GIUSEPPE TORALDO

Un insigne umanista
dell'Ottocento
 

di Antonio Bacci
(1950)


Quando cinquant'anni fa il Marchese Felice Toraldo presentò in omaggio a Giovanni Pascoli la versione latina della Gerusalemme Liberata [Vedere Prefazione], che il suo illustre zio Giuseppe, morto l'anno precedente, aveva elaborato con lunga cura e con vivo senso di arte fino alla tarda età di 90 anni, ricevè dal poeta di S. Mauro una lettera vergata con brevi parole, ma bastevoli per sè a consacrare la fama di questo insigne umanista: <<Ricevo la Hierosolyma del suo grande zio. L'ho già scorsa qua e là con un senso di ammirazione, anzi stupore. Me ne delizierò più a lungo...>>. Questo autorevole giudizio riespresso più tardi in una più lunga lettera, inviata dopo la lettura completa dell'opera, non può non essere pienamente accolto da chi anche oggi scorra, con animo aperto alle bellezze classiche, i limpidi e torniti esametri della Hierosolyma Liberata.
Proprio un anno fa, mentre ricorreva il cinquantesimo anniversario della morte del P. Giuseppe Toraldo, io scrivevo sulle colonne dell'Osservatore Romano queste parole, che mi permetto ripetere: Tropea. Palazzo Toraldo Serra: Epigrafe Commemorativa.<<A mio avviso la dote principale di questa traduzione, per sè ardua, del capolavoro di Torquato Tasso è la facilità e la scorrevolezza del verso, che sembra nato di getto, mentre si sa che fu il frutto laborioso e gioioso insieme di una lunghissima vita. Questa limpida scorrevolezza deriva certamente in primo luogo dalla padronanza, che il Toraldo aveva della lingua latina e di tutti i suoi segreti fino alle più minute sfumature; ma deriva altresì dal fatto che egli, piuttostochè tradurre, interpreta e parafrasa con quella giusta libertà, che si richiede in questo genere di lavori. Se egli avesse ricalcato con animo angusto e pedante verso su verso, frase su frase, ci avrebbe dato una di quelle traduzioni letterali, che, per qualsiasi lingua, fanno l'impressione di un tappeto rovesciato, in cui il disegno è riprodotto a precisione, ma in cui il colorito e la grazia sono travisati e scomparsi. Qui non è così; specialmente certe pagine idilliache o elegiache, che sono la parte migliore e più viva della Gerusalemme Liberata, sono rese con una finezza di sentimento e con una così accurata cesellatura di frase, che fanno pensare ad altre pagine di Virgilio e di Orazio, i due autori preferiti dal Toraldo. Certo non tutto è perfetto, nè poteva esserlo; e ciò non solo perchè la perfezione, che non è di questo mondo, difficilmente si può ottenere in un'opera di traduzione, ma anche perchè, come si avverte nella prefazione, <<l'autore non aveva finito di limare, quando gli sopraggiunse la morte>>.
Comunque, questo lavoro colloca certamente il Toraldo fra i migliori latinisti della regione Calabra, che pure ne ha avuto degli insigni, e che ha tuttora degli egregi cultori della lingua sempre viva del Lazio. Accanto a Diego Vitrioli, che fu detto il più grande umanista del secolo scorso, a Francesco Quattrone e a Francesco Sofia Alessio, sta certamente con onore Giuseppe Toraldo.
Mentre però il Vitrioli, il Quattrone e F. Sofia Alessio hanno preferito darci lavori originali, il Toraldo invece si è limitato ordinariamente a traduzioni. Di originale conosco di lui tre inni alla Vergine detta di Romania, composti in nitidi versi per l'ufficiatura propria della sua Diocesi, e che riflettono l'animo suo devotissimo verso la Madre di Dio e Madre nostra. Questa sua preferenza alle traduzioni credo si debba alla sua grande modestia, che gli ha forse impedito di cimentare il proprio ingegno in opere di largo respiro e di ispirazione personale. Ma, prescindendo dalla sua modestia, questo suo criterio di limitazione nel campo della latinità credo che sia giusto anche in linea generale. E' ben difficile - anzi è quasi impossibile - esser poeti in una lingua, che non sia quella imparata sulle ginocchia materne. La poesia - per essere veramente poesia, e non versificazione più o meno elegante - deve sgorgare con impeto fulmineo dalla fantasia e dal cuore commosso. Ora, se vi è di mezzo il diaframma di una lingua laboriosamente imparata, sia pure alla perfezione, questo afflato lirico o epico necessariamente si raffredda nella riflessione, e viene direi quasi a cristallizzarsi in versi, che se pure di ottima fattura, hanno perduto o diminuito il palpito della vita. Non si ha ordinariamente della poesia, ma si ha della letteratura. Così, io penso, è avvenuto anche ai nostri migliori Umanisti, come al Pontano, al Sannazzaro, al Poliziano, al Vavajero, al Flaminio, al Vida...e fra i recenti al Vitrioli e al Pascoli. E' raro trovare fra i loro carmi latini - che sono ordiariamente dei veri gioielli letterari - qualche pagina di vera, di viva poesia....>.
Così scrivevo qualche anno fa; oggi, dopo avere approfondito ancor più il mio studio - per quanto il tempo me lo ha permesso - sull'opera del Toraldo, e specialmente sul suo capolavoro, la Hierosolyma Liberata, debbo dire che ne ho riportato un'impressione ancora più forte, un'ammirazione ancora più profonda. Leggendo queste pagine si sente rivivere gli eroi e le eroine dell'infelice poeta di Sorrento in una forma nuova. La sensibilità squisita del Tasso, quei suoi idilli pieni di lirismo sincero, quelle sue elegie vibranti di tristezza profonda, quelle sue fantasie cavalleresche espresse in ottave sonanti costituiscono quasi un piccolo mondo, in cui il poeta ha trasfuso tutta l'anima sua; ma è un mondo vago e vaporoso in cui i personaggi epici sembrano mancare di rilievo e di concretezza.
<<La Gerusalemme Liberata, scrive il De Sanctis, non è un mondo esteriore, sviluppato nei suoi elementi organici e tradizionali, come il mondo di Dante e dell'Ariosto. Sotto le pretensiose apparenze di poema eroico è un mondo interiore, o lirico, o subbiettivo, nelle sue parti sostanziali elegiaco e idilliaco, eco dei languori, delle estasi e dei lamenti di un'anima nobile, contemplativa e musicale>> (Stor. d. Lett. Ital., vol. II, p. 189). Questo è il difetto che ordinariamente tutti trovano nell'opera maggiore di Torquato Tasso. Naturalmente il Toraldo non poteva, nè doveva cambiare la natura del poema che traduceva; ma pure quella vaporosità e mancanza di concretezza, che tutti lamentano nella Gerusalemme Liberata, si sente meno e sembra quasi corretta (nei riguardi della forma) leggendo gli esametri della Hierosolyma Liberata. Credo che il merito di questo sia in gran parte del traduttore, ma in parte anche della lingua più precisa, più logica, più scultoria del mondo. Le altre lingue si scrivono; il Latino si scolpisce; e il Toraldo lo sapeva scolpire e cesellare.
La poesia non si può tradurre nel senso letterale della parola; bisogna prima riviverla, risentirla profondamente in noi, e poi crearla quasi di nuovo, per riesprimerla in una nuova lingua. Questo ha inteso bene il Toraldo, e questo ha saputo fare, perchè possedeva due cose necessarie a raggiungere una così alta meta: e cioè una squisita sensibilità artistica e il possesso completo della lingua latina. E' questo il grande pregio della sua Hierosolyma Liberata, la quale piuttostochè una semplice e nuda traduzione professorale, è una libera parafrasi poetica rivissuta dal traduttore.
Io non so se egli abbia conosciuto le opere di coloro, che lo avevano preceduto nel tradurre il capolavoro del Tasso; ve ne sono vari, fra cui ricordo il Piacentini (Forlì, 1673, Tip. Silva), il Frambaglia (Torino, 1673, Tip. Soffietti) e il Sac. Mario Parente, quasi suo coetaneo (Napoli, 1824, Tip. Simoniana). In ogni modo, se le ha conosciute, non le ha certo imitate. Il Piacentini e il Frambaglia, pure avendo dei pregi non comuni e pure essendo dei cospicui umanisti, non possedevano l'aurea lingua del Lazio con quella piena sicurezza, con cui la possedeva Toraldo. E il Sac. Mario Parente, sia nella sua versione, sia nelle sue poesie originali, si rivela conoscitore profondo del Latino, ma ha uno stile troppo facile, ridondante e talora anche un pò troppo roboante.
Comunque, mi sembra di poter affermare che l'umanista di Tropea, se pure aveva letto qualcuno dei suoi predecessori (forse il Parente) certamente li ha tutti superati per squisitezza di sensibilità poetica, e più ancora per perfezione di forma.
Chi ha invece certamente imitato, anzi largamente imitato per una assimilazione lungamente e amorosamente acquisita, è Virgilio; quasi continuamente si sente riecheggiare nei suoi esametri la dolce, la soave poesia Virgiliana. Talora sono frasi, spunti poetici, motivi, che direi quasi musicali; ma avviene anche non raramente che egli trasporti nella sua Hierosolyma Liberata interi versi del poeta Mantovano. Potrei portare molti esempi, ma, per non dilungarmi troppo, mi limito a tre.
Al canto XIV si leggono gli esametri:

<<Ter rustra comprensa manus effugit imago,
Par levibus ventis, voluerique simillima sommo>>;

esametri, che sono riportati dal libro II dell'Eneide v. 793, 794.
E quando Tancredi ha inconsapevolmente ucciso Clorinda coperta di corazza e di visiera, e ne scopre l'amato volto, prorompe in un pianto espresso in mirabili versi, in parte di Virgilio e in parte di Toraldo, versi che si fondono insieme in unico sentimento accorato (canto XII):

<<Illam abeunte die, atque illam veniente vocabat,
fessa voce precans, et fuso lumine plorans,
qualis populea moerens philomela sub umbra
amissos queritur foetus, quos durus arator
observans nido implumes detraxit, et illa
flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
integrat, et moestis late loca questibus implet>>.

(Cfr. Virg., Georg IV, 462-466)
Inoltre, come Virgilio aveva cominciato la sua Eneide (e ciò sembra quasi certo) coi noti versi:

<<Ille ego qui quondam gracili modulatus avena ect.>>,

così il Toraldo, a imitazione del suo grande maestro, prepone alla sua versione del poema Tassiano un prologo tutto suo e originale, in cui ricorda di avere già prima tentato la traduzione della Divina Commedia in versi latini. Egli così comincia, quasi riecheggiando Virgilio:

<<Ille ego, qui quondam Latia testudine dixi
supremum vatem, cecinit qui Tartara Ditis,
et loca ubi levibus nudi sine corpore Manes
purgantur maculis, caeli et postremo viretum...>>.

Da questo prologo che rispecchia, ma non imita il più breve prologo Virgiliano, si dovrebbe desumere che, quando il Toraldo iniziò la traduzione della Gerusalemme Liberata, aveva già tradotto l'intera Divina Commedia, Inferno, Purgatorio e Paradiso. Sta di fatto però che di questa traduzione soltanto tre canti si conoscono pubblicati nella Rivista Alma Roma, anno VIII, fascicoli 4 e 12. Forse gli altri canti li aveva soltanto abbozzati e si trovano ancora fra i suoi manoscritti? O forse più tardi, dopo aver vergato questi versi del prologo, abbandonò l'ardua fatica, iniziata tanto lodevolmente, di darci anche una traduzione completa della Divina Commedia? Domande queste alle quali non mi è dato rispondere. Posso dire tuttavia che dai tre canti che conosciamo - pregevoli non soltanto per il verso che è sempre sostenuto, nobile e degno, ma anche per l'interpretazione del testo originale, accurata e ingegnosa - si può dedurre che, se egli avesse avuto il tempo di portare a compimento anche quest'opera, ci avrebbe dato una traduzione latina della Divina Commedia non inferiore per eleganza e per precisione a quelle non poche, che già abbiamo, fra cui ricordo quella (forse la migliore) dell'Abate Gaetano Dalla Piazza.
Qui ci potremmo anche domandare per quale ragione egli scelse la Gerusalemme Liberata fra i vari poemi italiani, che avrebbe potuto tradurre. Un motivo ce lo indica egli stesso in quel suo breve prologo originale, che propose alla sua versione; egli scrive infatti:

<<...suasit pietas, laudis non vana cupido>>.

Ma non dovette forse essere estranea alla scelta anche un'altra ragione. La famiglia Toraldo annovera fra i suoi antenati un eroe di Lepanto Gaspare Toraldo, Barone di Badolato, che fu congiunto da cordiale amicizia con Torquato Tasso, tantochè quando questi compose la Gerusalemme Conquistata, volle ricordare il valoroso cavaliere ed amico Calabrese, creando nel diciottesimo canto un personaggio immaginario, che chiama il <<buon Toraldo>>.
Il P. Giuseppe Toraldo tradusse inoltre il Cinque Maggio di Alessandro Manzoni. Questo inno che per impeto e concitazione poetica è forse il capolavoro nella lirica del grande Milanese, è reso in strofette dense, serrate ed agili, in cui la sintesi della vita tumultuaria dello scomparso è ricca di rilievi epici, e in cui la fine dell'<<uomo fatale>>, che dopo tante esperienze felici o dolorose si china riverente al <<disonor del Golgota>>, ha accenti di commossa elegia. Certo non sempre il Toraldo riesce a tener dietro al volo sublime e concitato del carme italiano; non sempre - ed era forse impossibile per chiunque - può esprimere l'impeto lirico dell'originale; ma la sua composizione è sempre degna di un insigne umanista. Vi è anzi una strofa - ed è quella che termina col verso tanto discusso e discutibile <<l'assale il sovvenir>> - che oserei dire migliore nella traduzione, che nel testo Manzoniano:

<<Quam saepe segnis dum caderet dies,
torvis retortis luminibus solo,
ad pectus et junctis lacertis,
facta retro rapuere mentem!>>.

Mi sia concesso di terminare queste brevi parole con un voto, che già espressi un anno fa, commemorando il cinquantesimo anniversario della morte del grande umanista di Tropea. Esiste una pubblicazione accurata di L. Grilli, che s'intitola <<Umanisti Maggiori>>; ma non esiste ancora, per quanto io so, nè in Italia, nè all'estero una storia completa e documentata di tutti i nostri umanisti dal Petrarca ad oggi. Chi avesse la possibilità di darci quet'opera, acquisterebbe certo una benemerenza insigne verso la cultura in generale, e in particolare verso quella meravigliosa e armoniosa lingua del Lazio, che non è mai morta e che non deve morire, perchè è legata al sustrato intimo della nostra civiltà, perchè è ancora viva e parlata nella più grande e più universale delle società, la Chiesa Cattolica, e perchè non può essere l'unica lingua internazionale nella grande comunità delle persone colte.
In quest'opera, se si farà, dovrà avere certamente un posto cospicuo Giuseppe Toraldo.

Roma, 20 maggio 1950