Uguanno ne dovrebbe essere assai: e però ditelo a Stoldo, se gli paresse torne 100 in 200 botti, per voi e noi. E simile gli dite sopr'a' grechi s'informi; ma pocha speranza avremo in ciò. Fate non manchi sopra i Sansoverini: avisarllo e rispondete.
E' questo uno dei tanti casi della intermediazione del mercato di Napoli (Stoldo di Lorenzo è l'associato principale di Francesco Datini nella sua società di Firenze e in quella di Pisa). Come si vede, la destinazione è tanto la Provenza (facendo capo al porto sul Rodano, Arles), quanto la Linguadoca (ad Aigues Mortes, il porto di Montpellier). Ancora da Napoli, stando alla seguente lettera dello stesso anno (scritta in Palermo il 15 dicembre, dall'impiegato della Compagnia Datini, Manno d'Albizo degli Agli, colà in missione, alla sua sede originaria di Pisa), si osserva una esportazione a Tripoli di Libia, che però non si conclude, per il naufragio della nave:
Ec(c)i chome al faro di Messina è rotto una nave d'in Parlata, catalano, di portata di botti 300; era charica di grechi e vini ed era partita da Napoli e andava in Tripoli; sono (s)campati gl'uomini e riaùto alquante botti di vini. Eravi su un pisano à nome il Porciello. Siate avisati. Nostro Signore ristori i perdenti.
Il carico più cospicuo - comprendente ben 550 botti (che, essendo di 7 barili l'una, di l 45,584, corrispondono a hl 1.760) - è quello osservato sulla nave del maiorchino Piero Gariga, con mèta Maiorca:
Ancora, v'era g(i)unta di Chalavera la nave di Piero Gharigha con 550 botti di vino. E pensiàno deta nave, o d'in Disdei, prenderà il viaggio di costì: che, se llo farà, n'aremo piaciere per la roba si troveranno per costì: sapretelo.
La lettera che reca tale notizia è del maggio 1396, spedita dalla Compagnia Datini di Barcellona alla consorella di Pisa. Un quantitativo considerevole (4oo botti), lo troviamo nuovamente con destinazione Maiorca: la quale, infatti, adempiva alla funzione di smistamento nel vicino arco costiero tra Barcellona e Valenza e verso il Mare del Nord. La lettera, scambiata fra le aziende Datini di Maiorca e Barcellona, è del 12 giugno 1407 e così ci ragguaglia:
Di Chalavria è venuto la nave d'in Chornetto, charicha di vino, di botti 400. E' stata a Palermo: chonta che 'l re era ito a Messina e che metteva in punto 4 navi, 3 ghalee e una ghaleotta per ire aiuto alla prencipessa e che vi dovea andare don G(i)amen di Prades e altri nobili: non sapiamo il certo, chontolla mollemente.
E sono decine di casi di esportazioni a Maiorca (talvolta indicando il porto di imbarco: Turpia, cioè, Tropea) che superano la notevole misura di 150 botti. Il nome di Fiumefreddo, accanto a quello di <<Santo Noceto>>, compare in questa richiesta da Bruges, dalla quale apprendiamo che si producevano colà anche delle <<vernacciole>>:
E sse potete avisare d'una cierta ragione vini che sono a Fiumefreddo, e sono bianchi, lo fate: o a Santo Nocieto; ma, no' ne intendete vernaciole di Santo Nocieto, ma solo vini bianchi.
La lettera è scritta nel settembre 1399, dalla Compagnia fiorentina di Diamante e Altobianco degli Alberti, da Bruges a Pisa. Un mercante fiorentino, tale Bartolomeo di Francesco, che noleggiava navi, per compiere operazioni in proprio e in commissione, va personalmente a Tropea, allo scopo di rifornire di vino Barcellona: come da questa lettera del 23 gennaio 1402, scritta dalla Compagnia di Angelo di ser Pino, da Palermo a Maiorca:
E più, in questi dì, qui è chapitato Bartolomeo di Franciescho chon uno suo navigl(l)o: e portòcci alquante chuoia, e qua l'à vendute per once 19 il 100, i quali furono barbaresche. Il detto Bartolomeo si partì per andare a Turpia, a charichare di vino per Barzelona: Idio lo faci salvo.
Alla specializzazione del carico (nel senso che alcune navi portavano, almeno nel viaggio osservato, soltanto botti di vino) si accompagna, talvolta, la specializzazione dei viaggi, vale a dire il ripetuto impiego di una nave su uno stesso itinerario e per un carico di eguale natura, come apprendiamo da questa lettera (del 30 aprile 1408), scritta dal consocio del Datini medesimo, in Prato:
E' g(i)unto a Porto Pisano la nave d'in Olzine, charicha di vini di Calavra, e la nave d'in Salelle, charicha di grano di Cicilia; e' sono nolegiate per ritornare a charichare ne' detti luoghi: Idio le facci salve per tutto.
La nave (genovese) di Olzine è, dunque, specializzata nel trasporto dei vini calabresi; e quella di Salelle, nel trasporto del grano siciliano, entrambe facendo capo a Porto Pisano. Carichi così rilevanti si ritrovano soltanto nelle navi provenienti dal levante, che risalgono l'Adriatico per Venezia. Più volte, le informazioni che ho raccolto attorno a questo porto ed emporio indicano in 4.000-5.000 le botti annualmente là importate di malvasia, che rappresentano almeno i due terzi degli arrivi totali di vini via mare. Questo dato ci permette di valutare il volume delle esportazioni da Tropea: lo possiamo definire ragguardevole, se in un solo caso, appunto, abbiamo notato una partenza di 550 botti, che si avvicina a un decimo dell'importante movimento veneziano di un anno intero. Pertanto la produzione calabrese, oltre che essere molto apprezzata su larghissimo raggio - e da consumatori competenti e in condizione di rifornirsi dovunque -, raggiungeva quantitativi davvero rilevanti. Ai dati constatati nel porto tirrenico di Tropea sarebbero da aggiungere quelli dei porti ionici (è menzionato una volta Squillace); ma i quantitativi riferentisi a questi ultimi devono essere stati piuttosto esigui, perchè l'avanmare che ad essi si apriva, essendo essenzialmente l'Adriatico, era popolato da concorrenti agguerriti: fra cui i più volte menzionati vini egei e levantini e - prodotti analoghi ai calabresi - i vini pugliesi, che avevano soltanto quello sbocco (i porti adriatici e massimamente Venezia) mentre ad essi i vini calabresi e siciliani sbarravano le vie d'occidente. L'esiguità delle esportazioni dall'altro mare non deve interpretarsi, tuttavia, quale esiguità di produzione delle regioni ioniche: data la forte attrazione dei grandi porti del bacino occidentale del Mediterraneo e del Mare del Nord (e non il contrasto che opponeva l'Adriatico), è naturale che i frutti raccolti in tali regioni si rivolgessero allo sbocco di gran lunga preminente ed efficiente, quale era Tropea: il vero simbolo del vino calabrese medievale. La forte produzione calabrese, cui si affiancano le non forti produzioni della Puglia, Sicilia e Campania (nell'ordine), riconfermano che, nell'epoca, l'Italia meridionale e insulare (la Sardegna rimane un pò fuori, perchè l'occupazione aragonese l'ha relativamente isolata dal grande commercio con l'Italia tirrenica settentrionale, verso cui spediva, anteriormente, forti quantitativi di vino) prevalevano nettamente su quella centrale e settentrionale (ma non con il distacco dell'Antichità, giacchè tutte le regioni andavano sempre più intensificando la viticoltura. I volumi calabresi, ripeto, sono impressionanti, soprattutto se consideriamo la distanza raggiunta dalle esportazioni, il cui superamento sta a significare, altresì, una certa <<robustezza>> del prodotto. Ma impressiona anche la qualità, insisto pure: denunciata, non soltanto dai valori monetari riferiti, ma anche dal ricorrere di più nomi di luoghi di origine che oggi sono quasi dimenticati, almeno formalmente. E' la sorte di molti vini insulari e meridionali, quella di essere privati di individualità: se l'avevano fatto nel medioevo, così bene delineata e, starei per dire, imposta, mano a mano la si dovrebbe riesaumare, come del resto si è cominciato a fare in questi ultimi anni, quasi seguendo questi eloquenti esempi che ci vengono dal basso medioevo, cioè, dal periodo di maggiore prosperità economica e generale del nostro Paese.