Fig. 4 - Tropea. Palazzo Toraldo - Statua marmorea del Buon Pastore.NOTE
SU
TROPEA
PALEOCRISTIANA

di Antonio Ferrua S. I.
 



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Questa cittadina che conserva il sito ed il nome dell'antica Trapeia si trova in un triangolo di territorio che in breve spazio raccoglie in sè quasi tutte le memorie paleocristiane che ci sono restate della Calabria. Tropea stessa è di esse forse il centro più ragguardevole, come si può vedere da quanto ne ragionarono già il De Rossi (Bull. di archeol. crist. 1877, pp. 85 e 148) ed ultimamente l'ing. Pasquale Toraldo, nella Rivista di archeol. cristiana (1935, p. 329 e 1936 p. 135).
Ogni giorno nei suoi dintorni vengono alla luce resti di antichi cimiteri cristiani, e noi stessi ulimamente, in una breve visita che colà facemmo, potemmo vedere in regione S. Domenica alcune di queste tombe scoprirsi insieme e disfarsi, file di povere fosse terragne, ricoperte alla buona con grossi tegoloni, talora bollati. Solo raramente si trova in esse qualcosa di notevole, come, sulla fine del 1954, un anello di bronzo dal diametro interno di cm. 2 circa, e con pala quadrata ci cm. 1x1, nella quale è inciso il monogramma del possessore rappresentato a fig. 3,8. Altro simile anello, questo però d'oro, era venuto fuori già molti anni prima da un arcosolio del cimitero cristiano di Tropea stessa, col diametro interno di appena mm. 13 e sfaccettato all'esterno in otto facce che portano le lettere di fig. 3,7, alte mm. 2, forse di significato puramente ornamentale.
Il palazzo dei signori Toraldo è diventato il santuario in cui si conservano religiosamente queste prime memorie del cristianesimo in Tropea. Ivi in una grande sala si possono ammirare affisse alle pareti quante lapidi ebbe già ad illustrare il De Rossi e quelle che in anni più recenti vennero in luce per lo scoprirsi di altre simili sepolture.
 
 

L'attento esame di esse mi ha permesso di fare alcune piccole correzioni alle copie che il De Rossi trasse da brutti calchi1, e qui l'esporrò brevemente con la giunta di qualche altro monumento.

*  *  *
L'iscrizione più importante di tutte, quella che nomina la massa Trapeiana (De Rossi, p. 87 e tav. VII, 1) or pare veramente in fine alla prima riga quale la rappresentò il DE ROSSI (fig. 3,3), cioè QI, poi H ed E in nesso, poi S ed M con segno di sospensione sopra; ma ad un esame attento ti accorgi che la scrittura primitiva fu semplicemente XPOIHSM, aterata poi in quel modo non so da chi, evidentemente per ritrovarvi intero il nome IHESVM. E di fatto s'ha da leggervi fideli in Xpo Ih(e)s(u)m Hireni etc.
Quella dell'altra Irene (De Rossi, p. 88 e tav. VI, 2) è una lunga lastra scorniciata in alto, onde mostra di essere stata dapprima destinata ad altro uso che a ricoprire una tomba. Tra il B e l'M della prima riga vi è un segno normale d'interpunzione, non della forma vistosa che hanno tutti gli altri di quest'epigrafe.
La lapidetta disegnata dal De Rossi a tav. VII, 7 è un pezzo di bel paonazzetto, nel quale in principio leggo propriamente VECTOR[i], come anche nell'ultimo verso è scritto rettamente EIVS. Ma l'osservazione più importante credo di doverla fare nel terzo verso, ove dopo fecaerunt, per quanto il marmo sia colà alquanto guasto, non si vede scritto un M ma un A e poi ancora nella frattura forse una gamba di M. Quindi si ha supplire a[mici], e non m[aritus et filii], integrazione assolutamente troppo lunga in paragone del c[ui bene] del verso precedente. Naturalmente così deve supporsi che il defunto fu un uomo Victor, e non una Victoria.
Segue l'iscrizione di un prete di nome Mosè (De Rossi, p. 88 e tav. VII, 3), il cui nome è scritto propriamente MONSES e non MONSIS come diede il De Rossi. Il numero degli anni da esso vissuto è LX (il x scitto più piccolo dentro l'L) e quello dei giorni GIII, cioè nove, anzichè otto.
Moglie di Mosè fu facilmente la Leta presbitera di un altro epitaffio (De Rossi p. 88 e tav. VII, 4), il quale in fondo alla prima riga ha un QVE omesso dal De Rossi. Grande pena si diede il De Rossi (p. 92) a spiegare come i figli di Mosè fossero stati da lui generati prima dell'ordinazione sacerdotale e come la presbitera Leta dovesse vivere col marito in perfetta continenza. Ma nulla fa credere che la legge sul celibato ecclesiastico promulgata da Siricio e poi spesso reinculcata sia entrata così presto nell'uso universale.
L'epitaffio termina con la formola comune a tutti questi titoli quei (cioè cui) benefecit maritus, per dire che il marito le pose la tomba. E' un'espressione, come abbiamo detto, propria di Tropea e delle sue vicinanze; del resto occorre solo in Roma ed in un numero limitato di esempi, tanto che potrebbe ad alcuno sorgere il sospetto che questi epitaffi romani siano di fedeli del Bruzio provenienti dal triangolo Tropea-Nicotera-Monteleone2.
Degli esempi romani3 arreco qui solo una lapide ora conservata ad Urbino (SILVAGNI, n. 3111):

SPES . IN . HILARO
QVI MIHI . BENE . FECIT
lyrae figura

Il primo verso ha dato molto da fare ai diversi editori. Per esempio il Buonarroti, il Hulsen (CIL. VI, n. 26939), il Diehl (n. 879) lo stimano una semplice acclamazione del tipo spes in deo, ma come si attacchi con il secondo verso non lo dicono. In realtà il titolo si ha da ritenere funerario ed Ilaro deve essere il defunto. In ciò che precede io credo di vedere il nome del dedicante SPESIN(a) verisilmilmente moglie di Ilaro. Negli epitaffi dei coniugi non è raro che l'uno si professi grato all'altro per i suoi benefizi, in maniera così indeterminata. Naturalmente allora il bene fecit non ha più nulla da fare con il senso di cui discorriamo, checchè ne pensi il Diehl.
Lo stesso si può dire anche dell'iscrizione sarda di Tharros, che diede occasione al De Rossi di trattare questo argomento (Bull. arch. crist. 1873, p. 129 e tav. XI, 1). Nella frase Clementia bene | coniuge tibi de mhis (feci) il bene è scritto fuori riga verso l'alto e con lettere più piccole, così che si direbbe da attaccare piuttosto al verso precedente con questa lettura:

mandatis serviens | bene | vite in omnibus  i
Clementia | coniuge tibi de mhis (feci).

Se così è veramente, è lecito allora pensare che il rozzissimo titolatore credesse, nell'enfasi del suo elogio, di aver fatto un passabile verso esametro con le parole

mandatis serviens bene vite in omnibus i

Difatto se ne trovano nell'epigrafia di quei tempi anche dei peggiori4.

*  *  *

L'iscrizione di Fortunula è su marmo venato che pare paonazzetto, come quella già nominata di Victor e quella di Ianuarius, di cui tosto diremo. La tavola è quasi quadrata, di cm. 21 x 22, spessa appena cm. 1,2, con lettere da cm. 1 e 2,3. La riproduzione datane dal De Rossi (p. 88 e tav. VII, 6) è abbastanza fedele e dà un'idea esatta della rozzezza e bruttezza paleografica. Debbo però osservare che al disopra della prima riga non v'ha una croce, ma un vero monogramma. Dipoi nella seconda non è scritto MIMORIE ma MIMORE con dimenticanza dell'I. Il numero degli anni nella riga 5 ha da leggersi LX e non XL e nell'ultima riga tra MA e TVS c'è poco altro da quello disegnato dal De Rossi, cioè una riga orizzontale in alto ed una bassa obliqua attaccata al T, resti, io credo, di una scrittura corsiva di maritus, non potuta decifrare dall'ignorante lapicida.
La lapide di Primitiva riportata dal De Rossi in appendice (p. 148) e disegnata con ispeciale diligenza e grandezza, ha nell'originale le dimensioni di cm. 23 x 26. Inoltre sulla fine della sesta riga deve leggersi propriamente ficerunt, giacchè coll'asta seconda dell'N è legato un T al modo solito, abbastanza netto.
Un'altra iscrizione dello stesso genere fu più tardi ritrovata poco lungi da Tropea nel 1898, presso il capo Vaticano a Ricadi <<nella contrada detta Chiusa, presso il villaggio di Brivadi>>, come precisa Mons. Taccone Gallucci (Iscrizioni cristiane del Bruzio, Reggio 1905, p. 45) e fu pubblicata dal Gatti nel Nuovo Bull. 1900, p. 271-273. Debbo osservare che sul PL della terza riga per segno di sospensione non vi è una sbarra continua, ma solo una piccola sopra il P. L'ultima riga è stata resa esattamente dal Gatti, solo che il taglio dell'H non è obliquo ma pressochè orizzontale, come deve essere. Naturalmente huius in questo luogo equivale ad un normale eius.

*  *  *

Nello stesso luogo un trant'anni fa si trovò pure la metà di un'altra lapide di marmo paonazzetto, che ora si conserva con la precedente nel palazzo Toraldo di Tropea. E' lunga cm. 33 e dovette essere alta altrettanto, ma al presente ne resta solo la metà; è spessa cm. 1,7 ed ha lettere alte cm. 2,5, molto consunte, specialmente nella parola MEMORIE, che perciò risulta malsicura. Anzi sembra che tutta l'iscrizione sia stata scritta solo superficialmente dopo che era stata erasa dallo stesso marmo un'iscrizione precedente.

E' da leggere (fig. 1): bone memorie. Ianuarius fideli[s] |  [qui] vixit an[nis] etc. Il monogramma iniziale non fu finito ed è restato come una stella. Nel verso la lapide si presenta ornata di riquadri rettangolari, segno che fu dapprima usata per altro scopo.
Circa dieci anni dopo si rinvenne un 400 metri a levante di Tropea un'altra lapide di cui restano circa due terzi. E' un pezzo alto cm. 18 e lungo 24, con lettere di cm. 2 circa (fig. 2), che ora si conserva nel palazzo del marchese Gilberto Toraldo di Francia, sempre in Tropea5. Le righe sono segnate con sottili linee ausiliarie.

hic requiescit in pace..........
tus qui vixit ann. p. [m. .... de-]
positus VI id(us) feb[ruarias]
p(ost) c(onsulatum) Paulini iu[n](ioris).

Nell'ultima riga dopo il iun. ci potè essere segnata la titolatura v.c.cons. ovvero l'indizione corrente che fu la XIII. Poichè il consolato di Paolino il giovane fu l'anno 534, l'8 febbraio dell'anno seguente non era ancor noto a Tropea il nuovo console Belisario eletto a Costantinopoli, e perciò si segnò il postconsolato di Paolino, come vediamo fatto in molte altre iscrizioni dello stesso anno.

*  *  *

Ecco dunque finalmente un'iscrizione cristiana con data completa. Sono esse tanto rare tra i Bruttii che se ne conosce solo un'altra a S. Cono (fra Tropea e Monteleone) di un diacono Peregrinus qui depositus est sub d. IIII id. octobris decies p(o)s(t)c. Basili v.c. conls., cioè nel 551, (CIL.X, n. 101 e DIEHL, n. 1204), ed una terza a Locri di certo Leporius qui... recesset in pace d. GI kal. augustas, Fl. Tatiano et Aurelio Symmacho vv. (cc.) coss., cioè nel 391 (CIL.X, n. 37, e DIEHL, n. 2837)6.
Veramente il De Rossi nel suo studio citato a p. 94 ricorda la formula <<recessit in pace nella medesima regione dei Bruttii in lapide tuttora inedita di Locrium, fornita della data consolare dell'anno 392>>; ma qui deve essere trascorso errore di stampa e deve trattarsi della stessa epigrafe di Leporius che intanto usciva alla luce nel Corpus (del resto non era neanche inedita, ma già pubblicata dal Capialbi).
La lapide di Locri ci ha portato un pò lungi dal territorio di Tropea. Tornando ora ad esso, devo segnalare una quarta iscrizione datata cristiana, edita già ben tre volte7 dopo la pubblicazione del Corpus, ma restata incompresa, per la sua forma frammentaria, all'editore, e trascurata quindi anche nella diligente trattazione della signorina Crispo di cui tosto diremo.
E' dessa sopra un pezzo di marmo trovato nel 1863 presso Monteleone <<in un fondo vicino al luogo detto Belvedere o Affaccio>>. Essa entrò tosto a far parte della collezione del comm. Francesco Pasquale Cordopatri, nella quale fu dal Marzano copiata nel 1886 nella forma seguente:

HIC . N ...
ADEO..... recessit in
PACESub die .......
AVGVSTas Isidoro et
SENATORE vv. cc. conss.

Nel primo e secondo verso dovette esservi la formola di tumulazione del defunto (Adeodata ?), poi il classico recessit in | pace sub die ...... | augustas Isidoro et | Senatore vv. cc. conss. (a. 436). Due furono i Senatori consoli, l'uno nel 436 e l'altro nel 514 (il famoso Cassiodoro); ma quat'ultimo fu senza collega e qui la grande lacuna dopo augustas sembra richiedere il nome di un primo console; si può aggiungere che un'età così tarda come il 514 vorrebbe volentieri in principio qualcosa come una croce.

*  *  *

La signorina Anna Crispo pubblicò anni fa in questa stessa rivista uno studio sulle Antichità cristiane dellla Calabria prebizantina 8, studio che sarebbe riuscito assai più perfetto se maggiore fosse stata nell'autrice la pratica di queste materie e minore la dipendenza dagli autori che la precedettero. In esso  a pag. 210 riporta una iscrizione tropeana già edita da Mons. Taccone Gallucci <<scoperta nel 1904, scavandosi le fondamenta per un nuovo muro tra il palazzo Scrugli e l'Episcopio>>9.
Io l'ho riveduta in casa Toraldo affissa a muro con le altre, lapide marmorea di cm. 14 x 26, con lettere alte cm. 1,5, quali si veggono nella figura 3,1. Si legge facilmente b(onae) m(emoriae) Beneriana que vixit annis octo cui benefecerunt parentes (i)n pace. Anche qui oltre il solito formulario abbiamo l'omissione di qualche lettera su spazio vuoto, come in vari altri casi delle lapidi citate. E' poi da notare che le due lettere finali dei versi 3-4 I e T furono legate insieme dal lapicida in modo da formare una croce.
La stessa Crispo ha pubblicato anche (p. 132, n. 1) una gemma che io ho riveduto presso il lodato marchese Toraldo che la possiede. E' una pietra dura gialla ovale di cm. 1,5 per 1,2, spessa circa 0,3. Fu già incastonata in un anello che andò a sepoltura con chi lo portava, in una delle tombe cristiane tropeane, dove appunto fu ritrovata (fig. 3,6). Si legge facilmente Iah, Iaei,Iew, tre forme diverse del nome sacro Iaw che ben si sa quante volte e in quante forme sia stato adoperato come pegno della protezione divina, o meglio come mezzo per provocare effetti soprannaturali10.
La gemma fu trovata in sepolcro cristiano, ma se anche fu usata da cristiani ciò non vuol dire che fosse di loro produzione: al più dimostrerebbe solo un attaccamento a certe forme di amuleti e superstizioni profane, spesso loro rimproverate dai santi Padri. Del resto che era questo mostruoso Iao che tien per così dire il campo negli antichi amuleti ? Una qualche antica deità teriomorfa egiziana o un camuffamento del terribile nome del dio giudaico ? Noi non lo sappiamo, e possiamo credere che nulla se ne curasse il cristiano che tale scritta si portava al dito. Poichè non è certo questo un filatterio funebre, se anche andato a finire nella tomba col suo possessore11.
Tale invece dovette essere, ed in tutto degno di un cristiano, il titolo graffito dentro un disegno di transenna sopra un mattone rinvenuto già a coprire una tomba a Lazzàro, presso il capo dell'Armi (comune di Motta S. Giovanni)12, che cito qui anche per emendarne la lettura: [si deu]s p[ronobi]s quis co(n)tra nos? Ionisi bibas in deo. E' una citazione di S. Paolo ad Rom. VIII, 31.

*  *  *

Poco lungi da Tropea verso mezzodì sorgeva alla foce del Petrace l'antica Tauriana o come altrimenti si chiamasse13, delle cui antichità paleocristiane ha lasciato l'Orsi un'eccellente memoria del Nuovo bull. di arch. crist. 1914, pp. 3-16 e tav. I. Il monumento più importante è senza dubbio l'epitaffio di Leucosius episc(opus) Fl. Eventio filio cent(urioni qui vixit annis XXXV, mem. sex. hic militavit annis XIII. pater filio fecit in pace positus... (ORSI, p. 9 e tav. I, 1; DIEHL, n. 399).
Anche qui ricorre un vescovo che ebbe moglie e figli come all'estremo confine settentrionale della Regione, a Blanda Iulia, ci resta memoria della lapide di un vescovo Giuliano (CIL.X, 480 e add. p. 964; DIEHL, n. 1010) posta dalla moglie Feliciane cum filis suis al marito in d(eo) d(omino) et spirito sancto Iuliano epp. s(ancto) [v(iro)]. Queste due iscrizioni, che son da ritenere del secolo IV, confermano opportunamente l'interpretazione che abbiamo accennato per le due di Tropea, di qualche tempo posteriori.
La lettura cent(urioni) risale all'Orsi e sarà forse quella esatta, ma non mi sentirei di approvarlo anche quando prende l'hic seguente in senso locale, riferendolo a Tauriana, come se Evenzio avesse fatto il militare a casa sua. Nello stile epigrafico quell'hic equivale semplicemente ad is, come si vede anche nella surricordata iscrizione di Ianuarius edita dal Gatti.
L'ultima riga non risulta abbastanza chiara nella pur bella fotografia dell'Orsi, così che egli arrestò a positus la sua lettura, nè seppe altre proseguire neanche il Diehl. Ma avendo esaminata da presso la lapide ora nel museo di Reggio, ho visto che vi si legge ancora con certezza un  TO14 così che la finale dell'iscrizione resta veramente in pace positus (Chris)to, formola che finisce di eliminare qualunque dubbio sulla cristianità dell'epigrafe.
La stessa finale si può ritrovare forse in altra iscrizione di Tauriana edita dall'Orsi (p. 10 e tav. I,2) con la precedente, mutila dopo in p(ace) pos(itae), così che si può supporre che seguisse ancora un monogramma  TO, come in quella di Flavio Evenzio.
Di quest'epigrafe resta solo la metà destra (ora nel museo di Reggio, ove la vidi ultimamente), ed è gran peccato, perchè se fosse intera non la cederebbe in importanza alla precedente. Era infatti adorna di data consolare di cui purtroppo resta solo un finale ie conss. che suppone quasi certamente un errore d'incisione o di grammatica giacchè non v'è console, il cui nome possa all'ablativo terminare in ie.

Philippo      et      SallIE CONSS
die         posteru    iDVS    IAN
               i l l e          DIACO    3
nus      illi            coIVGI   BENE
merenti   feci         quE  BIXIT  ME
         cum    ann......v   II  DVLCISSIME  6
et castissimE  FEMINE  IN  P  POS...

La lunghezza e natura dei supplementi mi sembra dettata con abbastanza probabilità dall'ultimo verso e dal secondo, non potendosi in questo supporre un numero maggiore di sillabe nè in quello di meno15. Ciò posto, però non abbiamo ancora guadagnato nulla per la data del primo verso, ov'è sicuro che c'era una coppia di consoli. Io penso che il secondo di questi fosse Flavio Salia fatto in ablativo Salie o Sallie come in simile nome barbarico Nevitta si disse all'ablativo Mamertino et Nebitte e Mamertino et Fl. Nebittae co[nss]; anzi con lo stesso nome di Salia troviamo in due iscrizioni Filippo e Salliae co[nss]16. Quindi mi pare un supplemento abbastanza probabile [Philippo et Sall]ie conss. L'iscrizione resta con ciò assegnata all'anno 348 ed è la più antica finora conosciuta del Bruzio.
Egli è ben vero che l'Orsi suppose davanti all'E la metà di un N di cui non si fossero unite le aste verticali; ma ciò non ha indizio di probabilità, perchè chi consideri attentamente quell'asta e specialmente la sua lunghezza e sottigliezza ai due capi la trova esattamente uguale agli altri I dell'epigrafe e molto diversa dalle aste degli N e degli L, il che ci vieta di pensare a supplementi come Bautone (a. 385) o Cereale (a. 358).
Per ultimo devo aggiungere solo che nel v. 6 si scrisse veramente per errore dulcissine, ma poi con un tratto di scalpello si unirono insieme le due teste dell'N e dell'E in modo da creare il nesso ME17.
Sempre a Tauriana si trovò pure già fin dall'anno 1857 un'iscrizione indubbiamente cristiana di una certa Vittoria, ma i due che la videro, il De Salvo e l'Orsi, ne diedero una lettura assai diversa fra loro ed io per la esperienza fatta in queste cose non saprei a quale dei due si debba dare maggior credito18. Purtroppo la lapide che fu già a Palmi in casa privata ora è misteriosamente scomparsa, nè io l'ho più potuta vedere.
Ho visto invece nel museo di Reggio tre altre lapidette già più volte pubblicate e neanche cristiane, sebbene l'Orsi propendesse a darle come tali, trovate nello stesso territorio di Tauriana, facendosi la ferrovia da Palmi a Gioia19.
La principale di esse è una tavoletta di marmo bardiglio, di cm. 22 x 25, spessa 2,5, con lettere di cm. 2,5 da leggere [C]hrysogono [a]vo Lartianus nep(os) b(ene) m(erenti) d(e) s(uo) f(ecit); vixit ann(is) LXXV20. Sopra tutto questo, a modo di titolo, resta in una prima riga M.B. e più a sinistra la traccia di un dorso di lettera che a mio giudizio fu D. L'Orsi dice che la riga <<va certamente integrata con S. M. B.>> equivalente a B. M. S. cioè b(onae) m(emoriae) s(acrum), formola cristiana comune nei titoli tropeani e succeduta evidentemente alla formola pagana d(is) M(anibus) s(acrum).
Ma io trovo che la formola b(onae) m(emoriae) è di sua natura piuttosto tarda, e molto più quella da essa derivata b(onae) m(emoriae) s(acrum), mentre la lapide di Grisogono non si può fare più recente della metà del quarto secolo, nel qual giudizio converrà chiunque esamini l'originale o la fotografia edita dal Putortì. Non è dunque lecito stravolgere in quel modo il B. M. S., potendosi leggere d(is) M(anibus) b(onis), rispettando sì l'ordine delle lettere che l'età dell'epigrafe. Naturalmente così l'iscrizione cessa di essere cristiana e tanto meno lo saranno le altre due, anche se ad essa appaiono alquanto posteriori.
Cristiano invece e molto interessante è un frammento che vidi con i precedenti nel museo di Reggio, trovato già nella fabbrica del palazzo delle poste e telegrafi in Reggio stessa, ed edito tosto dal Putortì che vi rilevò solo <<l'espressione mnhsqhti k$u,ri%e tou, sw,matos au.ths>>21.
E' desso un piccolo tratto di una lapide di marmo bardiglio, alto cm. 14, largo 22, spesso 3, con lettere di cm. 1,7 quelle minori e 2,7 quelle maggiori, riferibili alla metà del sec. V (fig. 3,2).
Propongo i seguenti supplementi, avvertendo solo che le lettere della prima riga sono molto maggiori delle altre. In alto, prima di esse c'era probabilmente ancora qualche cosa a mo' di titolo
                                                                           a.nepau,sato Pai]da-gw[goj

th-pro,.............] h,me-ra 'Afrodi,thj
u,pa(ti,a)...........] e,zhsen e,th k .'
mh-naj .h,me,raj  .  .kai].e.nqa,de ki-te m[eta.
th-j sumbi,ou au-tou- . mvn]h,qhsi k(u,ri)e to[u-
dou,lou sou kai. tou- o,n]o,matoj au.t[ou-22 .

Ma  con questo sono trascorso a parlare delle iscrizioni cristiane greche di Reggio, delle quali sarebbe troppo lungo il discorso ed alieno dal mio tema23.

*  *  *

A qual età devono essere assegnate le iscrizioni della regione tropeana ? Due di esse, come abbiamo visto, recano una data del secolo VI e precisamente una di Tropea al 535 e quella di S. Cono (Peregrinus diac.) al 551, con la quale può andare senz'altro anche quella di Paulus infas della stessa località, anche se non datata.
Ma a prima vista queste tre iscrizioni si presentano tanto diverse dalle altre non datate che ci obbligano a far quelle molto ad esse anteriori. Il De Rossi le credè scritte (p. 94) <<dai primi decenni del quarto alla metà circa del quinto secolo>>. Dopo di lui il Gatti (loc. cit., p. 271) restrinse alquanto il loro periodo <<fra gli ultimi decenni del sec. IV ed i primi del sec. V>>. Io per me credo che nessuna spetti al secolo IV e tutte al quinto, e piuttosto alla metà che al principio di quel secolo.
Ciò deduco non tanto dalle forme onciali dell'V, dal taglio angolare degli A, dagli L ad angolo ottuso e con l'asta verticale molto corta, dai D a base dritta, dalle lettere a testa molto piccola (P B R), cose tutte che sporadicamente s'incontrano anche nel sec. IV, e neanche dalla paleografia in generale molto scadente, quanto dalla funzione che hanno assunto i monogrammi, come semplice inizio o fine di titolo e per lo più nella forma della croce quadrata. Iscrizioni come quelle di Iannuarius (N. B., 1900, p. 272) con le due croci e quella di Primitiba (DE ROSSI, tav. XII) mi sembrano escludere chiaramente il sec. IV ed esigere piuttosto la metà circa del sec. V. E di fatto la lapide di Leporius più sopra citata, che è del 391, e quelle del vescovo e del diacono di Tauriana non hanno ancor nulla di tali superfluità e presentano un aspetto severamente corretto.
Però è un fatto che, se si eccettua la titolatura, il formulario resta sempre lo stesso, e sostanzialmente del tipo più antico comune al sec. IV, forse per quel conservatorismo che è proprio delle piccole località lontane dai grandi centri. La più notevole eccezione sarebbe il titoletto frammentario di Monteleone con la data del console Senatore, per quanto il suo testo sia per noi poco sicuro.
La caratteristica principale di questo formulario è quella messa bene in vista dal De Rossi e già menzionata più sopra, con l'espressione cui bene fecit ille, per dire quem sepelivit, cui titulum posuit e simili, la quale ricorre in tutti i titoli anteriori al sec. VI e cioè almeno una dozzina di volte. Essa però non è esclusiva di Tropea e si incontra anche a Roma altrettante volte, ed a Roma soltanto. Onde si pone il problema dell'origine e migrazione della formula, poichè è inverosimile ch'essa si sia in modo indipendente affermata a Tropea ed a Roma, ed in questi due luoghi soltanto. Egli è necessario che a Tropea l'abbia presa da Roma o a Roma l'abbiano portata i Tropeani.
Per questa seconda soluzione potrebbe valere il fatto che, mentre a Tropea essa ha un gruppo d'iscrizioni compatte, a Roma invece è sporadica e sparsa un pò dappertutto. Ma d'altra parte i testi romani appaiono tutti più antichi di quelli tropeani e quasi senza eccezione cimiteriali, nè dell'ultima epoca delle catacombe. Laonde il buon metodo ci suggerisce di ritenere piuttosto che la formola sia stata portata a Tropea da Roma che viceversa.
A questa deduzione si opporrebbe il sospetto del De Rossi (p. 94) che la comunità cristiana di Tropea fosse di origine africana, sospetto ingenerato in lui dalla formola praecessit in pace <<specialmente frequente nella cristiana epigrafia dell'Africa>>.
Questa formola ricorre in quattro almeno delle nostre iscrizioni; ma è ben lungi dall'essere speciale dell'Africa. Se colà si legge con frequenza particolare, ciò è in una sola regione e quasi sempre con la giunta in pace dominica, mentre numerosi esempi se ne incontrano ed a Roma e un pò dappertutto altrove, proprio nella forma di Tropea (DIEHL, 2846 sgg. e vol. III, p. 389). Laonde l'argomento che di qui si può trarre è quanto mai tenue, simile per avventura a quello che si potrebbe cavare dell'epiteto fidelis, che notoriamente è frequentissimo a Cartagine ed in vari luoghi dell'Africa e qui occorre tante volte quante il praecessit in pace.

*  *  *

In calce  a questo discorso, ormai fin troppo lungo, sull'antiche iscrizioni cristiane di Calabria, mi piace di porre un piccolo e prezioso monumento di tutt'altro genere, esso pure conservato nel palazzo del marchese Toraldo (fig. 4, a fianco al titolo ).
E' una statua marmorea di Buon Pastore, andata rotta e perduta dalla cintola in giù, alta per quel che resta cm. 30,5 larga 23,5 e spessa 11 circa. Che fosse già una figura intera si vede dalla parte inferiore ove appare spezzata per traverso. Dietro la schiena la modellatura del marmo si ferma contro una linea di chiaro risalto che forma appunto dall'alto in basso un pilastrino largo cm. 12,5, ora quasi interamente scalpellato via.
E' stata scalpellata via, non si sa per quale scopo, anche la testa e tutta la parte posteriore della pecora che egli portava sulle spalle: la massa informe di marmo ivi restata mostra ancor chiare le tracce di un grosso scalpello; è scomparso pure il braccio sinistro che però non doveva essere aderente alla persona. Il destro è manicato fin sotto il gomito e stringe sul petto con una sola mano (mal modellata certamente, se anche ora guasta) le quattro zampe della pecora, zampe straordinariamente lunghe e ossute e che sotto la mano perdono l'attaccatura naturale con gli zoccoli.
La testa è piccola, regolare, giovanile, con faccia ovale e pienotta, alta cm. 8,5, incorniciata da una capigliatura abbondante che ricade a ciocche inanellate, coprendo interamente le orecchie. Tracce di trapano si hanno solo sulle occhiaie accanto al naso e nelle narici, e nelle pupille fortemente segnate che con la loro fissità aumentano l'effetto dell'atteggiamento rigorosamente frontale, serio, compostissimo, quasi rigido.
Il piccolo monumento ha tutte le caratteristiche dell'arte al tempo dell'imperatore Costantino e trova un confronto istruttivo in vari altri Buoni Pastori di cui trattò lo Strzygowki24, parecchi dei quali spettano sicuramente alla Grecia ed all'Oriente. A mezza via tra Roma e la Grecia fu trovato il nostro fra le terre di S. Gregorio d'Ippona, chiesa posta nei pressi di Monteleone e che conserva infissi nei suoi muri anche altri resti di antichità.
Ugual valore e significato avrebbe il Buon Pastore dello stesso tipo, al presente al museo di Castel Ursino di Catania24, se non provenisse probabilmente da Roma, come buona parte delle antichità cristiane del fondo benedettino di S. Nicolò cui dapprima appartenne.
Il confronto con altri esempi dello stesso tipo ci insegna che la pecora stava sulle spalle con la testa a destra di chi guarda; la tunica era stretta ai fianchi da cintola e sotto di essa cadeva a pieghe paraboliche, il braccio sinistro doveva essere alzato a tenere il bastone.
Anche il nostro esempio mostra dietro la schiena dall'alto in basso il risalto a forma di lesena che abbiamo già detto, il quale fa pensare che fosse originariamente affisso a muro, per esempio in una nicchia; secondo l'ipotesi affacciata dallo Strzygowski.
Certo esso si distingue fra tutti per il buono stato di conservazione specialmente della faccia ed è con l'esemplare lateranense uno dei più caratteristici della cosiddetta serie <<orientale>> delle statue del Buon Pastore.
 

NOTE

1 Miserabili calchi di carta asciutta e sottile, conservati ora nel codice Vat. lat. 10528, f. 75 sgg.
2 Questo è stato sino al 1928 il nome italiano della cittadina detta ora, non felicemente con due nomi latini, Vibo Valentia.
3 Altri dono DIEHL, Inscr. christ. lat. veteres, n. 760 Gerontius remisit a[l]umnu nomine Benignu qui fecit corpori bene; 1581 Rigine venemerenti filia sua fecit vene; 2711 B Savina ussor me[a] (non men), fecit compari sue in pace bene, que vixit etc. (omesso il nome del marito); 3886 parentis bene fecerunt filio digno Stercorio; 4167 Victoria Felicissimo coniugi et nepotes merenti fecerunt bene; BOLDETTI, Osservazioni sopra i Cimiteri, p. 390 Laurentius... dormit in pace bene filii tui tibi fecerunt Maximinus et Castus, di S. Gordiano; LUPI, Dissertazioni, vol. I (Faenza 1785), p. 174 [I]ennaria virginio suo Victori merenti bene fecit, di S. Ermete; BONAVENIA, Rom. Quart., 8 (1894), p. 142, bone memorie filio dulcissimo pater ben. fec., pure di S. Ermete; ARMELLINI, Scoperta della cripta di S. Emerenziana, Roma 1877, p. 98 Valentina filia patri benignissimo cum matre suprascripta utraeque bene fecerunt, del cimitero Maggiore; GORI, Inscript. in Etruriae urbibus, vol. II, p. 74, n. 41 Marsae bene compar(i)... dormi in pace; bene fil(i) tui tibi feceru(n)t. Vincentius a Siena nel palazzo Bandinelli, ma di origine romana; CIL. VI, 8875 dopo una sequela di fecit (sepulcrum) continua item Saturio coiugi suae Aureliae Sebere bene fecisse, Iannarius Aurelio Fortunato et Victorino filis bene fecit, Saturio Felici alumno bene fecisse, posterisque aeorum. Due altri esempi arreca il De Rossi di lapidi romane che chiama inedite (Bull. arch. crist. 1873, p. 133) fecerunt parentes bene e filie sue benemerenti fecit bene.
Anzi in greco pure credo di trovare questo senso nella lapide pagana di Albano (KAIBEL, n. 1694) C. Iulio Aug. l. Phoebo Cestus de suo fecit; tou.j a,gaqou,j kai, qano,ntaj eu.ergetei-n dei-, essendo manifesta l'equivalenza di fecit (sepulcrum) ed eu,ergetei-n. Qualcuno potrebbe sospettare che il bene nell'iscrizione di Laurentius sia da riattaccare a dormit, in quella di Ienuaria a merenti, in quella di Marsa (cioè Martio) di nuovo a dormi, e così in qualche altro esempio; ma nella maggioranza dei casi l'unione di bene con facio è assolutamente incontestabile. Così stando le cose, si può giudicare quanto manchevole e poco esatta sia la definizione del Thesaurus linguae latinae, vol. II, col. 1876, 18 benefacere: in titulis christianis Tropeae inventis i. q. iusta facere, sepelire.
4 Il Diehl, n. 3400, intende il difficile testo in tutt'altra maniera e fa di Clementia un nome comune; il De Rossi crede che il defunto si chiamasse Spiritus e Clementia fosse la moglie che gli pone la lapide; per me vorrei piuttosto vedere in Clementia il nome della defunta, così: spirito requiescenti carissimi (dativo) amicorum omnium, prestatori (= qui praestat, largitur) bono pauperum, mandatis serviens bene vitae in omnibus Chr(ist)i, Clementia coniuge (= coniux vocativo) tibi de mhis (feci).
5 Presso il medesimo signore ho pure trovato un piccolo frammento di simile lapide cristiana, rinvenuto in uno scarico di pietre dietro la cattedrale. Misura cm. 4,5 x 7 x 2,7 ed ha lettere di cm. 2,3, quali sono delineate alla fig. 3,4. Al n. 5 della stessa figura rappresentato un frammento di lapide cristiana rinvenuto ultimamente in una tomba dell'agro di Tropea, essa pure del tipo di quelle già illustrate dal De Rossi.
6 La stessa data 391 si trova forse in altra iscrizione di S. Cono, CIL.X, n. 100 e DIEHL. n. 319? Essa dice + Paulus infas hic requiescit per inditione Va.... depositus kl. octobris FLT. il Diehl propone di vedere in fine il console Fl. T(imasio) del 389 o Fl. T(atiano) del 391, ma ciò non può ammettersi, anzitutto perchè sarebbe già eccezionale l'omissione del secondo console, di poi, perchè sarebbe più eccezionale ancora tale abbreviazione nel nome di u un console, in terzo luogo perchè lo stile dell'iscrizione con la croce premessa e l'indizione esclude il secondo quarto. In particolare un'indizione V non può coincidere con l'anno 389. Perciò credo che la vera lettura sia quella proposta già dal Capialbi (feliciter), come nell'iscrizione spagnola VIVES, Inscripciones cristianas de la Espana romana y visigoda, n. 71 e p. 260 in fondo, e varie altre volte nella citazione dell'indizione. Del resto è sempre vero ciò che lo stesso Capialbi annotava acclamatio feliciter in mortuariis lapidibus haud obvia est (Inscr. Vibonensium specimen, Napoli 1845, p. 50). Le due lapidi di S. Cono or ricordate (quella di Peregrinus diaconus e quella di Paulus infans) si conservavano nella raccolta Capialbi a Monteleone, dove le vide il Mommsen; ma invano io ve le cercai ancora, essendomi colà recato per ben due volte. L'iscrizione di Leporius del 391 si trova ora nel locale museo di Locri.
7 G. B. MARZANO, Notizie degli scavi eseguiti dal 1861 al 1886 nel Monteleonese, inserite nella Strenna dell'Avvenire Vibonese, Palmi, Tip. G. Lopresti, 1887; seconda edizione a Laureana di Borrello, Tip. del Progresso, 1925, terza edizione in G. B. MARZANO, Scritti, vol. I, Monteleone di Calabria, Tip. Froggio, 1926, pp. 41-68. L'iscrizione nostra è qui a p. 48 e 61. Purtroppo la collezione Cordopatri dopo la morte del suo autore ha subito la sorte di molte altre simili raccolte private, disgregatasi e svanita per così dire misteriosamente, per modo che nè a me nè al sig. Marchese Toraldo è riuscito di più trovare traccia della lapide di cui ora trattiamo.
8 In Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, 14 (1945), pp. 3-18; 119-141; 209-220.
9 D. TACCONE GALLUCCI, op. cit., p. 210.
10 S'intende nei testi magici (filatteri, incantesimi, amuleti). Iao è per costoro l'essere terribile anguipede, con testa di gallo, corazza al corpo, scudo al braccio e frusta in mano, spesso rappresentato sulle gemme. In una del British Museum si ha appunto la scritta Iaw, Iaei, Iew (E. GOODENOUGH, Jewish Symbols, vol. II (New York 1953) p. 222, n. 94). Naturalmente, nel nostro Iah e Iaei son la stessa forma con diversa scrittura per l'itacismo.
11 Lo stesso giudizio si ha da fare di molti altri amuleti in pietre dure trovati in Calabria, come i Basilidiana amuleta editi dal CAPIALBI, Insc. Vibonensium specimen, Napoli 1845, pp. 46-48, nn. 147-153 e quelli editi da GIUS. TACCONE, De tribus basilidianis gemmis, Napoli 1824. Non è qui il luogo di andare dietro alle strane leggende e più strane figure di queste gemme, difficilmente di origine cristiana, come abbiamo già detto. Notiamo solo in una, sotto la figura di Iaw Sabawq (travestimento di Mercurio), in un ovale il pasticcio palindromo  SAMA RwMA (ovvero AMwR AMA). Di queste gemme magiche, cosiddette gnostiche, trovate in Calabria, si è occupato il Prof. G. Pugliese Carratelli con un dotto articolo su questo stesso Archivio, XXII (1953), pp. 23-30, rettificando varie affermazioni della Crispo, per non dire del Taccone e del Capialbi.
12 Fondandomi sull'unico teste MORISANI, Inscriptiones Reginae, p. 464, da cui dipende il Mommsen, n. 15 e tutti gli altri (si vegga il testo dato dalla Crispo, p. 212 ! IL diehl riporta la seconda parte dell'iscrizione al n. 2195 adn. e poi la dà tutta intera al n. 2489). Il PUTORTI', Italia antichissima, fasc. 12 (1938), p. 19, vede nel disegno del Morisani <<un tentativo non bene riuscito di monogramma costantiniano>>, opinione che non si può accettare da chi consideri bene la figura ed il senso con cui sono scritte in essa le parole dell'acclamazione. Davanti a TRANOS ed a IONISI il mattone è sano e non si può sottintendere nulla. Del resto Ionisi vale Dionysi come Iodorus e Iogeneti valgano Diodorus e Diogeneti (DIEHL, nn. 2201 e 2853), naturalmente attraverso Zonysi, Zodorus, Zogeneti.
13 Chi vuol vedere come nelle opere più famose si possono bistrattare anche gli argomenti più semplici, consulti nel PAULY-WISSOWA, vol. IV della ser. II, coll. 2540-2542, i tre articoli successivi Tauriana e Tauriana.j sko,peloj del PHILIPP e Taurianum dell'OLDFATHER, che ripetono tre volte lo stesso argomento, naturalmente non senza contraddizioni (cfr. similmente nel vol. XIV gli articoli Marsyas e Massyas).
14 Del che si accorse già N. PUTORTI', che subito dopo l'Orsi ripubblicò questa lapide in Neapolis, II (1914), p. 342 e tav. XII, seguendo in tutto il resto l'Orsi. Ivi pure l'iscrizione consolare seguente, nella quale vuol ritrovare il consolato di Avie(no) del 450 o 501-2. Ma oltre il resto Avieno nel 501-2 dovrebbe essere senza collega, e per il 450 non c'è posto sufficiente per un supplemento Valentiniano VII et Av.
15 I supplementi proposti dall'Orsi non possono stare nè con la lunghezza delle righe, nè con la grammatica, nè con lo stile epigrafico.
16 DE ROSSI, Inscr. christ. I, nn. 154 e 156 per gli esempi di Nevitte e nn. 1459 e 1461 del supplemento del Gatti per quelli di Salie.
17 Per i supplementi degli altri versi, in parte almeno naturalmente ipotetici, devo notare che nei vv. 5-6 pare dal modo della frattura precedesse proprio un V. Invece di benemerenti si potrebbe a rigore pensare anche a benedictae.
18 ANT. DE SALVO, Notizie intorno a Metauro e Tauriana, Napoli 1886, p. 126; ORSI, loc. cit., p. 8 e 15.
D. AUGIMERI, in Not. Scavi 1889, p. 283 (donde Ephem. Epigr., VIII, p. 71, nn. 250-2); DE SALVO, cit., p. 146 (da cui TACCONE GALLUCCI, op. cit., p. 34); ORSI, cit., p. 15 e Arch. stor. Calbr. 2 (1914), p. 236; A. CRISPO, cit., p. 119; N. PUTORTI', in Neapolis cit., p. 344, e buona fotografia dell'iscrizione di Grisogono in Italia antichissima, fasc. 7 (1932) p. 50.
19 Lungo sarebbe riportare le varianti o errori degli autori precedenti: l'Augimeri omette l'ultimo verso e scrive TER invece di NEP nel quarto; l'Orsi dà [C]hrysocono Lariianus e vixii, il DE SALVO suo Lartinus, sostanzialmente esatto è il Putortì.
20 Boll. della Soc. Calabra di storia patria, III-IV (1919-1920), p. 167 e fotografata nella tav. I, 1 (mancante nell'esemplare da me visto). In una postilla di p. 177 nota che si ha da leggere propriamente m(n)hqhsi.
21 Naturalmente la prima parte del v. 5 è del tutto ad exemplum. Il mnhqhsi che segue deve stare per mnh,sqhsi (forse mnhsqh,sei?) per il suono sibilante che tendeva a prendere il q.
22 Mi permetto solo di notare che tra esse io annovero anche quella di Secundione e Felicola, sebbene altrimenti pensassero l'autore del Corpus inscr. graec. al n. 5767 e dopo di lui il KAIBEL, Inscr. graecae, XIV, n. 625. Poichè la minaccia finale lo,gon a.podi,si ei,j to, me,llon non si richiama ad un futuro qualsiasi, ma a quello che era ben presente nella mente degli antichi cristiani, cioè il giudizio finale. Non altrimenti era da intendere, come ha fatto giustamente notare il Robert, l'iscrizione di Siracusa edita già dall'Orsi con uno strano commentario e ripresa poi dal FREY, Corpus inscr. iud. n. 652 kata, tou- mellheikou- mhdi,j a.noizh ktl.
24 Rom. Quart. 1890, p. 97-107. Vi è ritornato sopra con maggior precisione e buone fotografie il Wilpert, Sarcofagi cristiani antichi, p. 71-74 e tav. LII. Un catalogo delle statue del Buon Pastore fino allora note ha dato L. CLAUSNITZER, Die Hirtenstatuette in Ctania, in Byz. Neugr. Jahrb., 2 (1921), pp. 379-388, con la giunta di due altri esempi al catalogo del Clausnitzer.
 
 

 
 
ARCHEOLOGIA TROPEANA
 di  Salvatore Libertino
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